L’ampliamento della tutela del consumatore nel decreto Cresci-Italia: un paradosso?

Non sorprende che l’inesorabile azione da parte del nostro ordinamento a favore del consumatore prosegua e si intensifichi con l’introduzione di nuove disposizioni all’interno del variegato Decreto sulle liberalizzazioni. Infatti, il D.L. numero 1/2012, pubblicato in Gazzetta Ufficiale numero 19 del 24 gennaio 2012, dedica l’intero Capo II alla tutela del consumer integrando e, in parte, modificando, quanto già previsto dal Codice del consumo d.lgs. 6 settembre 2005, numero 206 .

Ebbene, volendo focalizzare l’attenzione sulla narrativa del disposto in esame, emerge agli occhi del lettore ancora una volta la volontà, da parte del legislatore, di rafforzare la posizione del consumatore. Del resto – ormai è risaputo – che il proprium dell’intervento del legislatore stia nella stretta corrispondenza protezione del consumatore – libera competizione fra professionisti. Ma alla luce di quanto la littera legis esprime, è stato in realtà raggiunto l’obiettivo? La tutela del consumatore dalle pratiche commerciali scorrette. Si parte dal chiaro presupposto per cui la progressiva attenzione verso la figura del consumatore e, di conseguenza, verso il relativo fondamentale diritto ad un’adeguata protezione, ha fatto sentire l’esigenza di una mirata ed efficace produzione normativa finalizzata a garantire a quest’ultimo una scelta consapevole e correttamente informata. È innegabile che detto obiettivo abbia visto il proliferare nel tempo di specifici provvedimenti da parte del legislatore comunitario, nonché – di riflesso – da parte del legislatore nazionale, volti alla creazione di un programma normativo di settore che ha avuto, sin dagli esordi, quale destinatario principale il consumatore, al fine di assicurare a quest’ultimo un elevato ed efficace livello di protezione. Si è stati sempre dell’idea per cui elevando il ruolo del consumer ad arbitro dei rapporti economici, la possibilità per un’impresa di assumere una posizione dominante nel mercato, mediante fissazione unilaterale dei prezzi e delle condizioni di offerta di beni e servizi, sarebbe diventata del tutto marginale e remota. Dunque, quello prospettato nel panorama comunitario e che è stato recepito, di volta in volta, dal nostro ordinamento ha contribuito e continua a contribuire alla creazione di una solida cultura giuridica in tal senso e, pertanto, non può che configurarsi quale strumento di tutela idoneo a fornire una protezione giuridica più intensa volta ad integrare eventuali insufficienze informative ovvero a tutelare il consumatore da informazioni potenzialmente idonee a trarre in inganno i destinatari, a prescindere da un effettivo e concreto pregiudizio economico subito da quest’ultimi. Ebbene, quei comportamenti che il professionista può assumere e che possono compromettere l’interesse economico del consumatore, trovano collocazione nella direttiva 2005/29/Ce, recepita successivamente dal nostro ordinamento con due dd.llgs. nnumero 145 e 146 del 2 agosto 2007 che, come ormai è più che noto, reprimono le pratiche commerciali scorrette, causa di pregiudizio, seppur in forma indiretta, per il buon funzionamento del mercato transfrontaliero. Spiegata la ratio nonché, seppur per sommi capi, il significato dell’accezione «pratiche commerciali sleali», non resta che individuare il campo di applicazione soggettivo del disposto normativo di origine comunitario. Il «consumatore medio». Sin dal momento del recepimento della direttiva 2005/29/Ce, dai più è stata sottolineata la sproporzione esistente tra il campo di applicazione oggettivo e quello di applicazione soggettivo del disposto. Il primo è caratterizzato da una valutazione complessiva della condotta del professionista che addirittura include tutti quei comportamenti assunti anteriormente, contestualmente o anche posteriormente alla conclusione dell’accordo contrattuale, purché diretti a falsare in maniera rilevante il comportamento economico del consumatore. Su un diverso piano di operatività, invece, di pone il secondo campo di applicazione della disciplina. La nuova figura di consumatore – quale destinatario, nonché ‘vittima’ di pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive – adottata dalla lett. b del § 2 dell’articolo 5 della direttiva 2005/29/Ce e, successivamente, trasposto nell’articolo 18, lett. a cod. cons., si colloca su un asse differente. Affiancandosi alla definizione contenuta nell’articolo 3 cod. cons., l’ambito di applicazione soggettivo di nuovo conio non spicca per diversità rispetto alla previsione già elaborata nello stesso codice che, poiché generale, a sua volta ammette l’introduzione di disposizioni che ne costituiscono la relativa particolarità. In altri termini, alla molteplicità di condotte imprenditoriali che la disciplina comunitaria prevede, a quanto pare, non corrisponde – in riferimento all’ambito applicativo soggettivo – una proporzionale categoria di destinatari il che, per quanto del tutto coerente con il carattere di specialità della direttiva in commento, non ne facilità l’applicazione rendendo, di conseguenza, poco agevole il compito dell’operatore di diritto. In effetti la nozione di consumer prevista dal disposto comunitario nonché dallo stesso codice del consumo, rispetto a quella già esistente, non contempla né la persona fisica che svolga un’attività commerciale – la figura del c.d. cliente imprenditore – né tantomeno la persona giuridica che è priva di tutela a prescindere che sia profit o non profit. Pertanto, nel circoscritto settore delle consumer transactions, la direttiva risalta, con evidente inversione di tendenza, la necessità di proteggere, esclusivamente il consumatore – melius «il consumatore medio» quale soggetto normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto – dalle pratiche commerciali scorrette. Ebbene, tale standard medio di riferimento indurrebbe a ritenere che la direttiva in commento abbia optato per una drastica riduzione del livello di tutela. Così interpretata, infatti, la normativa lascerebbe inevitabilmente fuori dall’ambito di applicabilità, il consumatore particolarmente vulnerabile, debole o atipico. Viene così in aiuto il considerando numero 18 della direttiva 2005/29/Ce per cui nella identificazione della figura di consumatore bisogna necessariamente tener conto di parametri connessi a fattori sociali, culturali e linguistici cui lo stesso considerando fa menzione. Tuttavia, a prescindere dal contesto in cui colui che effettua una transazione commerciale vive, non può non tenersi ben presente quanto è indicato nella stessa lett. a dell’articolo 18 cod. cons L’articolo, infatti, definisce «consumatore» «qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale». Ebbene, la norma è chiara nel suo intento, poiché esclude, senza lasciar spazio a diverse interpretazioni, dall’ambito di applicazione soggettivo coloro che svolgono attività imprenditoriale che va intesa in senso proprio e, dunque, comprensiva sia dell’impresa agricola, ex articolo 2082 c.c., sia di quella commerciale ex articolo 2195 c.c. a prescindere dalle dimensioni della struttura. La riforma alcune domande. Ed è proprio in questo contesto che opera l’articolo 7 del decreto sulle liberalizzazioni. Il disposto in commento, infatti, interviene, ampliando l’ambito di applicazione soggettivo ed estendendo la tutela da pratiche commerciali ingannevoli ed aggressive anche alle microimprese. Dunque, risulta inequivocabilmente, dalla prima lettura della norma, la volontà di estendere anche agli imprenditori titolari di piccole imprese la legittimazione attiva per l’esperimento dell’azione collettiva in caso di esercizio di pratiche commerciali sleali. Da qui una prima considerazione. È mai possibile che la figura del professionista quale soggetto che opera nell’ambito della sua attività cui da sempre è stata riconosciuta una maggiore competenza tecnica sul prodotto e/o servizio offerto sul mercato, possa essere parificata ad un soggetto debole, totalmente - o quasi - a digiuno delle regole di mercato? Inoltre, perché dovremmo pensare che, in una contrattazione B2B, tra un imprenditore titolare di un’attività di notevole dimensioni ed un piccolo imprenditore vi sia il noto gap informativo, quale insostituibile ed unico presupposto ai fini dell’esperimento dell’azione inibitoria? Del resto, proprio l’asimmetria informativa che caratterizza le contrattazioni B2C e che rendono vulnerabile il consumatore costituiscono la ratio di fondo del corpus normativo a favore della parte debole del contratto e, come tale, imprescindibile ai fini dell’applicazione della disciplina. Ed ancora. Si immagini una contrattazione tra piccolo imprenditore e consumatore. Estesa la possibilità di esercizio dell’azione inibitoria anche al piccolo imprenditore, quest’ultimo inevitabilmente sarà equiparato al contraente debole pur possedendo un bagaglio informativo decisamente superiore. Facilmente intuibile - nonché doverosa - è la considerazione per cui il piccolo operatore professionale non sarà tenuto a quel dovere d’informare giuridicamente rilevante in mancanza del quale il consumatore sarebbe indotto a stipulare un contratto a condizioni per lui non favorevoli. Un’ultima chiosa. Considerata l’equità di status contrattuale, il consumatore, non essendo più parte debole del contratto, non potrà di certo appellarsi – si pensi al classico caso di omissione informativa – alla tutela a suo favore predisposta ed oggetto della direttiva 2005/29/Ce. La domanda a questo punto nasce spontanea ma in che modo è stata ampliata la tutela del consumatore? Si tutela un ‘debole’ imprenditore o paradossalmente un consumatore ‘evoluto’?