Rapporti sessuali con la compagna: il rifiuto implicito di lei vale una condanna

Nessun dubbio sulla colpevolezza di un uomo, punito con cinque anni di reclusione. Egli ha caricato la donna su un taxi e lì i due hanno consumato il rapporto. Dalla vicenda però è emerso che lei non si è opposta in maniera palese solo per paura e per tutelare la figlia.

Ha caricato letteralmente la propria compagna su un taxi e lì, su quel veicolo, i due hanno fatto sesso. Tutto regolare solo in apparenza L’uomo, difatti, si ritrova ora condannato a cinque anni di reclusione per violenza sessuale. Il contesto della vicenda e il tipo di rapporto esistente nella coppia ha fatto emergere, secondo i giudici, la costrizione subita dalla donna, rendendo irrilevante perciò l’accondiscendenza da lei prestata all’atto sessuale in automobile Cassazione, sentenza numero 39223, sezione terza penale, depositata oggi . Costrizione. Chiara la linea difensiva proposta dall’avvocato dell’uomo e finalizzata a contestare la condanna per «violenza sessuale» pronunciata in appello. Secondo il legale, non si può ignorare che «la compagna» del suo cliente «si era spontaneamente risolta a seguirlo a bordo del taxi», e soprattutto si deve tenere presente «la soggezione da lei prestata, in quei frangenti, agli approcci sessuali del compagno, segno evidente, in ragione della pregressa convivenza, della volontà di riallacciare la relazione». Questa ricostruzione della vicenda non convince affatto i giudici della Cassazione, che respingono l’ipotesi che non si possa parlare di «violenza sessuale» a causa della «mancata esternazione del dissenso» della donna all’approccio compiuto dall’uomo. Su questo fronte i magistrati chiariscono che la «costrizione» subita dalla vittima di una violenza sessuale può concretizzarsi in «qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale», anche perché «non esiste all’interno di detto rapporto un diritto all’amplesso, né conseguentemente il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale senza il consenso del partner». Poi, allargando l’orizzonte, viene aggiunto che «il concetto di intimidazione psicologica rimanda necessariamente al peculiare contesto spazio-temporale in cui si svolge l’azione, assumendo rilievo le contingenze specifiche che oltre a comprimere la capacità di reazione del soggetto passivo, ne limitino in concreto l’espressione di volontà». Violenza. Quest’ultima considerazione si attaglia perfettamente alla vicenda in esame, poiché «il contesto di sopraffazioni, umiliazioni e violenze fisiche quanto mai efferate che avevano incessantemente caratterizzato la sia pur breve convivenza tra la donna e il compagno, sin da quando questa era rimasta incinta della figlia, per effetto delle condotte del compagno, che aveva ridotto la donna ad uno strumento del suo volere, nonché bersaglio continuativo dei suoi impulsi iracondi ed incontrollati». Ecco perché non è possibile, spiegano i Giudici del Palazzaccio, «ritenere che l’accondiscendenza finale prestata dalla donna all’atto sessuale, subito passivamente a bordo di un taxi su cui l’uomo l’aveva fatta salire, potesse configurare, né tantomeno essere percepita dall’uomo come libera espressione di una sua scelta». Anche perché va ulteriormente tenuto presente «il peculiare frangente in cui si è svolto l’episodio, posto che la donna si trovava insieme alla figlia all’interno di un Centro Antiviolenza dove si era rifugiata per sfuggire definitivamente al compagno e da cui era uscita solo per incontrare la madre » evidente, quindi, la sua condizione, di «perdurante paura» nei confronti del compagno che «intendeva, come immediatamente comunicatole, “rientrare in possesso” della figlia e prima ancora individuare il luogo in cui era stata collocata». Assolutamente naturale, quindi, concludono i magistrati, che la donna, in tale contesto, «si sia prestata a qualunque genere di richiesta pur di riuscire a tutelare la bambina dalle pretese del padre di prenderla e portarla con sé, necessariamente percepite da lei non già come espressione di un sentimento affettivo paterno, ma soltanto come l’ennesimo segno della propria volontà di dominio incontrollato, pronta a sfociare in una nuova manifestazione di violenza ove non fosse stato assecondato nell’immediatezza». Inevitabile perciò la conferma della condanna dell’uomo, colpevole di «violenza sessuale» ai danni della compagna. Respinta completamente l’ipotesi difensiva di «un implicito consenso al rapporto sessuale desumibile dalla remissività della donna», poiché «ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale non ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca quando», come in questa vicenda, «è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del suo rifiuto implicito agli atti sessuali».

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 21 giugno– 29 agosto 2018, numero 39223 Presidente Sarno/Relatore Galterio Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 7.3.2017 la Corte di Appello di Roma ha confermato, per quanto qui interessa, la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Velletri in ordine alla penale responsabilità di A.D.S. per il reato di violenza sessuale commesso in data 15.3.2004 ai danni della convivente, rideterminando la pena, stante la contestuale declaratoria di improcedibilità per gli episodi di violenza sessuale anteriori a tale data in quanto estinti per prescrizione, a cinque anni di reclusione. Avverso il suddetto provvedimento l’imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando due motivi con i quali lamenta 1 la riconducibilità del fatto al reato di cui all’articolo 609-bis cod. penumero attesa sia l’insussistenza di qualsiasi forma di violenza o sopraffazione ai danni della vittima la quale si era spontaneamente risolta a seguire l’imputato a bordo di un taxi dapprima presso l’abitazione della zia e poi nella casa familiare di X ascrittogli, sia la soggezione da costei prestata in quel frangente agli approcci sessuali del compagno, segno evidente, in ragione della pregressa protratta convivenza, della volontà di riallacciare la relazione 2 l’intervenuta prescrizione del reato. Considerato in diritto 1. Il primo motivo è inammissibile risultando le censure relative alla mancata esternazione del dissenso da parte della vittima, per avere spontaneamente assecondato le pulsioni sessuali dell’imputato, formulate per la prima volta innanzi a questa Corte senza che abbiano mai formato oggetto di contestazione con i motivi di appello. La funzione propria del sindacato di legittimità cui è sotteso il presente grado di giudizio non consente, infatti, di dedurre con il ricorso per cassazione, in applicazione la regola ricavabile dal combinato disposto degli articolo 606, comma terzo, e 609, comma secondo, cod. proc. penumero , questioni non prospettate nei motivi di appello – tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o di quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado d’appello –, principio questo che trova la sua “ratio” nella necessità di evitare che possa sempre essere rilevato un difetto di motivazione della sentenza di secondo grado con riguardo ad un punto del ricorso, non investito dal controllo della Corte di appello, perché non segnalato con i motivi di gravame Sez. 4, numero 10611 del 04/12/2012 - dep. 07/03/2013, Bonaffini, RV. 256631 Sez. 5, numero 28514 del 23/04/2013 - dep. 02/07/2013, Grazioli Gauthier, RV. 255577 . In ogni caso le doglianze svolte incorrono nella censura di inammissibilità anche sotto il profilo della manifesta infondatezza. Con riferimento alla mancanza di dissenso da parte della vittima occorre rilevare che, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte, integra il reato di cui all’articolo 609-bis cod. penumero nella forma cd. “per costrizione” disciplinata dal primo comma qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire gli atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale, atteso che non esiste all’interno di detto rapporto un diritto all’amplesso, né conseguentemente il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale senza il consenso del partner Sez. 3, numero 14789 del 04/02/2004 - dep. 26/03/2004, Riggio, RV. 228448 . Il concetto di intimidazione psicologica rimanda necessariamente al peculiare contesto spaziotemporale nel quale si svolge l’azione, assumendo rilievo le contingenze specifiche che oltre a comprimere la capacità di reazione del soggetto passivo, ne limitino in concreto l’espressione di volontà non vale ai fini del perfezionamento del delitto l’espressione manifesta del dissenso della vittima allorquando la sua volontà venga coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi scaturirebbero dal rifiuto esplicito all’atto sessuale impostole, quale forma di violenza indiretta, dall’agente. Ciò premesso, il contesto, ben evidenziato dalla Corte di merito, di sopraffazioni, umiliazioni e violenze fisiche quanto mai efferate che avevano incessantemente caratterizzato la sia pur breve convivenza tra la parte offesa e l’imputato sin da quando questa era rimasta in cinta della figlia venuta alla luce nel per effetto delle condotte del compagno, che aveva ridotto la donna ad uno strumento del suo volere, nonchè bersaglio continuativo dei suoi impulsi iracondi ed incontrollati, legittimamente attinto dalla condotta anteatta di costui non essendo preclusa al giudice la possibilità di esaminare i fatti ritenuti costitutivi del reato di maltrattamenti, già dichiarato prescritto, ai fini della dichiarazione di responsabilità per il delitto sottoposto al suo esame Sez. 1 numero 23176 del 20.1.2004, Lorenzini, RV. 228236 , non consente di ritenere che l’accondiscendenza finale da costei prestata all’atto sessuale, subito passivamente a bordo di un taxi su cui l’uomo l’aveva fatta salire, potesse configurare, né tantomeno essere percepita dall’imputato come libera espressione di una sua scelta. Va infatti tenuto ben presente, ai fini dell’inquadramento dell’episodio, il peculiare frangente Io stesso in cui si è svolto, posto che la donna si trovava insieme alla figlia all’interno di un Centro Antiviolenza dove si era rifugiata per sfuggire definitivamente al compagno e da cui era uscita solo quel giorno per incontrare a la madre da qui la condizione, messa in evidenza dalla sentenza impugnata, di perdurante paura nei confronti del compagno, tramutatasi in panico, quando lo ha incontrato, accompagnato dal suo clan familiare, capace come lui di ogni sopruso, ignara di poter essere raggiunta alla stazione ferroviaria, appena scesa dal treno, dall’uomo che intendeva, come immediatamente comunicatole, “rientrare in possesso” della figlia e prima ancora individuare il luogo in cui era stata collocata. È quindi naturale come la vittima, in tale contesto, si sia prestata a qualunque genere di richiesta pur di riuscire a tutelare la bambina dalle pretese del padre di prenderla e portarla con sé, necessariamente percepite dalla madre non già come espressione di un sentimento affettivo paterno, ma soltanto come l’ennesimo segno della propria volontà di dominio incontrollato, pronta a sfociare in una nuova manifestazione di violenza ove non fosse stato assecondato nell’immediatezza. A fronte del quadro delineato, con stringente e lineare motivazione, dalla sentenza impugnata in ordine al contesto in cui si è consumato il reato, del tutto inconsistenti risultano le doglianze della difesa dirette a rimarcare l’implicito consenso al rapporto sessuale desumibile dalla remissività della donna. Al riguardo è sufficiente ribadire, in conformità a quanto già affermato da questa Corte, che ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, non ha, invero, valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca “quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali cfr. Cass. sez. 3 numero 16292 del 7.3.2006 Sez. 3, numero 29725 del 23/05/2013 - dep. 11/07/2013, M, RV. 256823 Sez. 3, numero 39865 del 17/02/2015 - dep. 05/10/2015, S, RV. 264788 . 2. L’inammissibilità del motivo appena esaminato non consente, in assenza di un valido rapporto di impugnazione, di rilevare dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’articolo 129 c.p.p., Sez. U, numero 32 del 22/11/2000 - dep. 21/12/2000, De Luca, RV. 217266 , essendo nella specie la prescrizione del reato maturata, tenuto conto, oltre che dei termini fissati dall’articolo 157 cod. penumero a decorrere dalla data di consumazione del reato, del periodo di sospensione di 5 mesi e 24 mesi già calcolato dalla Corte di Appello, successivamente alla sentenza impugnata. Segue all’esito del ricorso la condanna del ricorrente a norma dell’articolo 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.