Protagonista – in senso negativo– un attempato signore che in alcune occasioni aveva avuto rapporti sessuali a pagamento con la donna. Successivamente, però, l’uomo l’ha obbligata a prestazioni gratuite da lei non volute, minacciando di raccontare tutto al compagno.
Prima l’ha pagata per fare sesso. Poi l’ha minacciata di rivelare quella sua vita segreta al fidanzato, costringendola così a soddisfarlo con ‘prestazioni’ ulteriori e gratuite. Legittimo parlare di violenza sessuale Cassazione, sentenza numero 11564/18, sez. III Penale, depositata oggi . Rapporti sessuali. A vestire i panni di protagonista negativo della bruttissima storia è un attempato signore, che, a 70 anni suonati, ha preso di mira la donna con cui aveva avuto rapporti sessuali a pagamento. L’uomo, non più propenso a sborsare soldi, le ha spiegato che «avrebbe rivelato al fidanzato» la sua vita segreta, e con questa minaccia l’ha costretta «ad avere altri rapporti sessuali contro la sua volontà». Inevitabile la condanna per «violenza sessuale». L’uomo è però ritenuto responsabile anche di «violenza privata», poiché «ha costretto la donna a ritirare la denuncia sporta nei suoi confronti, minacciando di investirla con la macchina, seguendola in luoghi da lei frequentati e minacciandola» ancora «che avrebbe reso pubblici i rapporti avuti con lei». Comune la linea di pensiero assunta dai Giudici prima in Tribunale, poi in Corte d’Appello e ora in Cassazione. Nessun dubbio, in sostanza, sulla colpevolezza dell’uomo. Irrilevante è ritenuta la circostanza che in un primo momento ci fossero stati «rapporti sessuali a pagamento» questo elemento non è sufficiente, secondo i Giudici, a minare la credibilità della donna, che ha raccontato in dettaglio «le condotte ricattatorie» subite, che l’hanno costretta a sottostare ai desideri dell’uomo. Per quanto concerne poi l’ipotesi di una riduzione di pena, i Giudici respingono i richiami difensivi all’«età avanzata» e ai «problemi di salute» dell’uomo sufficiente la considerazione che quei dati «non hanno avuto alcun effetto inibitorio» su di lui.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 14 novembre 2017 – 14 marzo 2018, numero 11564 Presidente Rosi – Relatore Andronio Ritenuto in fatto 1. - Con sentenza del 28 gennaio 2016, la Corte d'appello di Ancona ha confermato la sentenza del 17 gennaio 2013 del Tribunale di Ancona, con la quale l'imputato era stato condannato, anche al risarcimento del danno nei confronti della parte civile, per i reati di cui agli articolo 81, secondo comma, 609 bis, 56, 610, 368 cod. penumero , perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso con la minaccia di rivelare al compagno della persona offesa i rapporti sessuali con lei avuti, la costringeva ad avere altri rapporti sessuali, contro la sua volontà compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere la stessa persona offesa a ritirare la denuncia sporta nei suoi confronti, minacciando di investirla con la macchina, seguendola in luoghi da lei frequentati, minacciandola che avrebbe reso pubblici i rapporti sessuali avuti con lei falsamente la accusava, con una querela, dei reati di diffamazione e calunnia. 2. - Avverso la sentenza l'imputato ha proposto personalmente ricorso per cassazione. 2.1. - Con un primo motivo di doglianza, dopo aver richiamato gli obblighi motivazionali normalmente incombenti sul giudice d'appello, il ricorrente lamenta la manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo della mancata considerazione della contraddittorietà degli esiti della prova testimoniale. 2.2. - In secondo luogo, si prospetta l'erronea applicazione delle disposizioni incriminatrici. In relazione alla violenza sessuale, si sostiene che la Corte d'appello non avrebbe indicato atti concretamente posti in essere idonei ad integrare la minaccia, né avrebbe specificato in cosa sarebbe consistita la costrizione della presunta vittima, la quale si sarebbe prestata rapporti sessuali dietro pagamento di denaro. Quanto alla tentata violenza privata, mancherebbe la prova di una coartazione della libertà della vittima e non vi sarebbe motivazione circa il mancato riconoscimento dell'ipotesi più lieve di cui all'articolo 612 cod. penumero non sarebbe dimostrata neanche la idoneità e la univocità degli atti posti in essere. Quanto alla calunnia, la stessa sarebbe esclusa dall'esigenza dell'imputato di difendersi da accuse infamanti e prive di fondamento. 2.3. - In terzo luogo, si lamentano vizi della motivazione in relazione alla determinazione della pena e alla sua mancata riduzione nella misura massima per le concesse attenuanti generiche. Non si sarebbero considerati il risarcimento in favore della parte civile, l'età avanzata dell'imputato e le sue condizioni di salute. Considerato in diritto 3. - Il ricorso è inammissibile, perché basato su doglianze non specifiche, prive di puntuali riferimenti critici alla motivazione della sentenza impugnata. 3.1. - Il primo motivo di doglianza - relativo alla manifesta illogicità della motivazione circa la valutazione dell'attendibilità della persona offesa e dell'altra testimone - è generico, perché basato sul mero richiamo di principi giurisprudenziali relativi agli obblighi di motivazione del giudice d'appello, senza che vi sia alcuna considerazione del concreto contenuto delle deposizioni e della valenza probatoria a queste attribuita dai giudici di primo e secondo grado, con conforme valutazione. La sentenza impugnata, del resto, risponde ai rilievi difensivi in modo completo e coerente, sottolineando la sostanziale coincidenza delle dichiarazioni accusatorie delle due testimoni, caratterizzate da chiarezza e puntualità sugli elementi essenziali della vicenda. Né la circostanza che la persona offesa in un primo momento avesse avuto rapporti sessuali a pagamento con l'imputato risulta idonea ad escluderne la attendibilità, a fronte dei numerosi riscontri analiticamente descritti in sentenza, ed essendo del tutto plausibile, sul piano logico, la ricostruzione secondo cui quest'ultima si era vista costretta ad assecondare gli istinti sessuali dell'imputato, sotto la minaccia della rivelazione di pregressi rapporti a pagamento all'allora fidanzato di lei. 3.2. - Inammissibile è anche il secondo motivo di doglianza, con il quale si prospetta l'erronea applicazione delle disposizioni incriminatrici, ma si intende, sostanzialmente, contestare la motivazione della sentenza. Anche con questa censura il ricorrente si limita a generiche asserzioni del tutto sganciate da rilievi critici alla motivazione della sentenza impugnata e a quella di primo grado, da questa richiamata e fatta propria. Il Tribunale, ritenendo attendibili le conformi dichiarazioni accusatorie della persona offesa e della testimone, ha ampiamente descritto le condotte ricattatorie poste in essere dall'imputato e il conseguente livello di costrizione imposte alla vittima. Quanto, poi, al reato di tentata violenza privata, lo stesso è stato posto in essere secondo le modalità descritte nell'imputazione, che sono tali da escluderne in radice la derubricazione nella fattispecie di cui all'articolo 612 cod. penumero E, del resto, il complessivo atteggiamento dell'imputato nei confronti della persona offesa è stato ampiamente riscontrato da altra testimone oculare. Quanto, infine, alla calunnia la relativa condotta è stata analiticamente descritta, oltre che nella sentenza di primo grado, alla pag. 9 nove della sentenza d'appello, da cui emerge l'intento ricorsivo e autodifensivo dell'imputato stesso. 3.3. - Del tutto generico è anche il terzo motivo di doglianza, con cui si lamentano vizi della motivazione in relazione alla determinazione della pena e alla sua mancata riduzione nella misura massima per le concesse attenuanti generiche. Il Tribunale e la Corte d'appello hanno, infatti, adeguatamente preso in considerazione gli elementi segnalati dalla difesa, quali il risarcimento in favore della parte civile, l'età avanzata dell'imputato e le sue condizioni di salute. In particolare, nella sentenza impugnata si afferma - con valutazione di merito insindacabile in questa sede - che l'età avanzata e i problemi di salute dell'imputato non hanno avuto alcuna valenza inibitoria, perché egli ha perseverato per un notevole lasso di tempo nella propria condotta, particolarmente invasiva. 4. - Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, numero 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. penumero , l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 2.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle ammende.