La sentenza collegiale non sottoscritta dal solo presidente del Collegio o comunque priva di una sola delle due sottoscrizioni richieste dall’articolo 132 c.p.c. costituisce un’ipotesi di nullità sanabile, come tale implicante l’onere di impugnazione tramite appello o ricorso per Cassazione previsto dall’articolo 161, comma 1, c.p.c., la cui non proposizione conduce al passaggio in giudicato della sentenza viziata.
Il caso. La Corte d’Appello di Salerno emetteva, all’esito di un giudizio inerente una domanda di usucapione, una sentenza di accoglimento, in riforma di quella di primo grado priva della sottoscrizione del presidente del Collegio. Informato dal cancelliere di tale situazione, il presidente stesso disponeva nuovamente la comparizione delle parti e fissava, con ordinanza, una nuova udienza collegiale per rinnovare la discussione della causa, ritenendo non esaurita la potestas iudicandi del Collegio, in quanto non terminato l’iter decisorio del procedimento. Avverso tale ordinanza i soccombenti proponevano ricorso in Cassazione ai sensi dell’articolo 111, comma 7 Cost., individuando la violazione di legge nella rinnovazione della discussione di una causa nei confronti della quale il collegio, con la pubblicazione della sentenza viziata, si era spogliato del potere di decidere la controversia. La decisione del presidente aveva, inoltre, privato i ricorrenti della facoltà di impugnare la sentenza non sottoscritta. Nelle more di tale ricorso, la Corte d’Appello di Salerno emetteva una nuova sentenza, correttamente sottoscritta, di contenuto identico a quella viziata. Gli appellanti proponevano ricorso anche avverso questa pronuncia, sull’assunto per cui essa era stata emessa da un giudice privo di potestas iudicandi , esauritasi con la decisione precedentemente emessa, e chiedevano la rimessione della causa alla stessa Corte d’Appello perché rinnovasse il relativo giudizio. I due ricorsi venivano riuniti e la Seconda Sezione civile della Corte di Cassazione riteneva di dover rimettere gli atti al Primo Presidente perché valutasse l’assegnazione degli stessi alle Sezioni Unite, motivando tale decisione con la presenza di un contrasto giurisprudenziale all’interno della Suprema Corte in relazione alla natura del vizio della sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente del Collegio, alla disciplina processuale applicabile e al regime delle impugnazioni eventualmente esperibili. Le Sezioni Unite hanno concluso nei seguenti termini, previa analisi degli orientamenti interpretativi seguiti dalle sezioni semplici. Le soluzioni già proposte nullità sempre assoluta, nullità assoluta per omissione intenzionale, correzione errori materiali, rinnovazione dell’atto L’ excursus della massima manifestazione del giudice della nomofilachia comincia dall’orientamento maggioritario in tema di vizio della sentenza non sottoscritta e di rimedi per ovviare a tale vizio. Secondo tale orientamento, la sentenza priva della sottoscrizione sarebbe affetta da nullità insanabile per l’assenza di un requisito essenziale del provvedimento e tale vizio non potrebbe essere emendato tramite il procedimento di correzione degli errori materiali o per mezzo di una rinnovazione della pubblicazione da parte dello stesso giudicante che si è spogliato della relativa potestas , indipendentemente dalla intenzionalità o meno dell’omissione. Corollario di questa impostazione è la rimessione della causa, all’esito dell’impugnazione articolo 161, comma 1, c.p.c. o della diversa actio nullitatis articolo 161, comma 2, c.p.c. , al giudice che ha emesso la sentenza viziata, il quale dovrà rinnovare l’intero procedimento. Un altro orientamento, ai fini della sanabilità o meno del vizio de quo, si fonda sulla distinzione tra omissione intenzionale e omissione involontaria, assegnando solo alla prima la forza di rendere inemendabile la nullità della sentenza. Per un terzo e risalente orientamento, nel caso in esame sarebbe prospettabile la soluzione consistente nel procedimento di correzione degli errori materiali. Un ultimo filone interpretativo, poi, predica la possibilità che l’atto venga rinnovato dal giudice competente, il quale può emettere una nuova sentenza emendata dal vizio soluzione riferita per lo più a sentenze non impugnabili, quali quelle di Cassazione, in ragione proprio dell’impossibilità di sostituire la pronuncia impugnata con una nuova statuizione . Le Sezioni Unite si soffermano anche sulle tesi dottrinarie riguardanti lo specifico thema decidendi , sottolineando come, a fronte dell’orientamento maggioritario propendente per l’assolutezza e l’insanabilità del vizio in questione con conseguente esperibilità della relativa azione senza limiti temporali in ossequio al disposto dell’articolo 161, comma 2, c.p.c. , sono state prospettate soluzioni meno radicali, le quali si focalizzano sulla totalità o meno della mancanza della sottoscrizione, ascrivendo il requisito dell’emendabilità agli atti privi di una sola delle sottoscrizioni richieste dall’articolo 132 c.p.c. indipendentemente dalla volontarietà o meno di tale omissione . Nullità sanabile. Le Sezioni Unite, in primis , evidenziano un aspetto preliminare che, in uno ad altri, rende le soluzioni giurisprudenziali predette non pienamente estensibili al caso de quo . Esse, infatti, si sono focalizzate sul più grave caso di mancanza totale delle sottoscrizioni, cioè sull’evenienza per cui sia il presidente che l’estensore abbiano omesso di sottoscrivere il provvedimento. Premesso ciò, il massimo organo della nomifilachia propende per una soluzione che riconduce il vizio de quo nella categoria delle nullità sanabili prese in considerazione dall’articolo 161, comma 1, c.p.c., con la conseguente conversione dello stesso in motivo di appello o di ricorso in Cassazione. Per giungere a tale conclusione la Corte “attraversa” le altre soluzioni predicate dalla giurisprudenza, evidenziandone la fallacia. In primis , secondo il Supremo Collegio non è conveniente focalizzare l’analisi della problematica sugli stati psicologici del giudice, cioè sull’intenzionalità o meno dell’omissione de qua. Ciò in quanto le norme che vengono in rilievo articolo 132 e 161 c.p.c. non tengono in alcun conto lo stato soggettivo del giudicante, a fronte del contrario e reiterato atteggiamento del legislatore, il quale, quando ha voluto fornire rilevanza agli stati psicologici, vi ha espressamente fatto riferimento tramite specifiche norme. Parimenti non percorribile, secondo le Sezioni Unite, è la strada del procedimento di correzione degli errori materiali, che porterebbe al declassamento del requisito della sottoscrizione del provvedimento, in contrasto con una esplicita previsione di legge articolo 132 c.p.c. , da elemento essenziale a un elemento non essenziale, unica categoria per cui il procedimento de quo è esperibile. Altrettanto impraticabile è la via della rinnovazione dell’atto, essendosi il giudice privato della potestà di decidere la controversia al momento della pubblicazione della sentenza viziata potestà che non può essere recuperata attraverso una nuova deliberazione. Una volta emessa, la sentenza, ancorché gravemente viziata, può essere rimossa solo dal giudice sovraordinato tramite gli ordinari mezzi di impugnazione o attraverso un’apposita azione di nullità. La Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, tuttavia ritiene che il criterio al quale parametrare la soluzione della specifica questione venuta in rilievo sia quello che fa leva sulla mancanza totale della sottoscrizione o sulla mera insufficienza della stessa. Secondo le Sezioni Unite, il concetto di mancanza a cui soltanto si riferisce l’articolo 161, comma 2, c.p.c. non riguarda il caso sottoposto al suo giudizio, da sussumere invece nel diverso concetto di insufficienza. A tale conclusione pervengono in ragione di un’interpretazione letterale, logica e teleologica delle norme che vengono in rilievo. In ossequio a tali criteri interpretativi, la Corte evidenzia che il significato da assegnare al termine “mancanza” non può che essere quello di totale assenza di qualcosa, a differenza di quello riferibile alla locuzione “insufficienza”, che postula una presenza non completa. Tale differenza può essere rinvenuta, secondo il Supremo Collegio, in relazione alla motivazione delle sentenze, che può essere sia mancante che insufficiente, intendendosi per mancanza la sua completa assenza, per insufficienza una “deficienza contenutistica” che però presuppone comunque una presenza. Estesa una simile distinzione all’evenienza oggetto della pronuncia in commento, essa comporta che il riferimento alla mancanza della sottoscrizione di cui all’articolo 161, comma 2., c.p.c. non può che essere limitato alla completa assenza della stessa, cioè alla mancata sottoscrizione sia del presidente del Collegio che dell’estensore doppia sottoscrizione che caratterizza le sentenze collegiali . Del resto, secondo le Sezioni Unite, la ratio della norma che connota di insanabilità la nullità inerente alla mancanza della sottoscrizione consiste nella necessità che vengano espunte dalla realtà giuridica pronunce che in alcun modo possono essere ricondotte ai giudici che avrebbero dovuto emetterle. Per le sentenze collegiali questa esigenza “eliminatoria” non si manifesta in caso di mancata sottoscrizione del solo presidente o del solo estensore , in considerazione della circostanza per cui la suddetta riconducibilità non è assolutamente esclusa, ma è solo viziata. A tali argomentazioni la Suprema Corte aggiunge l’ulteriore parametro interpretativo basato su una visione costituzionalmente orientata della problematica de qua, imperniata sui principi di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo. Secondo la sentenza in commento, infatti, sarebbe irragionevole far derivare da un vizio causato normalmente da una dimenticanza l’insufficiente sottoscrizione una così radicale sanzione quale è quella della nullità insanabile, la quale porta a conseguenze catastrofiche sic per la parte vittoriosa del giudizio e grandemente favorevoli per quella soccombente. A tale considerazione se ne aggiunge una di carattere “procedurale” quella per cui è necessario tenere conto del criterio di efficienza processuale, che trova il suo fondamento costituzionale nel principio di ragionevole durata del processo ex articolo 111 Cost Ebbene, secondo il massimo giudice della nomofilachia, il predetto criterio consente che abbiano effetti devastanti sul processo i soli vizi la cui eliminazione è posta a presidio dell’altrettanto rilevante e costituzionale principio del giusto processo. Solo nella salvaguardia della giustizia del processo la sua ragionevole durata incontra un limite invalicabile. Una simile evenienza non è riscontrabile, tuttavia, secondo le Sezioni Unite, nel caso portato alla loro attenzione. Un’interpretazione che facesse derivare dalla sola insufficienza della sottoscrizione della sentenza collegiale la nullità assoluta e insanabile della stessa non salvaguarderebbe il principio di giustizia processuale, perché si annullerebbe una sentenza, in disparte la ricorrenza di altri vizi, comunque conforme al giusto processo per un vizio riconducibile ad una mera mancanza del giudice e non inficiante la provenienza dell’atto dallo stesso. In ragione di ciò, le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, propendono per la riconduzione del vizio di insufficienza della sottoscrizione della sentenza collegiale al pardigma della nullità relativa, soggetta al regime di conversione di cui all’articolo 161, comma 1, c.p.c Ne deriva, nella vicenda oggetto di giudizio, l’inammissibilità dei ricorsi in quanto proposti, rispettivamente, contro un atto non definitivo e non decisorio l’ordinanza di comparizione delle parti , e quindi non ricorribile ex articolo 111, comma 7, Cost., e contro la sentenza “sbagliata”, cioè contro la sentenza la seconda emessa in difetto di potestas iudicandi . La sentenza priva della sottoscrizione del presidente del Collegio, pertanto, passa in giudicato per mancata impugnazione nei termini e con le modalità di legge.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 11 marzo – 20 maggio 2014, numero 11021 Presidente Rovelli – Relatore Vivaldi Svolgimento del processo La vicenda processuale trae origine da un giudizio di appello, definito con la riforma della sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di usucapione dell'attrice, nel quale il presidente del Collegio aveva omesso di sottoscrivere la decisione sentenza numero 322 del 2006 . Lo stesso presidente, informato del fatto dal cancelliere, dispose la comparizione delle parti in camera di consiglio e, quindi, fissò, con ordinanza, una nuova udienza collegiale per la rinnovazione della discussione della causa sull'assunto che, non essendosi completato l'iter decisorio del procedimento, doveva ritenersi persistere la potestas judicandi in capo all'organo giudicante, per cui la causa doveva e poteva nuovamente essere posta in decisione. L'ordinanza fu impugnata dagli appellanti soccombenti con ricorso per cassazione ex articolo 111 Cost. sul rilievo che, con essa, il collegio aveva considerato la sentenza non sottoscritta tamquam non esset e non solo giuridicamente inesistente, così precludendo la possibilità di impugnarla nelle forme di legge. Evidenziarono, in particolare, che - secondo la costante giurisprudenza di legittimità - una volta intervenuta la pubblicazione della sentenza, il giudice adito si spoglia del potere di decidere sulla domanda portata al suo esame, restando la sua potestà giurisdizionale esaurita in relazione alla specifica controversia. Nelle more del ricorso, la Corte d'Appello emise una nuova deliberazione con la sentenza numero 862 del 2006, nella medesima composizione collegiale di contenuto identico alla precedente. Gli appellanti soccombenti proposero ricorso contro questa decisione, atteso che la pubblicazione della precedente sentenza, ancorché affetta da nullità assoluta, aveva comportato il totale esaurimento della potestà giurisdizionale del giudice in relazione alla specifica controversia. Chiesero, quindi, la rimessione del processo alla Corte d'appello di Salerno perché provvedesse alla rinnovazione del giudizio con un diverso collegio. In cassazione i due ricorsi sono stati riuniti. La Sezione Seconda civile, investita dei ricorsi nnumero 25447/2006 e 2696/2008 , con ordinanza del 2.7.2013 numero 16571, emessa all'esito dell'udienza del 22.5.2013, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. I ricorsi riuniti sono stati chiamati alla presente udienza davanti alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Motivi della decisione 1. La questione di diritto posta dall'ordinanza di rimessione. La Seconda Sezione Civile della Corte di cassazione, investita dei ricorsi nnumero 25447/2006 e 2696/2008, con ordinanza del 2.7.2013, emessa all'esito dell'udienza del 22.5.2013, ha trasmesso gli atti al primo Presidente, per l'eventuale assegnazione alle Sezioni unite, profilandosi, in relazione alla tematica che i ricorsi presentavano, un contrasto di soluzioni giurisprudenziali da parte delle sezioni semplici della Corte, e, comunque, ponendosi una questione di massima di particolare importanza con riferimento alla natura del vizio della sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente del collegio, alla disciplina processuale applicabile, ed al regime della sua impugnabilità. La Corte ha ripercorso e dettagliatamente illustrato l' iter della giurisprudenza della Corte che su tale tematica si è variamente pronunciata. 2. Gli orientamenti della Corte di cassazione. Nell'interpretazione giurisprudenziale assumono rilievo due distinti profili. Da un lato, le decisioni della Suprema Corte hanno investito l'ambito dell'articolo 161 cpv. c.p.c., ossia, in concreto, se vi siano ipotesi in cui l'omessa sottoscrizione, parziale o totale, non determini necessariamente un vizio assoluto della sentenza. Dall'altro, poi, l'elaborazione giurisprudenziale ha cercato di individuare quali fossero gli eventuali rimedi per ovviare al vizio in cui l'atto fosse incorso. Secondo l'orientamento maggioritario, la sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente del collegio o dell'estensore è affetta da nullità assoluta e insanabile parificata all'inesistenza per l'assenza di un requisito essenziale del provvedimento e tale vizio non sarebbe emendabile, né con il procedimento di correzione degli errori materiali, né con la rinnovazione della pubblicazione da parte del medesimo organo che ha esaurito la sua funzione giurisdizionale , senza possibilità di distinguere tra omissione intenzionale o involontaria da S.U. 9.3.1981 numero 1297 da ultimo Cass.26.5.2009 numero 12167 Cass. 28.9.2006 numero 21049 in precedenza fra le tante Cass. 16.11.1988 numero 6204 . In questa evenienza la causa, in esito all'impugnazione, va rimessa al medesimo giudice che ha emesso il provvedimento che dovrà provvedere, non alla mera rinnovazione della sentenza ma al riesame del merito della controversia. Un altro risalente orientamento, invece, ritiene che la sentenza sia integrabile attraverso l'applicazione del procedimento di correzione degli errori materiali, mentre un'ulteriore posizione distingue tra omissione intenzionale e omissione involontaria, ritenendo solo la prima inemendabile Cass. 15.3.1952 numero 694 Cass. 13.10.1975numero 3310 da ultimo, segue questo orientamento Cass. 2.12.1983 numero 7226 . Una ulteriore tesi poi, pur ribadendo la gravità del vizio, ha ritenuto ammissibile che l'atto possa essere rinnovato dallo stesso giudice funzionalmente competente con l'emissione di una nuova, valida sentenza Cass. 22.9.1993 numero 9661 Cass. 31.10.2005 numero 21193 . Questa soluzione è apparsa idonea ad assumere uno specifico rilievo con riferimento alle pronunce della Corte di cassazione che siano affette da un simile vizio vale a dire mancanti della sottoscrizione del consigliere estensore o del presidente del collegio . Rispetto a queste, infatti, non sono esperibili gli ordinari mezzi di impugnazione, e l'esperimento dell'azione di nullità - di per sé limitata alla sola rimozione della decisione invalida - impedirebbe l'adozione di una valida pronuncia sostitutiva di quella nulla. In dottrina, poi, anche se l'orientamento dominante ritiene la sentenza priva di sottoscrizione radicalmente nulla, e suscettibile di essere rimossa, oltre che con gli ordinari mezzi di impugnazione, solo con una autonoma azione di accertamento negativo, di per sé non sottoposta a limiti temporali, sono state avanzate tesi che ridimensionano l'incidenza del vizio. Sotto questo profilo, infatti, si è affermato che l'articolo 161 cpv. c.p.c. riguarda la sola ipotesi in cui l'omissione investa entrambe le sottoscrizioni - sia del presidente del collegio sia dell'estensore -, mentre, in tutti i casi di difetto parziale di sottoscrizione indipendentemente dalla volontarietà o meno dello stesso , la vicenda si incanala nella disciplina nell'articolo 156, secondo comma, c.p.c I rimedi. Secondo l'orientamento prevalente, una volta intervenuta la pubblicazione della sentenza, il giudice adito si spoglia del potere di decidere sulla domanda già portata al suo esame, dovendosi considerare il suo potere di giurisdizione esaurito in relazione a quella controversia, e la sentenza emessa - anche se, eventualmente, gravemente viziata, come nell'ipotesi di mancata sottoscrizione rituale da parte del giudice - può essere esclusivamente rimossa o attraverso l'impugnazione al giudice sopra ordinato a seconda dei casi, con l'appello o con il ricorso per cassazione - e, quindi, con gli stessi rimedi prescritti dal primo comma dell'articolo 161 cod. proc. civ. per le nullità a carattere relativo - ovvero con la proposizione di autonoma actio nullitatis , trattandosi di nullità assoluta. La mancanza di questo requisito essenziale determina - come detto - la nullità assoluta della sentenza, senza la possibilità che il vizio sia sanabile, né attraverso il procedimento di correzione degli errori materiali che presuppone un provvedimento dal contenuto affetto da omissioni od errori, ma ormai completo nel suo procedimento di formazione , né, tantomeno, con la rinnovazione della pubblicazione da parte dello stesso organo che - emessa la pronunzia - ha ormai esaurito la sua funzione giurisdizionale. Tale vizio di nullità, rilevabile anche d'ufficio, comporta la rimessione della causa al medesimo giudice che ha emesso la sentenza carente di sottoscrizione, il quale viene investito del potere dovere di riesaminare il merito della causa stessa e non può limitarsi ad una semplice rinnovazione della sentenza. Resta quindi escluso che dopo la pubblicazione della sentenza possa procedersi ad una integrazione delle sottoscrizioni con l'apposizione di quelle mancanti, per l'ormai avvenuta consumazione della potestà giurisdizionale da parte del giudice che ha emesso il provvedimento. 3. La decisione di questa Suprema Corte. Sulla questione, quindi, le posizioni assunte dalla giurisprudenza - come si è visto - sono molteplici. Dall'orientamento dominante, per il quale la sentenza collegiale priva della sottoscrizione del presidente o dell'estensore sarebbe affetta da nullità assoluta e insanabile, in quanto mancante di un elemento essenziale dell'atto si passa a quello, diametralmente opposto, per il quale il vizio sarebbe emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali. Ma queste prese di posizione riguardano la sentenza totalmente priva di sottoscrizione. Quando invece l'omissione è parziale, la visione prospettica che le Sezioni Unite intendono percorrere è quella dell'applicabilità dell'articolo 161, comma 1 c.p.c., con la conseguente conversione della nullità in motivo di impugnazione. Innanzitutto, non conviene addentrarsi nell'irto sentiero tracciato da un fugace accenno della Relazione al codice di procedura civile distinguere cioè tra errore e dolo del giudice nell'omettere la sottoscrizione. Va svalutata la rilevanza della distinzione tra omissione volontaria e involontaria. Invero, di regola gli stati soggettivi del giudice sono irrilevanti nel processo, e non costituiscono causa di nullità. Quando il legislatore ha voluto dar rilievo processuale a tali stati cognitivi lo ha fatto con norme specifiche, che hanno anche previsto un procedimento volto a tale accertamento. Di questa voluntas legis non c'è traccia alcuna nell'articolo 161 c.p.c E - va aggiunto - a giusta ragione, perché prevedere una nullità assoluta nel caso di dolosa omissione di un giudice che, magari, messo in minoranza non ha condiviso la decisione significherebbe consentire a quella voluntas prava di raggiungere i suoi effetti perversi. Le Sezioni Unite ritengono altresì che non sia percorribile il tracciato che porta all'applicazione della procedura di correzione degli errori materiali. La ragione è palese se la norma qualifica espressamente la sottoscrizione come elemento essenziale della sentenza, tanto da sancirne la mancanza con la sanzione della nullità, è evidentemente precluso il percorso ermeneutico che - in urto frontale con il testo e l'interpretazione sistematica - declassi quell'elemento da essenziale ad inessenziale per rendere possibile la procedura anzidetta. Le Sezioni Unite ritengono invece che la soluzione della quaestio iuris vada trovata, valorizzando la distinzione tra mancanza e insufficienza della sottoscrizione del giudice. Questa distinzione è familiare al codice pensiamo all'articolo 132 ultimo comma c.p.c. e deriva dalla diretta e cospirante applicazione dei criteri ermeneutici testuale, logico e della ratio legis . Cominciamo da quest'ultimo. La sottoscrizione della sentenza è richiesta per il perfezionamento dell'atto. La sottoscrizione è elemento essenziale perché la sentenza sia riconoscibile come tale e ne sia palese la provenienza dal giudice che l'ha deliberata. Forti di questa ratio legis caliamoci, ora, sul testo della disposizione e applichiamo il criterio ermeneutico linguistico si parla di sottoscrizione del giudice. Se interpretiamo il testo alla luce della ratio legis , si aprono due interpretazioni possibili a per sottoscrizione bisogna intendere la doppia sottoscrizione del presidente e del relatore b per sottoscrizione bisogna intendere la sottoscrizione di almeno un giudice. Ora, sotto il profilo testuale, mancanza ed insufficienza hanno una diversa estensione semantica l'insufficienza si predica di ciò che esiste, non di ciò che non esiste. Per fare un esempio, una motivazione mancate non può essere definita insufficiente. E si può qualificare insufficiente solo una motivazione che comunque c'è. Anche sotto il profilo logico, mancanza e insufficienza non sono categorie concettualmente assimilabili in un unicum indifferenziato. La mancanza di un elemento dell'atto significa assenza totale dell'elemento. L'insufficienza significa invece che l'elemento esiste ma è viziato non è mancante , ma manchevole . Alla diversità concettuale corrisponde una diversità funzionale. Nel nostro caso, la mancanza di sottoscrizione impedisce la riconducibilità dell'atto al giudice collegiale. Laddove invece l'insufficiente sottoscrizione da parte del giudice collegiale non impedisce che tramite la firma presente la sentenza sia direttamente ascrivibile al giudice che l'ha pronunciata. I criteri ermeneutici testuale, logico e della ratio legis sono definitivamente rafforzati dal criterio ermeneutico dell'interpretazione costituzionalmente orientata. Vengono in rilievo il principio di razionalità e quello di ragionevole durata. Dal principio di razionalità, che deve innervare qualsiasi interpretazione giuridica, ricaviamo il seguente argomento a secondo un criterio di normalità, la mancanza di una delle firme di una sentenza collegiale è normalmente cioè nella quasi totalità dei casi dovuta a semplice dimenticanza b ora, è irrazionale far derivare da un mero, banalissimo errore conseguenze così catastrofiche per la parte vittoriosa e conseguenze così clamorosamente favorevoli per la parte soccombente. Il principio di razionalità è, a sua volta, potentemente rafforzato dal principio di ragionevole durata del processo e della sua diretta implicazione operativa cioè il criterio di efficienza processuale. Questo principio ci dice le nullità insanabili hanno un effetto devastante sul processo. Un tale effetto si giustifica solo se il costo del ritardo è bilanciato e dunque giustificato dal risultato di accrescere sensibilmente la giustizia del processo. Dunque, il principio di ragionevole durata trova un limite insormontabile nel principio del giusto processo. Ma, nel nostro caso, un'interpretazione che sancisse la nullità assoluta della sentenza priva di una delle due sottoscrizioni sarebbe un formidabile vulnus alla ragionevole durata del processo ma - al tempo stesso – sarebbe una ferita aperta allo stesso principio del giusto processo, perché si annullerebbe una sentenza conforme al giusto processo a meno che ovviamente non vi siano altri vizi ma questa è prospettiva che non ci riguarda . È davvero difficile immaginare un'interpretazione che - in un colpo solo - ferisca giusto processo e ragionevole durata. La distinzione, invece, tra mancanza e insufficienza della sottoscrizione schiva tutti questi inconvenienti e ripristina la razionalità del sistema non si può rispondere a quello che è - secondo criteri di normalità - un banale errore di dimenticanza con una reazione così spropositata come la nullità assoluta. Occorre una rispondenza logica - cioè una proporzione - tra azione e reazione all'errore per dimenticanza si reagisce col meccanismo della nullità sanabile, cioè del primo comma dell'articolo 161 c.p.c La nullità c'è perché la fattispecie processuale concreta non è conforme al tipo normativo in quanto un elemento strutturale di essa - pur essendoci - è difettoso. Ma si tratta di un vizio emendabile, nel senso che la mancata proposizione del motivo di impugnazione da luogo ad una fattispecie processuale alternativa - normativamente prevista dall'articolo 161 comma 1 c.p.c. - equipollente a quella tipica ed idonea al raggiungimento dello scopo. 4. L'esame dei ricorsi. Le conclusioni cui si è pervenuti rendono evidente l'inammissibilità dei ricorsi per cassazione proposti. Il primo ricorso R.G. 25447/2006 è stato proposto avverso un provvedimento - l'ordinanza del 28.7.2006 - che non ha contenuto decisorio, con la conseguente inammissibilità della sua impugnazione con il ricorso ex articolo 111 Cost Il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'articolo 111 Cost., infatti, è proponibile avverso provvedimenti giurisdizionali emessi in forma di ordinanza o di decreto solo quando essi siano definitivi ed abbiano carattere decisorio cioè siano in grado di incidere con efficacia di giudicato su situazioni soggettive di natura sostanziale fra le varie S.U. ord. 8.3.2006 numero 4915 S.U. ord. 23.1.2004 numero 1245 . Il che ovviamente non è con riferimento ad un'ordinanza che chiude soltanto una fase incidentale del processo. Il secondo ricorso R.G.2698/2008 ha ad oggetto l'impugnazione della sentenza nuovamente resa dalla Corte di merito correttamente, con la sottoscrizione anche del Presidente del Collegio, ma emessa - per le ragioni dette - in carenza di potestas iudicandi . Le ricorrenti, invece, avrebbero dovuto impugnare con ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 360 numero 4 c.p.c. proprio la prima sentenza, pubblicata in data 31.3.2006, emessa dalla Corte di merito priva della sottoscrizione del Presidente del Collegio, convertendo il vizio in motivo di ricorso per cassazione. Diversamente, questa sentenza è passata in giudicato per la sua mancata impugnazione. Conclusivamente, i ricorsi sono dichiarati inammissibili. Le ragioni della decisione e la complessità delle questioni trattate giustificano la compensazione delle spese processuali. P.Q.M. La Corte, pronunciando a sezioni unite, dichiara inammissibili i ricorsi. Compensa le spese.