Contratto preliminare? Senza determinazione del prezzo c'è solo trattativa

L'indicazione nelle scritture private del valore della partecipazione societaria da cedere non è pattuizione del prezzo, nè dimostra la volontà di obbligarsi.

Se le scritture private non contengono né la consacrazione della volontà negoziale diretta alla conclusione del contratto definitivo né la determinazione del prezzo pattuito, si è in presenza di una mera trattativa e non di un contratto preliminare. Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, con la sentenza numero 24724 del 23 novembre scorso. Il caso. Un socio di una s.r.l. vuole acquistare da un altro una quota della società. Tra i due comincia dunque uno scambio di scritture private. Nelle prime si dà ragione dell’avvenuto versamento di alcuni acconti e nell’ultima si fa un preciso riferimento al valore economico della partecipazione da cedere. Ad un certo punto, però, tutto si interrompe. Dopo una serie di solleciti che non sortiscono effetto alcuno, il socio decide di agire in giudizio e, offrendo di pagare il residuo ammontare, chiede l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare mediante il trasferimento della quota e la corrispondente annotazione nel libro dei soci. Il convenuto si difende sostenendo l’inesistenza di un contratto, non potendo l’ultima scrittura assurgere al rango di preliminare perché semplicemente propedeutica alla stipula di altri atti relativi alla cessione della quota. Inoltre, sempre a detta del convenuto, il valore indicato nella scrittura non può considerarsi come prezzo perché non tiene conto di alcuni crediti personali vantati. Il preliminare necessita della volontà delle parti di obbligarsi. Il Tribunale rigetta la domanda rilevando l’assenza della conferma dell’obbligo di prestare il consenso alla stipula del definitivo. Del resto le parti, con le prime scritture, hanno posto in essere delle semplici trattative accompagnate dalla corresponsione di acconti per una maggiore serietà dell’iniziativa e, con l’ultima, pur procedendo alla valutazione della quota, non hanno inteso obbligarsi tenendo conto di questa. La sentenza viene impugnata e in appello viene anche proposta la domanda di restituzione delle somme versate che, a quel punto, costituirebbero un arricchimento senza causa. La Corte territoriale conferma quanto stabilito nel giudizio di primo grado e dichiara inammissibile l’ultima istanza perché proposta per la prima volta in sede di gravame. La mancata determinazione del prezzo indica l’assenza della volontà di stipulare il contratto. Il socio ricorre in Cassazione, ma la Suprema Corte ribadisce «le scritture non contenevano la consacrazione di alcuna volontà negoziale diretta alla conclusione del contratto definitivo né la determinazione del prezzo pattuito d’altra parte, la mera valutazione del valore oggettivo delle quote, pur se finalizzata alla successiva stipula del contratto, non si poteva logicamente identificare con la pattuizione del prezzo, la cui definizione era evidentemente subordinata alla regolamentazione dei rapporti di dare-avere fra i soci». Non è possibile proporre in appello l’azione generale di arricchimento. Infine, per quel che riguarda la domanda di indebito arricchimento la Suprema Corte ricorda «è proponibile in sede di gravame quando sia fondata sulle medesime circostanze di fatto sulle quali era basata l’originaria domanda proposta in prime cure, venendo in tal caso a mutare soltanto la qualificazione giuridica della pretesa». Nel caso specifico, però, l’atto introduttivo del giudizio è una richiesta di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto che si basa su presupposti fattuali diversi e inconciliabili con la pretesa di ripetizione delle somme versate come acconto del prezzo.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 4 ottobre - 23 novembre 2011 numero 24724 Presidente Goldoni – Relatore Migliucci Svolgimento del processo Gi.Si. esponeva di essere titolare del 34% delle quote della Elios s.r.l. e che A.P. con scrittura privata del 6 marzo 1995 aveva promesso di cedergli il 34% delle quote di sua proprietà attribuendole il valore di lire 93.000.000 di avere versato al P. acconti per un totale di lire 50 milioni. Tanto premesso, l'attore precisando che, nonostante i solleciti, alla scrittura non era seguita alcuna cessione della quota, chiedeva l'esecuzione in forma specifica del contratto preliminare con il trasferimento della quota, con corrispondente annotazione nel libro soci, offrendo di corrispondere il residuo ammontare di lire 43.000.000. Il convenuto, costituitosi in giudizio, contestava la ammissibilità e fondatezza della domanda sul rilievo che la scrittura non poteva assurgere al rango di preliminare perché semmai propedeutica alla stipula di altri atti relativi alla cessione della quota il valore della quota non poteva determinarsi in base alla scrittura del 6-3-1995 perché la stessa non teneva conto dei crediti personali vantati da esso convenuto, pari a lire 528.293.773 di cui in via riconvenzionale chiedeva il pagamento. Con sentenza del 5 gennaio 2000 il Tribunale di Palermo rigettava la domanda proposta dall'attore e dichiarava inammissibile quella riconvenzionale. Con sentenza dep. il 22 novembre 2004 la Corte di appello di Palermo rigettava l'impugnazione proposta dall'attore. Secondo i Giudici la documentazione in atti non consentiva di ritenere l'esistenza del contratto preliminare avente ad oggetto la promessa di cessione delle quote societarie invocato dall'attore. Ed invero, dalle scritture del 29 gennaio e del 26 febbraio 1995 si evinceva che il S. aveva versato acconti per la cessione delle quote e che con quella del 6 marzo 1995 vi era stata esclusivamente la valutazione delle quote di partecipazione del P. non era stato consacrato l'obbligo di prestare il consenso alla stipula del definitivo le prime due scritture non determinavano il prezzo ma doveva ritenersi che le parti posero delle semplici trattative accompagnate dalla corresponsione di acconti per una maggiore serietà dell'iniziativa, mentre appariva significativo che le parti pur avendo proceduto alla valutazione delle quote con la scrittura del 6 marzo 1995, con essa non ebbero a obbligarsi alla vendita tenendo conto di quella valutazione. Era dichiarata inammissibile, perché proposta per la prima volta in sede gravame, la domanda di restituzione delle somme versate esperita ai sensi dell'articolo 2041 cod. civ 2. Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione S.G., E.G S., S.S., eredi di Gi.Si., nelle more deceduto, sulla base di tre motivi. Non ha svolto attività difensiva l'intimato. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa,insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione agli articolo 2932 cod. civ. e 116 cod. proc. civ., censurano la sentenza impugnata per travisamento dei termini dell'appello laddove aveva affermato che il S. avrebbe attribuito il valore di contratto preliminare alla scrittura del 6-3-1995 per la contraddittorietà della motivazione la quale, dopo avere ritenuto che nelle scritture non era indicato il prezzo di cessione, poi aveva affermato che la valutazione del 6-3-1995 era propedeutica alla futura vendita e che le parti avevano posto in essere semplici trattative. Non si comprendeva il processo logico seguito dal Giudice laddove non aveva individuato nel pagamento dei due acconti la conclusione del negozio che era presupposta anche tenuto conto della valutazione del 6-3-1995 l'articolo 2932 cod. civ. fa riferimento a tutte le ipotesi in cui sorge l'obbligazione di prestare il consenso e trova applicazione non soltanto in presenza di un contratto preliminare, atteso che l'obbligazione di trasferire le quote e al prezzo della loro valutazione non risultava contestata. 1.1. Il motivo va disatteso. In primo luogo va considerato che il motivo, laddove fa riferimento al travisamento dei motivi di appello, difetta di autosufficienza in quanto non trascrive il testo integrale dell'atto di appello la doglianza sotto il profilo in esame si risolve nella censura dell'interpretazione dell'atto di appello, dovendo qui ricordarsi che l'interpretazione della domanda ha oggetto un accertamento di fatto riservato al giudice di merito che, come tale, è incensurabile in sede di legittimità se non per violazione dei criteri ermeneutici di cui agli articolo 1362 e ss. cod. civ. o per vizi di motivazione che sotto il profilo in esame non sono stati dedotti specificamente. Il vizio di motivazione, così come denunciato, è insussistente, avendo la sentenza accertato che le scritture prodotte a fondamento della domanda di esecuzione specifica non contenevano la consacrazione di alcuna volontà negoziale diretta alla conclusione del contratto definitivo né la determinazione del prezzo pattuito d'altra parte, la mera valutazione del valore oggettivo delle quote, pur se finalizzata alla successiva stipula del contratto, non si poteva logicamente identificare con la pattuizione del prezzo, la cui definizione era evidentemente subordinata alla regolamentazione dei rapporti di dare-avere fra i soci. L'inesistenza di alcuna obbligazione sorta a carico del convenuto escludeva i presupposti voluti dall'articolo 2932 cod. civ In realtà, il motivo si risolve nella censura dell'interpretazione delle scritture in questione che i Giudici hanno compiuto nell'ambito degli accertamenti di fatto ai medesimi riservati e che sono sottratti al sindacato di legittimità, formulando i ricorrenti una soggettiva ricostruzione della volontà che le parti avrebbero posto in essere. 2.1. Con il secondo motivo i ricorrenti, lamentando violazione e falsa applicazione di norme di diritto nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in relazione agli articolo 2041 e 2042 cod. civ. e 345 cod. proc. civ., censurano la sentenza che erroneamente aveva dichiarato inammissibile la domanda di pagamento, a titolo di indebito arricchimento, della somma di lire 50.000.000,della quale era stata chiesta la restituzione con interessi e danni secondo quanto previsto dall'articolo 345 citato. 2.2. Il motivo va disatteso. La domanda di indebito arricchimento è proponibile in sede di gravame quando sia fondata sulle medesime circostanze di fatto sulle quali era basata l'originaria domanda proposta in prime cure, venendo in tal caso a mutare soltanto la qualificazione giuridica della pretesa nella specie, la domanda proposta con l’atto introduttivo del giudizio era di esecuzione ex articolo 2932 cod. civ. con offerta del prezzo ancora dovuto secondo quanto previsto da tale norma, per cui si basava su presupposti fattuali non solo diversi ma addirittura inconciliabili con la pretesa di ripetizione delle somme versate in acconto del prezzo dovuto. D'altra parte, i ricorrenti non hanno proposto con l'atto di citazione domanda subordinata di restituzione delle somme versate l'espressione al riguardo usata, salva ogni azione di indebito arricchimento occorrendo sta piuttosto ad indicare che l'eventuale domanda era riservata ad altro giudizio. Infine, i danni e gli interessi maturati dopo la sentenza di primo grado che possono chiedersi in appello presuppongono che tali danni siano stati oggetto della pretesa azionata in prime cure. 3.1. Il terzo motivo censura la sentenza laddove aveva posto a loro carico le spese del doppio grado. Il motivo va disatteso. Correttamente la sentenza ha posto a carico di coloro che sono risultati soccombenti le spese del doppio grado di giudizio. Il ricorso va rigettato. Non va adottata alcuna statuizione in ordine alla regolamentazione delle spese relative alla presente fase,non avendo l'intimato svolto attività difensiva. P.Q.M. Rigetta il ricorso.