L’incompletezza della documentazione fornita all’Amministrazione Finanziaria integra sempre il reato di dichiarazione infedele?

Non è sufficiente affermare che il reato deriva da una colposa inattività che non ha consentito la doverosa ricostruzione documentale, senza accertare se l’infedeltà della dichiarazione deriva da un volontario atteggiamento psichico finalizzato, appunto, all’evasione fiscale.

È quanto emerge dalla sentenza numero 11380/2014 della Corte di Cassazione, depositata lo scorso 10 marzo. Il caso. La Corte di Appello di Milano confermava interamente la sentenza con cui il Tribunale di Como – sezione distaccata di Menaggio – aveva affermato la penale responsabilità di C.F. per il reato di cui all’articolo 4 d.lgs. numero 74/2000 in particolare l’imputato, legale rappresentante di una società, al precipuo fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avrebbe indicato nella dichiarazione annuale presentata per l’anno 2005 elementi attivi per un ammontare inferiore a quelli effettivi. Più specificamente, la contestazione era stata originata dalla incompletezza della documentazione tributaria fornita dal C.F. all’amministrazione finanziaria, laddove la giustificazione addotta per tale parziale omissione era che i documenti in questione si trovavano in un immobile della società il cui tetto in amianto era crollato e, pertanto, ciò aveva reso impossibile il recupero degli stessi. La Corte di Appello aveva rigettato le doglianze difensive statuendo, anzitutto, che l’imputato non aveva fornito alcuna prova dell’asserito incidente secondariamente che, indipendentemente da ciò, l’imputato non era comunque esonerato dal produrre la documentazione richiesta infine, che doveva presumersi la volontà del C.F. di evadere il fisco stante sia la sua condotta parzialmente inadempiente che la sussistenza di un precedente penale specifico, per il medesimo reato, già oggetto di pronuncia definitiva. Avverso tale sentenza l’imputato ricorreva per Cassazione, deducendo due differenti motivi di gravame. In primis, violazione di legge per erronea mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’articolo 45 c.p. in particolare, il ricorrente osservava che era stata la stessa Commissione Tributaria Provinciale di Como, con sentenza, ad aver acclarato non solo l’effettivo accadimento relativo al crollo del tetto ed alla conseguente impossibilità di recuperare parte della documentazione, ma anche la totale assenza di dolo o colpa grave in capo alla condotta posta in essere dal C.F., con conseguente revoca delle sanzioni tributarie irrogate dall’Ufficio. L’imputato lamentava, inoltre, l’errore di diritto afferente l’applicazione di un principio di diritto tributario, ovvero l’onere della prova a carico del contribuente, all’interno del processo penale laddove, invece, vige l’onere della prova a carico della Pubblica Accusa. In secundis, il ricorrente deduceva erronea applicazione dell’articolo 4 d.lgs. numero 74/2000 e mancanza di motivazione sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato altrimenti detto, la sussistenza del dolo specifico richiesto ai fini della configurazione del reato de quo sarebbe stata presuntivamente dedotta semplicemente dalla presenza del precedente penale specifico fermo restando che la mancata attivazione nel produrre tutta la documentazione richiesta, astrattamente rilevante in termini di colpa, non è comunque idonea ad integrare il dolo specifico. L’onere della prova differente disciplina tra la sede tributaria e quella penale. La Corte di Cassazione, con la sentenza de qua, ha avuto modo di precisare alcuni importanti principi in tema di reati tributari. I Supremi Giudici hanno, infatti, chiarito come le valutazioni e le decisioni adottate in sede tributaria non sono, sic et simpliciter, applicabili in sede penale, nella quale l’integrazione della fattispecie penale va accertata e motivata in base a diversi principi di diritto. In altri termini, il Giudice penale non può fondare le proprie determinazioni sulla scorta delle mere presunzioni valevoli per l’accertamento tributario, considerato che spetta invece all’Organo Requirente provare la sussistenza dell’elemento oggettivo – ovvero la falsità della dichiarazione – e soggettivo – ovvero il dolo specifico – del reato contestato. Donde, poiché la fattispecie criminosa in questione si consuma al momento della dichiarazione, occorrerà raggiungere la piena prova che in quel determinato momento sussisteva in capo al soggetto agente il dolo di falsificare la medesima al precipuo fine di evadere le imposte. Il dolo specifico di evadere le imposte. La Corte di legittimità ha statuito come non è consentito ritenere sussistente la penale responsabilità per il reato di dichiarazione infedele a titolo di colpa, per il solo fatto di non essersi attivato nella mancata ricostruzione della documentazione fiscale. In effetti, la fattispecie de qua sanziona la condotta di colui che, consapevolmente e volontariamente, rilasci all’erario una dichiarazione mendace – e, pertanto, infedele – allo specifico fine di evadere il Fisco. Occorrerà, pertanto, dimostrare che la dichiarazione era infedele a seguito e quale diretta conseguenza della specifica e predeterminata intenzione dell’imputato di evadere, con la stessa, le imposte sui redditi o sul valore aggiunto.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 13 novembre 213 – 10 marzo 2014, numero 11380 Presidente Mannino – Relatore Franco Svolgimento del processo Con la sentenza in epigrafe la corte d'appello di Milano confermò la sentenza emessa l'1.2.2002 dal giudice del tribunale di Como, sezione distaccata di Menaggio, che aveva dichiarato C.F. colpevole del reato di cui all'articolo 3 d. lgs. 10 marzo 2000, numero 74, perché, quale legale rappresentante della società Alluminio Dongo S.p.a. in liquidazione , al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indicava nella dichiarazione annuale presentata per l'anno 2005 elementi attivi in materia di imposte sui redditi per un ammontare inferiore a quello effettivo, e lo aveva condannato alla pena di anni 2 di reclusione, oltre pene accessorie. La contestazione era nata dal fatto che la documentazione fornita dalla parte alla amministrazione finanziaria era incompleta. L'imputato aveva sostenuto che ciò era dipeso dal fatto che i documenti contabili si trovavano in un immobile della società il cui tetto di amianto era crollato per le infiltrazioni di acqua e che non era stato possibile recuperarli proprio la presenza di amianto. Aveva quindi invocato la causa di forza maggiore. La corte d'appello ha rigettato l'assunto difensivo osservando - che l'avvenuto crollo era rimasto una mera affermazione di parte priva di prove - che comunque l'assunto non esonerava l'imputato dal documentare i dati rilevanti per la dichiarazione dei redditi - che non avendo l'imputato dimostrato quanto richiesto, doveva presumersi che volesse evadere il fisco - che era irrilevante la pronuncia dei giudici tributali - che l'imputato non aveva offerto prova della presenza della contabilità d'interesse nel luogo, pregiudicato dal crollo e non aveva prodotto duplicati della documentazione perduta - che inoltre la personalità dell'imputato, oggetto di una sentenza di patteggiamento per lo stesso reato, deponeva per una condotta predeterminata all'evasione - che non poteva applicarsi l'articolo 45 cod. penumero laddove il comportamento soggettivo non fornisca adeguata giustificazione del fatto. L'imputato, a mezzo dell'avv. Carlo Enrico Paliero e dell'avv. Mario Aniello, propone ricorso per cassazione deducendo 1 violazione di legge per erronea mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall'articolo 45 cod. penumero . Ricorda innanzitutto che la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Como del 21 giugno 2011 riteneva pacificamente accertato l'accadimento del crollo dell'edificio adibito ad archivio contabile, con la conseguente statuizione che l'evento in questione avrebbe ben potuto integrare l'invocata causa di forza maggiore. Di conseguenza, era espressamente esclusa l'esistenza di dolo o colpa grave in capo al C. , con definitiva revoca delle sanzioni irrogate dall'Ufficio. Inoltre, anche il giudice di primo grado non aveva mosso contestazioni in relazione alla sussistenza del crollo. È pertanto contraddittoria la sentenza impugnata laddove, da una parte, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto la giustificazione dell'imputato e condiviso la decisione della commissione tributaria e, da una altra parte, ha affermato che l'imputato avrebbe dovuto attivarsi per ricostruire completamente la propria documentazione fiscale e contabile. In sostanza la corte d'appello ha ritenuto che la causa di forza maggiore non sarebbe invocabile in materia tributaria. Lamenta quindi che la sentenza è innanzitutto incorsa in un errore di diritto atteso che l'articolo 45 c.p. è indiscutibilmente applicabile a qualsivoglia fattispecie di reato, ed è del resto riprodotto dall'articolo 6 D. L.vo 472/97, recante disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie. In secondo luogo, è erroneo il parallelismo effettuato in motivazione con una non identificata sentenza di questa Corte che si riferiva ad una vicenda del tutto diversa. Inoltre, è erronea l'affermazione che l'invocazione del crollo del magazzino sarebbe rimasta una mera dichiarazione di parte, atteso che il fatto storico del crollo è documentalmente provato ed affermato come avvenuto da parte del giudice di primo grado. Lamenta poi che la corte d'appello ha erroneamente applicato un principio proprio e tipico del diritto processuale tributario - ovverosia quello attinente all'onere della prova che è, in detta sede, posto a carico del contribuente - nell'ambito del diritto processuale penale, ossia al di fuori del proprio ambito. Nel processo penale, infatti vige il principio che è l'accusa a dover fornire la prova della ipotesi di reato ipotizzata. È pertanto erronea l'affermazione per cui l'imputato doveva fornire la prova piena dell'effettiva verificazione dell'evento costituente causa esimente di cui all'articolo 45 c.p 2 erronea applicazione dell'articolo 4 d. lgs. 10 marzo 2000, numero 74 sotto il profilo dell'elemento soggettivo, e, in ogni modo, per mancanza di motivazione su tale punto. Osserva che la corte d'appello ha ritenuto la sua responsabilità penale sulla base della sua mancata solo parziale attivazione ai fini del recupero della copia di tutta la documentazione contabile. Si è quindi configurata una sorta di onere di dimostrazione [che costituisce una] parte integrante del dovere del contribuente , che discende dalla diretta applicazione dei principi generali di diritto tributario, ma che non può certamente essere tenuto in considerazione, in sede penale. La corte d'appello ha aggiunto apoditticamente che l'esistenza del dolo richiesto dalla norma si desume dalla personalità dell'imputato quale emerge dai precedenti penali. Ricorda quindi che il reato de quo è punito a titolo di dolo specifico. Nella specie è stato accertato che l'imputato era materialmente impossibilitato a reperire la documentazione, irrimediabilmente contaminata dalle fibre di amianto liberatesi con il crollo del tetto. In sede penale non è possibile procedere per presunzioni. Quindi, la mancata attivazione potrebbe costituire — tutt'al più — un mero rimprovero per colpa per non essersi utilmente dato da fare per tentare di recuperare tutta la documentazione utile alla ricostruzione della propria movimentazione fiscale. Pertanto, secondo anche quanto già ritenuto dal giudice di primo grado, l'asserita dichiarazione infedele rassegnata dal C. all'erario non discende da una cosciente e volontaria rappresentazione decettiva dei fatti, strumentalmente orientata a evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ma da una sua colposa inattività che non ha poi consentito la doverosa ricostruzione documentale. È poi pacifico che non si possa desumere l'elemento soggettivo del dolo specifico dalla mera sussistenza di precedenti giudizi a carico del medesimo imputato per reati simili o analoghi. Osserva anche che la prova della buona fede dell'imputato emerge anche dalla cronologia degli eventi. Motivi della decisione Il ricorso è fondato. La sentenza impugnata è viziata da una certa confusione sulla differenza tra le valutazioni spettanti al giudice penale nell'ambito di un processo penale nel quale vige il principio che l'onere della prova spetta all'accusa, anche in ordine all'elemento soggettivo del reato, che per il reato de quo è costituito dal dolo specifico e quelle spettanti al giudice tributario nell'ambito del relativo processo nel quale invece vige il principio che l'onere della prova è a carico del contribuente, applicandosi le presunzioni stabilite dalla normativa fiscale . Pertanto, non ogni eventuale violazione tributaria che può anche sussistere sulla base di sole presunzioni integra necessariamente il corrispondente reato il cui accertamento non può fondarsi sulle presunzioni tributarie ma richiede che l'accusa fornisca la prova sia dell'elemento materiale sia di quello psicologico . Nella specie la difesa ha sostenuto che la documentazione contabile delle spese detratte nella dichiarazione non era stata prodotta, allorché venne richiesta dalla Agenzia delle entrate, perché si trovava in un immobile della società il cui tetto di amianto era crollato nel gennaio 2008 per infiltrazioni d'acqua e non era stato possibile recuperarla proprio per la presenza di amianto. Aveva quindi dedotto l'esistenza di una causa di forza maggior e che comunque il suo comportamento non era stato dettato dal dolo specifico di evadere le imposte richiesto dalla norma penale. La corte d'appello ha invece ritenuto pag. 5 che il dolo specifico di voler evadere il fisco sarebbe provato dalla “mancata dimostrazione di quanto richiestogli, da parte del contribuente”. Innanzitutto la corte d'appello ha affermato che la tesi difensiva dell'avvenuto crollo del tetto e della conseguente perdita della documentazione contabile sarebbe rimasta una mera dichiarazione di parte priva di valenza probatoria. Si tratta però di una motivazione meramente apodittica. Ed infatti, sia nella stessa sentenza impugnata sia in quella di primo grado si legge che il crollo del tetto si era verificato nel gennaio 2008 e che la società aveva regolarmente segnalato alla amministrazione finanziaria mediante comunicazione del 24.6.2008 quanto accaduto e la perdita della documentazione contabile conservata nell'edificio, tra cui quella relativa all'anno 2008. Ma soprattutto va ricordato che la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Como del 21 giugno 2011 acquisita al fascicolo del dibattimento ha espressamente affermato che “ . dato atto che risulta provato il crollo di un soffitto che ha reso inutilizzabili i documenti fiscali relativi all'anno in esame [2005]” che “la Commissione ritiene provata l'esistenza nel caso concreto di una causa di forza maggiore che ha impedito al contribuente di esibire all'Agenzia delle Entrate tutta la documentazione contabile e fiscale in originale documentazione comunque in parte reperita durante il contenzioso ” e che “i rilievi [di dichiarazione infedele] mossi con l'accertamento trovano la loro motivazione nella mancata esibizione della documentazione andata perduta a causa del crollo del tetto in amianto del locale in cui essa era custodita”. Conseguentemente la Commissione tributaria “visto l'articolo 6, co. 5, D. Lgs. 472/97, che stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore per cui l'assenza di dolo o colpa grave esclude la punibilità”, ha ritenuto relativamente alle violazioni accertate, “sussistere le cause di non punibilità di cui all'articolo 6 D. Lgs. 472/97 e, pertanto, non applicabili al caso concreto le sanzioni irrogate dall'Ufficio”. A fronte quindi della statuizione del competente giudice tributario - che ha accertato l'effettivo crollo del tetto in amianto dell'edificio e quindi l'esistenza di una causa di forza maggiore e la mancanza di dolo o colpa grave nella mancata presentazione della documentazione contabile da parte del contribuente - l'affermazione della sentenza impugnata - secondo cui invece si tratterebbe di un mero assunto difensivo privo di qualsiasi riscontro e credibilità - appare del tutto immotivata. Il giudice penale potrebbe pure giungere ad un diverso accertamento in punto di fatto, ma ciò, nel caso in esame, richiederebbe una adeguata, congrua e specifica motivazione. La commissione tributaria, con la sentenza in esame - dopo avere ritenuto provato il crollo del soffitto e la perdita dei documenti e dopo avere ritenuto provata nel caso di specie l'esistenza di una causa di forza maggiore che ha impedito al contribuente di esibire all'Agenzia delle entrate la documentazione originale indicata nella dichiarazione dei redditi presentata anni prima e pertanto l'assenza di dolo o colpa grave e la non applicabilità di sanzioni - ha poi correttamente osservato che tale situazione, se escludeva il dolo e la colpa grave e quindi l'applicazione di sanzioni amministrative, non poteva però impedire anche l'applicazione delle relative imposte, dal momento, che, secondo i principi tributali valevoli nel giudizio tributario, doveva ritenersi - che il contribuente aveva comunque il dovere di attivarsi per ricostruire la propria documentazione - che comunque al momento della verifica non aveva esibito tale documentazione in originale o in copia - che l'onere di dimostrare i costi spetta al contribuente - che ciò aveva legittimato l'ufficio a rettificare la dichiarazione e ad accertare il reddito imponibile ai sensi dell'articolo 39, comma 1, lett. d del d.P.R. 600/73. Se la richiamata sentenza del giudice tributario appare del tutto corretta e condivisibile, appare invece erronea l'affermazione del giudice di primo grado - poi pedissequamente seguita dalla corte d'appello - secondo cui “i principi di diritto tributario espressi dalla predetta motivazione sono integralmente condivisi e richiamati da questo giudice in sede penale”, sicché andava escluso il caso di forza maggiore e ritenuto provato il dolo specifico di evadere le imposte. Al contrario, come già evidenziato, i principi di diritto tributario espressi dalla sentenza in questione non sono affatto applicabili in sede penale, nella quale l'integrazione della fattispecie penale e l'esistenza del dolo specifico vanno accertati e motivati alla stregua dei diversi principi valevoli nel caso penale, fra i quali in particolare quello che non ci si può basare sulle presunzioni valevoli per l'accertamento dei redditi imponibili da parte dell'ufficio e quello che spetta invece all'accusa provare la sussistenza dell'elemento materiale ossia la falsità della dichiarazione circa i costi detraibili e di quello soggettivo. D'altra parte, sembrerebbe che le sentenze di merito abbiano ritenuto che il reato sia consistito nella mancata presentazione all'Agenzia delle entrate della documentazione contabile relativa alla dichiarazioni dei redditi del 2005. Ora, questa mancata presentazione rileva in campo tributario e giustifica la rettifica della dichiarazione e l'accertamento d'ufficio del reddito imponibile secondo le norme fiscali, sicché giustamente l'imputato è stato condannato al pagamento delle relative imposte senza tener conto delle detrazioni non documentate. Il reato che costituisce oggetto dell'accertamento da parte del giudice penale è invece costituito dalla falsità della dichiarazione commessa con il dolo specifico di evadere le imposte. Il reato si consuma al momento della dichiarazione ed occorre quindi provare che in quel momento il soggetto aveva il dolo di inserire dati falsi spese non sostenute al fine di evadere le imposte. Non potrebbe comunque il reato essere addebitato come sembrerebbe aver fatto la sentenza impugnata a titolo di colpa solo per non essersi attivato nella mancata ricostruzione della documentazione fiscale. La sentenza impugnata sembrerebbe essere incorsa anche nell'errore di ritenere che la causa di forza maggiore non sarebbe invocabile in materia tributaria. Per la verità la questione non è direttamente rilevante nella specie. E difatti, la forza maggiore viene invocata come giustificazione per la mancata presentazione della documentazione all'Agenzia delle entrate in sede di verifica. Sotto questo profilo, la citata sentenza della Commissione tributaria provinciale ha esattamente ritenuto applicabile l'articolo 6 del d.lgs. 472/1997 - che stabilisce che non sono applicabili le sanzioni amministrative tributarie per le violazioni tributarie quando il fatto è commesso per forza maggiore - avendo appunto ritenuto che la mancata presentazione della documentazione era dovuta a forza maggiore. Nel presente giudizio penale, invece, il reato è costituito dalla presentazione - sorretta dal dolo specifico - della falsa dichiarazione e non dalla mancata esibizione dei documenti, sicché non sembra rilevare l'articolo 45 cod. penumero a meno che non si adduca che si sono esposte somme non deducibili per causa di forza maggiore ma solo se sussisteva, al momento della dichiarazione, il dolo specifico, l'onere della cui prova spetta al PM. In realtà, quindi, si tratta non tanto di vedere se ricorrono gli estremi della forza maggiore bensì di vedere se vi sono elementi che contrastino gli eventuali elementi indiziali addotti dall'accusa per dimostrare il dolo specifico. In conclusione, giustamente il ricorrente osserva che non è consentito ritenere sussistente la penale responsabilità in ordine al reato contestato di dichiarazione infedele, di cui all'articolo 4 del d.lgs. 10 marzo 2000, numero 74, sulla base di un diverso elemento psicologico costitutivo della fattispecie colpa e non dolo specifico. L'incriminazione de qua, invero, punisce tipicamente la condotta cosciente e volontaria di chiunque rilasci all'erario una dichiarazione mendace infedele , al fine di evadere il fisco. Nella specie, quindi, occorre dimostrare che la dichiarazione dell'imputato era infedele per una cosciente e volontaria rappresentazione decettiva dei fatti, strumentalmente orientata a evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Non è dunque sufficiente affermare che il reato deriverebbe da una colposa inattività che non ha consentito la doverosa ricostruzione documentale, senza accertare che era l'infedeltà della dichiarazione a derivare da un volontario atteggiamento psichico, finalizzato appunto all'evasione fiscale. È poi chiaramente erronea la motivazione laddove afferma che “depone per una condotta pienamente consapevole, predeterminata e funzionale all'esigenza di evadere le imposte”, anche la “personalità dell'imputato quale emerge dai precedenti [penali] evidenziati dal Giudice di prime cure, fra cui altra sentenza ex articolo 444 c.p.p. sentenza GIP Como 28/10/10 per lo stesso reato relativo ad altre annualità”. È infatti evidente che la prova dell'elemento soggettivo del dolo specifico non può essere data dalla sussistenza di precedenti giudizi a carico del medesimo imputato per reati simili o analoghi. Invero, in ciascun procedimento penale deve essere autonomamente allegata la prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie invocata in giudizio, senza desumerla da altri procedimenti a maggior ragione laddove celebrati con rito speciale . La sentenza impugnata deve dunque essere annullata per vizio di motivazione con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano per nuovo esame. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Milano.