Mero errore del giudicante, nessun pregiudizio: ecco le ragioni del niet alla ricusazione avanzata dai legali di Berlusconi

Confermata la legittimità e la correttezza della posizione del magistrato Maria Teresa Guadagnino, componente del collegio giudicante sia nel processo Mediaset che in quello Unipol, entrambi con Silvio Berlusconi nei panni di imputato. Nodo gordiano, secondo i legali dell’ex premier, il non completo richiamo normativo, da parte del giudice, nella valutazione della capacità a delinquere dell’imputato, espressa nella sentenza del processo Mediaset. Ma il presunto errore del giudice è ritenuto irrilevante rispetto all’ipotesi di un pregiudizio verso l’imputato.

Valutazione non precisamente dettagliata sulla “capacità a delinquere” della persona sotto accusa – ossia Silvio Berlusconi –, ma ciò non basta per dedurre un “pregiudizio” da parte del giudice. Ecco spiegato il niet definitivo alla richiesta di ricusazione, presentata dai legali di Berlusconi, del magistrato Maria Teresa Guadagnino Cassazione, sentenza numero 30181, Sesta sezione Penale, depositata oggi . Doppio fronte. Due i casi scottanti che coinvolgono Silvio Berlusconi, e che vedono la Guadagnino come componente del collegio giudicante da un lato, il fronte Unipol, ossia la pubblicazione dell’intercettazione Fassino-Consorte dall’altro, il fronte Mediaset, ossia la contestazione del reato di frode fiscale. Ad avviso dei legali dell’ex premier, a chiusura del procedimento Mediaset, terminato in secondo grado con una condanna per Berlusconi – e approdato in Cassazione, con udienza fissata, come noto, per il prossimo 30 luglio –, il giudice ha espresso «osservazioni indicative di un grave pregiudizio accusatorio», destinato a ripercuotersi anche sulle valutazioni relative al processo Unipol. Ecco spiegata la richiesta di «ricusazione», che, però, viene respinta dai giudici della Corte d’Appello. Nessun pregiudizio. Anche in questo caso, però, la partita si trascina fino in Cassazione, laddove i legali di Berlusconi ribadiscono la legittimità della «ricusazione», contestando la decisione dei giudici di secondo grado e sottolineando, ancora una volta, che il nodo gordiano è rappresentato dalle «affermazioni del giudicante, che determinava la capacità a delinquere» dell’ex premier «in base ad un erroneo riferimento al solo primo comma dell’articolo 133 del Codice Penale, che concerne la gravità del reato, senza alcun riferimento al secondo comma dello stesso articolo». Rilevante è il valore che i legali di Berlusconi conferiscono a questo presunto errore «l’aver tratto giudizi sulla capacità a delinquere da elementi diversi da quelli voluti dal legislatore dimostra una spiccata ansia di grave condanna nei confronti dell’imputato» e «il giudizio sulla capacità a delinquere anche se non soprattutto , perché desunto da fonti non previste dalla legge dimostra pregiudizio nei confronti dell’imputato». Ma tale visione viene ritenuta assolutamente «illogica» dai giudici della Cassazione, i quali, difatti, confermano il niet alla domanda di «ricusazione». E, sia chiaro, l’utilizzo dell’aggettivo “illogica” è testuale perché i giudici affermano che «è privo di qualsiasi consequenzialità logica affermare che il presunto errore del giudice nelle corrette modalità di individuazione degli elementi da cui desumere la capacità a delinquere errore consistente nell’averne dimenticati taluni dimostri, di per sé e senza alcun altro elemento specifico, una tale ansia di grave condanna». Altrimenti, seguendo la linea proposta dai legali di Berlusconi, si dovrebbe approdare alla «affermazione che qualsiasi possibile errore del giudicante rappresenti una manifestazione di pregiudizio nei confronti dell’imputato»

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 4 giugno - 12 luglio 2013, numero 30181 Presidente Agrò – Relatore Di Stefano Ritenuto in fatto Con ordinanza del 12 novembre 2012 la Corte d’Appello di Milano ha dichiarato inammissibile la dichiarazione di ricusazione presentata il precedente novembre da B.S. nei confronti del giudice G.M., giudice monocratico assegnataria del procedimento a suo carico RG9153/2012, ritenendo sussistere l’ipotesi di cui all’articolo 3 lettera c cod. proc. penumero Secondo il ricorrente il magistrato, avendo composto il collegio in un altro processo a carico dello stesso soggetto per frode fiscale, condannando il medesimo con la sentenza contestuale del 26 ottobre 2012 della quale risultava coestensore, nel determinare la pena formulava osservazioni indicative di un “grave pregiudizio accusatorio” nei confronti dell’imputato. Secondo la Corte - la ricusazione era stata proposta dopo la scadenza del termine dell’articolo 38 comma 1° cod. proc. penumero in quanto la causa di ricusazione era già nota a far data dal 26 ottobre 2012 lo stesso imputato aveva rilasciato dichiarazioni sulla vicenda riportate dai quotidiani. - Comunque il giudice ricusato aveva espresso le proprie valutazioni nell’ambito dell’esercizio di funzioni giudiziarie in un altro processo, circostanza che esclude la ricorrenza dell’ipotesi di cui all’articolo 36 lettera c cod. proc. penumero . - Non vi è alcuna evidenza di situazioni concrete di “pregiudizio accusatorio” tenuto conto dalla assenza di collegamento fra i due processi e che le valutazioni in questione sono restate nell’ambito della attività giudiziaria. B.S. propone ricorso avverso tale ordinanza con atto a firma dei propri difensori. Con primo motivo deduce la violazione dell’articolo 38 commi 1° e 2° cod. proc. penumero . Non è vero che sia dimostrata la conoscenza da parte del ricorrente delle circostanze su cui si fonda l’istanza di ricusazione, peraltro non potendosi fare riferimento alla pubblicazione di notizie sui giornali non essendo questo un “fatto notorio”. Inoltre la ragione che fondava la ricusazione andava individuata non solo nel contenuto della sentenza del 26 ottobre ma anche nella condotta del magistrato che il giorno 8 novembre non aveva accolto l’invito ad astenersi. Con secondo motivo deduce la violazione di legge in relazione all’articolo 36 lettera c cod. proc. penumero Premette che erroneamente la corte di Appello ritiene che l’articolo lett. c cod. proc. penumero escluda le valutazioni rese dal giudice ricusato in diverso processo, ma evidenzia che in realtà la propria ragione di ricusazione era ben altra. Difatti la questione da lui posta riguardava le affermazioni del giudicante che determinava la capacità a delinquere del ricorrente in base ad un erroneo riferimento al solo primo comma dell’articolo 133 cod. penumero , che concerne la “gravità dal reato”, senza alcun riferimento al secondo comma dello stesso articolo. Quindi, secondo il ricorrente, l’aver tratto giudizi sulla capacità a delinquere da elementi diversi da quelli voluti dal legislatore dimostra una “spiccata ansia di grave condanna nei confronti dell’imputato”. “Il giudizio sulla capacità a delinquere anche se non soprattutto perché desunto da fonti non previste dalla legge dimostra pregiudizio nei confronti dell’imputato.” Il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto dichiararsi la inamissibilità del ricorso. Ritiene difatti corretta la motivazione della Corte di Appello quanto alla tardività del ricorso nonché corretta l’affermazione che l’espressione di valutazioni nel corso di attività giudiziarie non integra l’indebito manifestazione di parere sull’oggetto del procedimento di cui all’articolo 36 lettera c . Con la memoria aggiuntiva il ricorrente ribadisce i propri motivi osservando anche che il giudice, anziché attendere il giudizio della Corte di Cassazione sulla ricusazione, pronunciava sentenza di condanna. Considerato in diritto Il ricorso deve essere rigettato. Il primo motivo è fondato in quanto erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto inutilmente decorso il termine per proporre ricusazione. Secondo la Corte di Appello, nel caso di specie era ampiamente decorso il termine di tre giorni di cui al secondo comma dell’articolo 38 cod. proc. penumero poiché la sentenza nel corpo della quale era contenuta la valutazione che viene invocata quale fondante la condizione di cui all’articolo 36 lett. c cod. proc. penumero era stata pubblicata il 26 ottobre 2012 “né di detta causa appare ipotizzabile, nel caso concreto, una tardiva conoscenza da parte del titolare del potere di ricusare l’imputato S.B. , tenuto conto delle sue pronte ed immediate dichiarazioni sullo specifico punto, riportate dai maggiori quotidiani”. E, quindi, è evidente che la corte di Appello ha ragionato in senso di ritenere la circostanza della effettiva conoscenza provata alla stregua del “notorio”. Va precisato, innanzitutto, che la ragione della ricusazione non è stata collegata dal ricorrente al fatto in sé della avvenuta condanna con sentenza a firma anche del giudice ricusato, ma è stata collegata alle specifiche valutazioni effettuate in tema di capacità a delinquere, quindi allo specifico contenuto della sentenza in particolare la pag. 85, come dalla difesa nel verbale indicato di dibattimento . La prima questione che si pone riguarda allora l’interpretazione delle disposizioni di cui all’articolo 38 2° comma, cod. proc. pen, dovendosi stabilire se la “conoscenza” del fatto che rappresenta la causa di ricusazione “sia divenuta nota” vada intesa quale effettiva conoscenza da parte del soggetto interessato o, invece, come conoscibilità secondo ordinaria diligenza o, nel caso della pubblicazione della sentenza, come conoscenza legale. Nel caso in cui rilevi la semplice conoscibilità, ovviamente, non potrebbe invocarsi la disciplina di cui al secondo comma dell’articolo 38 cod. proc. penumero , a prescindere dal tema della utilizzabilità delle notizie di stampa. La giurisprudenza di questa corte al riguardo ha sostenuto entrambe le interpretazioni secondo l’una linea interpretativa, dovendosi privilegiare l’esigenza di maggior certezza, va ritenuto corretto che si faccia riferimento alla conoscibilità secondo ordinaria diligenza - altrimenti i favorirebbe ingiustificatamente l’imputato nel caso tipico in cui costui è rimasto contumace infatti in un tale caso, l’imputato, assente al processo, si vedrebbe di fatto riconoscere un termine più ampio per una eventuale proposizione di ricusazione. Secondo l’altra linea interpretativa, invece, va privilegata una interpretazione letterale dell’espressione “sia divenuta nota”. Ritiene il Collegio che la norma in questione vada intesa nel senso che il riferimento debba essere fatto alla effettiva conoscenza laddove si tratti di circocostanza verificatasi al di fuori della processo. Infatti, fatta salva l’ipotesi in cui causa della ricusazione sia un evento del processo contumaciale Sez. 6, numero 14222 del 29/01/2007 - dep. 05/04/2007, B. e altro, Rv 236395 “che non è altrettanto da revocare in dubbio il principio di diritto, fondato sulla disposizione volta a disciplinare la contumacia, per il quale i termini di decadenza di cui all’articolo 38 commi 1° e 2° cod. proc. penumero operano anche nei confronti dell’imputato che, per sua libera scelta, abbia rinunziato a presenziare all’udienza ovvero,, Che sia contumace, in quanto l’articolo 487 cod. proc. penumero stabilisce che l’imputato è rappresentato dal difensore” ciò risulta dall’interpretazione letterale dell’artìcolo 38 2° cormma cod. proc. penumero laddove “divenuta nota” non può che essere riferito al soggetto destinatario della disposizione. Inoltre, trattandosi di una disposizione che fissa un termine di decadenza, la stessa va ritenuta norma eccezionale in quanto pone una limitazione al diritto riconosciuto alla parte di rilevare ragioni che facciano temere il venire meno la terzietà del giudice questa è una ulteriore ragione per la quale non è possibile una interpretazione che non sia strettamente letterale del termine “divenuta nota” ovvero una interpretazione estensiva che vi faccia rientrare anche il significato di “conoscibile”. In questo contesto, posto che non spetta alla parte che propone la ricusazione l’onere di dimostrare di aver rispettato i termini di decadenza ma che una tale eventuale prova gli debba essere opposta, correttamente la Corte di Appello ha inteso individuare se emergessero elementi per ritenere tale effettiva conoscenza in tempi tali da ritenere Inutilmente decorso il termine di cui all’articolo 38 cod. proc. penumero Nel provvedimento impugnato, come detto sopra, si ritiene, con motivazione succinta, che tale conoscenza effettiva vi fosse ritenendo che è notorio che il ricorrente, noto uomo politico, ebbe a rendere dichiarazioni sullo specifico punto, riportate dai maggiori quotidiani”. Quindi la Corte d’Appello ritiene che la circostanza rientri nell’ambito del “notorio” pur non utilizzando espressamente tale termine. Si premette che, comunque, nel provvedimento impugnato non si specifica se il fatto notano sia l’avere imputato reso dichiarazioni sul processo, e quindi la prova debba essere riferita semplicemente alla conoscenza della avvenuta condanna, oppure sia l’aver dimostrato a conoscenza dello specifico contenuto della motivazione, ivi comprese le valutazioni di cui alla pagina 85 indicate quale espressione del pregiudizio del giudicante, in ogni caso si è palesemente al di fuori dell’ipotesi di un “fatto notoio” rilevante in sede penale. Si rammenta come nella giurisprudenza penale di questa Corte si sia ammessa la possibilità di introdurre, oltre alte massime di esperienza, anche i “fatti notori” che sono circostanze che possono essere affermate con certezza trattandosi di fatti i comune conoscenza per la generalità dei cittadini ovvero, quantomeno, per un determinato ampio gruppo di persone. Non si tratta, quindi, di fatti che rientrano nella conoscenza privata, ancorché si tratti i conoscenza diffusa, del giudice ma di fatti che, proprio perché noti ad una generalità di soggetti, non necessitano di una specifica verifica probatoria. Tale mezzo di prova è trattato più ampiamente dalla giurisprudenza civilistica, in relazione alla specifica previsione di cui all’articolo 115 cod. proc. civ., affermandosi principi che appaiono chiaramente riferibili anche al processo penale “Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo corto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista che della sua incidenza sull’interesse pubblico che spinga ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo” Sez. 6-5, Ordinanza numero 2808 del 06/02/2013 Rv. 625457 ”. Ma non si tratta certamente di una regola applicabile al caso di specie. Innanzitutto, come già detto, la genericità della informazione che si assume provenire dalla lettura dei giornali non consente di dire se il ricorrente fosse a conoscenza di quel dato contenuto della sentenza di condanna a più semplicemente del mero fatto storico in sé della condanna. Inoltre non si tratta certamente di un “fatto” che diventa noto alla collettività in quanto pubblicizzato dalla generalità della stampa senza necessità di un apprezzamento sulla estensione ed accuratezza della informazione, Si tratta, invece, di un genericissimo riferimento a commenti dell’imputato venendo in questo caso a discutersi della utilizzabilità probatoria di una atecnica testimonianza de relato da parte degli articolisti peraltro non in diretto contatto con la fonte, ben probabilmente potendo aver riportato notizie di agenzia . Inoltre, a ben vedere, il fatto notorio non consiste neanche nella circostanza che il dato soggetto abbia dimostrato di avere letto la motivazione bensì il presunto fatto notorio è che i giornali abbiano riportato la circostanza che il ricorrente abbia reso dichiarazioni sul particolare tema della sentenza di condanna nei suoi confronti. In tal modo, quindi, si finirebbe per affermare che quarto riportato dalla generalità dei “maggiori quotidiani” possa sempre essere acquisito al processo quale fatto notorio ma è una conclusione palesemente insostenibile. Ribadita, quindi, la necessità di far riferimento alla conoscenza effettiva della casa di ricusazione, non è dimostrato che tale conoscenza sia intervenuta prima dell’udienza dell’8 novembre 2012. Pertanto, la dichiarazione di ricusazione è intervenuta entro i termini di legge. E’ invece manifestamente infondato il secondo motivo, La Corte di Appello, pur avendo affermato la tardività della ricusazione, ha comunque affrontato il merito della stessa afferrando che non ricorre affatto alcuna significativa anomalia nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Nel ricorso, pur se inizialmente sembra che si voglia afferrare anche “che si possa pretendere che un giudice che ha condannato una persona debba astenersi da giudicarlo ulteriormente”, si precisa poi che la ragione di ricusazione non né l’aver partecipato al diverso giudizio né l’insoddisfazione del ricorrente sulla entità della pena bensì l’avere il giudice ricusato “espresso un giudizio sulla personalità dell’imputato in tema di capacità a delinquere”. E, secondo il ricorrente, la modalità con la quale il giudice ricusato avrebbe desunto la capacità a delinquere, ovvero facendo riferimento al primo ma non al secondo comma dell’articolo 133 cod. proc. penumero “Integra un grave errore”. Il passaggio ulteriore del ricorso è l’aver commesso un errore “contestualmente dimostra spiccata ansia di grave condanna nei confronti dell’imputato”. In realtà è privo di qualsiasi consequenzialità logica affermare che il presunto errore del giudice nelle corrette modalità di individuazione degli elementi da cui desumere la capacità a delinquere errore consistente nell’averne dimenticati taluni dimostri, di per sé e senza alcun altro elemento specifico, una tale “ansia di grave condanna”. Peraltro, tale conclusione del secondo motivo del ricorso non corrisponde più alla iniziale doglianza sulla precedente indebita manifestazione di parere ma appare introdurre la diversa ipotesi di “inimicizia grave” articolo 38 lett. D cod. proc. penumero , unica cui può ricollegarsi la lamentata manifestazione di “pregiudizio nei confronti dell’imputato”. Ma, a parte l’evidente irregolarità della deduzione di una nuova ragione di ricusazione in sede di legittimità, anche in questo caso appare del tutto priva di nesso logico la generica affermazione che qualsiasi possibile errore del giudicante rappresenti una manifestazione di pregiudizio nei confronti dell’imputato. Tale impostazione risulta confermata anche nella memoria difensiva presentata dopo la espressione di parere da parte del Procuratore Generale. Come anticipato, da quanto esposto consegue il rigetto del ricorso. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.