Il dipendente si fa male durante una rapina: nessun risarcimento

La Cassazione spiega l’onere della prova in materia di sicurezza sul lavoro. Il bancario che subisce un infortunio sul lavoro, in occasione di una rapina, non ha diritto al risarcimento del danno, qualora la banca abbia adempiuto gli obblighi di cui all’art.2087 c.c., osservando gli standard di sicurezza presenti in tutte le altre filiali dell’istituto.

Ciò vale a maggior ragione se il lavoratore infortunato non abbia indicato nel ricorso ulteriori sistemi di sicurezza, suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche oppure dagli standard di sicurezza normalmente osservati, che la banca avrebbe potuto o dovuto osservare. Così ha deciso la sezione Lavoro della Corte di Cassazione con una sentenza depositata il 28 febbraio scorso n.3033 . Il caso. Un bancario era incorso in un infortunio, a seguito di una rapina avvenuta mentre era in servizio e, quindi, aveva chiesto il risarcimento del danno alla banca invocando l’articolo 2087 c.c Il lavoratore, però, aveva addotto a sostegno della domanda meri rilievi generici, omettendo di puntualizzare che cosa non avesse funzionato nella sicurezza e che cosa avrebbe dovuto e potuto fare il datore di lavoro per adempiere pienamente ai relativi obblighi. Conseguentemente, la domanda era stata rigettata sia in primo che in secondo grado. Di qui il ricorso per cassazione, che terminava comunque con il rigetto, essenzialmente per due ragioni. Prima di tutto perché l’adempimento degli obblighi relativi all’articolo 2087 c.c. risultava osservato, in quanto l’istituto bancario aveva osservato gli standard in vigore in tutte le filiali della banca. E poi perché il ricorso, non essendo stato puntualmente argomentato con l’indicazione delle omissioni effettuate dal datore di lavoro, risultava redatto in violazione del principio di autosufficienza del ricorso. L’onere della prova cambia a seconda che la prova sia nominata o innominata. La sentenza è di particolare interesse perché reca la nozione di onere della prova in materia di infortuni sul lavoro, sia dal lato del lavoratore che dal lato del datore di lavoro. Il tutto distinguendo tra prove c.d. nominate quando gli adempimenti obbligatori sulla sicurezza sono espressamente previsti da norme speciali e prove c.d. innominate quando gli adempimenti discendono dalla previsione generale di cui all’articolo 2087 c.c. e, quindi, vanno ricavati secondo il principio della ordinaria diligenza e dell’id quod plerumque accidit . Se la prova è nominata, basta il mero inadempimento. In particolare, nel caso delle prove nominate, il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere - nonché il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce, dunque, nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno. Se è innominata, è necessaria la colpa del datore. Nel caso delle prove innominate, invece, la Suprema corte ha spiegato che al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza, nonché il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre non è gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che invece incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento. Ciò in parziale deroga al principio generale stabilito dall’articolo 2697 c.c., sintetizzato nel noto brocardo «Probatio incumbit ei qui dicit non ei qui negat» l’onere della prova ricade su chi dice afferma, accusa e non su chi nega si difende . In più, sempre dal lato del datore di lavoro, citando la propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha chiarito che la prova liberatoria a carico di parte datoriale risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge o altra fonte equiparata , siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 dicembre 2011 – 28 febbraio 2012, numero 3033 Presidente Canevari – Relatore Maisano Svolgimento del processo Con sentenza del 2 luglio 2009 la Corte d'Appello di Bari ha confermato la sentenza del Tribunale di Foggia del 6 ottobre 2006 con la quale è stata rigettata la domanda proposta da Avanzo Gaspare intesa ad ottenere la condanna della Banca di Roma s.p.a. al pagamento in suo favore della somma di L. 46.900.000 a titolo di risarcimento danni per asserito infortunio sul lavoro subito nella qualità di dipendente della stessa Banca in occasione di una rapina perpetrata presso l'agenzia X di Foggia del medesimo istituto. La Corte territoriale ha motivato tale sentenza considerando che la Banca aveva adempiuto all'obbligazione di cui all'articolo 2087 cod. civ. essendo stata accertata, presso la filiale di della Banca di Roma, l'osservanza degli standard di sicurezza presenti in tutte le altre filiali dell'Istituto, ed inoltre il lavoratore non aveva allegato ulteriori sistemi di sicurezza, suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche o dagli standard di sicurezza normalmente osservati, che la Banca avrebbe potuto o dovuto osservare. L'A. propone ricorso per cassazione avverso tale sentenza articolato su cinque motivi. Resiste con controricorso l'Unicredit s.p.a. in proprio e quale incorporante l'Unicredit Banca di Roma s.p.a. succeduta alla Banca di Roma s.p.a. e presenta memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli articolo 1218, 2087 e 2697 cod. civ. con riferimento all'asserito errore in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nel gravare il lavoratore creditore, oltre che dell'onere di allegazione delle misure di sicurezza che si assumono violate, anche della prova dell'avvenuta violazione, mentre invece spetterebbe al datore di lavoro provare che il danno subito dal dipendente si è verificato per causa a lui non imputabili. Con secondo motivo si deduce omessa e contraddittoria motivazione circa un punto fondamentale della controversia con riferimento al mancato accertamento dell'osservanza di eventuali sistemi di sicurezza maggiormente idonei rispetto a quelli adottati dalla Banca di Roma, essendosi limitata la Corte d'Appello a considerare l'adozione delle misure standard adottate nelle altre filiali del medesimo istituto. Con terzo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 cod. civ. non avendo la Corte territoriale accertato l'osservanza di eventuali sistemi di sicurezza maggiormente idonei, ed avendo fatto ricadere sul lavoratore tale mancato accertamento su circostanza decisiva che sarebbe stato onere del datore di lavoro provare. Con il quarto motivo si assume insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia con riferimento al fatto costituente l'inadempimento dell'obbligo di sicurezza. In particolare si assume che la Corte territoriale avrebbe ritenuto la mancata allegazione di tale inadempimento mentre nel ricorso introduttivo erano stati dettagliatamente indicati i sistemi di sicurezza omessi, per cui la Banca di Roma avrebbe dovuto provare la mancanza di nesso causale fra l'omissione dei sistemi di sicurezza indicati dal lavoratore, e l'evento. Con il quinto motivo si lamenta violazione dell'articolo 2697 cod. civ. e 115 e 116 cod. proc. civ. In particolare si assume che erroneamente la Corte d'Appello avrebbe affermato che il lavoratore non avrebbe provato la mancata adozione da parte della Banca di Roma delle misure necessarie ad impedire il verificarsi del danno, in quanto tale prova sarebbe stata fornita dalle prove testimoniali indicate nel ricorso introduttivo e ritualmente espletate. I motivi possono essere esaminati congiuntamente facendo tutti riferimento all'inadempimento della Banca resistente, alla allegazione delle misure di sicurezza omesse, ed all'onere probatorio, argomenti tutti, fra l'altro, strettamente connessi fra loro. Posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell'articolo 2087 cod. civ., sul piano della ripartizione dell'onere probatorio al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre - in parziale deroga al principio generale stabilito dall'articolo 2697 cod. civ. - non è gravato dall'onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento, onere che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell'inadempimento. Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che le misure di sicurezza - asseritamente omesse - siano espressamente e specificamente definite dalla legge o da altra fonte ugualmente vincolante , in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici quali le misure previste dal d. lgs. numero 626 del 1994 e successive integrazioni e modificazioni, come dal precedente d.P.R. numero 547 del 1955 , oppure debbano essere ricavate dallo stesso articolo 2087 cod. civ., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso - riferibile alle misure di sicurezza cosiddette nominate - il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa - ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere - nonché, ovviamente, il nesso di causalità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno. Nel secondo caso - in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette innominate - la prova liberatoria a carico del datore di lavoro fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge o altra fonte equiparata , siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe Cass. 25 maggio 2006 numero 12445 . Nel caso in esame la Corte territoriale, facendo corretta applicazione di tali principi, ha considerato gli standard di sicurezza normalmente osservati individuandoli, a seguito delle prove testimoniali assunte, in quelli osservati nelle altre filiali del medesimo istituto bancario resistente. Dal canto suo il lavoratore ricorrente, a fronte della logica affermazione della sentenza impugnata secondo cui non è emersa alcuna negligenza da parte della Banca di Roma o alcuna violazione degli obblighi di sicurezza, non ha indicato, nel ricorso per cassazione, le misure che il datore di lavoro avrebbe dovuto adottare e che la Corte territoriale non avrebbe considerato, né ha indicato almeno in quali atti sarebbe possibile rinvenire l'indicazione di tali misure asseritamente allegate, ed il loro contenuto che la stessa Corte d'appello non avrebbe esaminato o valutato. Per cui il motivo di gravame violerebbe comunque anche il principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione. Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna da ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 30,00 oltre ad Euro 2.000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA.