Imputato assolto per il reato di ricettazione. I Giudici di merito negano, però, il diritto alla restituzione dei beni oggetto di sequestro. Si tratta di beni archeologici che appartengono in ogni caso allo Stato a titolo originario. La decisione di merito è confermata dalla Suprema Corte che si limita a chiarire la portata generale della citata regola.
Sul tema la Cassazione con sentenza numero 24065/18, depositata il 29 maggio. Il caso. Il Tribunale di Napoli rigettava l’opposizione, posta in essere dall’imputato, all’ordinanza del medesimo Tribunale, la quale aveva assegnato i beni sequestrati nell’ambito di un procedimento penale al Ministero dei beni culturali, nonostante l’assoluzione dell’imputato per il reato di ricettazione. La questione sui cui è chiamata ad esprimersi la Cassazione nella fattispecie in esame è se sia corretta o meno la pronuncia del Giudice dell’esecuzione, il quale, a fronte della sentenza dell’assoluzione dell’imputato, odierno ricorrente, per il citato reato, aveva deciso di restituire i beni allo Stato piuttosto che al ricorrente. Tale statuizione, osservano preliminarmente i Giudici di legittimità, è di contenuto civilistico e non riguarda l’ambito penalistico nel quale è stato correttamente escluso il reato imputato al ricorrente. La titolarità originaria dello Stato. Per risolvere la questione il Supremo Collegio ha richiamato alcuni precedenti della Cassazione nei quali è stata ricostruita la disciplina normativa in materia, affermando che, in applicazione dell’articolo 826, comma 2, c.c. Patrimonio dello Stato, delle province e dei comuni e della legge speciale numero 1089/1939 Tutela delle cose d’interesse artistico o storico , «le cose di interesse archeologico appartengono comunque, ed a titolo originario, allo Stato». Unica eccezione a detta regola è che il privato, il quale affermi il suo diritto di proprietà sul bene, possa eccepire che i beni siano stati acquisiti in proprietà privata prima del 1909 o far valere una dei casi specifici previsti dall’ordinamento statale «in riferimento ad ipotesi di proprietà privata di beni archeologici ritrovati o scoperti dopo il 1909 quando i beni stessi siano stati ceduti dallo Stato come indennizzo». Per questi motivi la Cassazione ha osservato che il Giudice dell’esecuzione ha fatto corretta applicazione di questi principi nel valutare che i beni sequestrati erano di interesse archeologico e, quindi, dovevano essere restituiti allo Stato. Inoltre correttamente il Tribunale ha rilevato che l’interessato non abbia fornito nessuna prova del possesso dei beni in data anteriore al 1909. In conclusione la Corte ha rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 26 aprile – 29 maggio 2018, numero 24065 Presidente Savani – Relatore Macrì Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza in data 4.10.2016 il Tribunale di Napoli - decidendo a seguito del provvedimento di questa Sezione che in data 2.3.2016 aveva qualificato il ricorso per cassazione come opposizione ex articolo 667, comma 4, cod. proc. penumero ed aveva trasmesso gli atti al Tribunale di Napoli - ha rigettato l’opposizione avverso l’ordinanza dello stesso Tribunale in data 27.11.2014 che aveva assegnato i beni sequestrati nell’ambito del procedimento penale RGNR 13650/08 e RGNDIB 14960/09 al Ministero dei beni culturali, sul presupposto che, nonostante l’assoluzione di B.E., dal reato di ricettazione, non era emerso dal processo che i beni provenissero da eredità parentale e fossero presenti nel patrimonio familiare in epoca anteriore al 1909. 2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 606, comma 1, lett. b e 125 cod. proc. penumero , per omessa motivazione. Premette che era stato assolto dall’accusa di ricettazione con la sentenza del Tribunale di Napoli divenuta irrevocabile in data 4.7.2013, sentenza che aveva disposto la restituzione agli aventi diritto di quanto in sequestro, ossia dei beni archeologici rinvenuti presso le sue abitazioni. Nel corso del procedimento di esecuzione erano state interpellate la Soprintendenza e l’Avvocatura distrettuale, sulla base dei cui pareri il Giudice aveva ritenuto i beni in sequestro di significato archeologico e, dunque, per legge, di proprietà dello Stato ex articolo 826, comma 2, cod. civ. e 15 r.d. numero 364/1909 a seguito del rigetto dell’istanza di restituzione, aveva presentato ricorso per cassazione che aveva qualificato il mezzo esperito come opposizione, a sua volta, rigettata. Lamenta che in tale ultimo provvedimento erano state ignorate le argomentazioni giuridiche proposte e ci si era limitati a ribadire che lo Stato fosse proprietario per legge di tutti i beni archeologici rinvenuti nel sottosuolo e che la presunzione fosse superabile solo se si provava che il bene rinvenuto si trovava nel suo patrimonio in data anteriore al 1909 o che era stato acquisito quale premio del rinvenimento. 2.1. Con il secondo motivo deduce la violazione dell’articolo 606, comma 1, lett. b e c , cod. proc. penumero , in relazione all’individuazione dell’avente diritto alla restituzione ed alla portata preclusiva del giudicato. Il Giudice dell’esecuzione non aveva ricostruito in modo appropriato il sistema normativo. Innanzi tutto, l’articolo 15 r.d. numero 364/1909 non prevedeva alcuna presunzione o titolo di proprietà a favore dello Stato in relazione a beni d’interesse archeologico rinvenuti a seguito di uno scavo, ma si limitava a regolare i rapporti tra lo Stato ed il proprietario del fondo in ordine alla legittimazione ad effettuare gli scavi ed alla proprietà di quanto emerso. L’estensione speciale, e non generale, della norma era confermata dai successivi articoli l’articolo 17 prevedeva la possibilità che i privati autorizzati realizzassero degli scavi e disponeva che la metà di quanto rinvenuto restasse nella proprietà privata mentre l’altra metà fosse implicitamente assegnata allo Stato l’articolo 18 invece regolava le scoperte del privato disponendo che la metà dei beni spettasse al proprietario del fondo ove erano stati rinvenuti perciò, l’articolo 15 non fissava una regola generale di appartenenza allo Stato dei suddetti beni, ma limitava tale regola agli scavi effettuati dal Governo. In ogni caso, anche a voler interpretare l’articolo 15 nei sensi dell’ordinanza impugnata ed a ritenere gli articolo 17 e 18 come implicitamente abrogati, il ragionamento giuridico appariva inappropriato l’articolo 15 non contemplava una presunzione legale di appartenenza allo Stato dei beni rinvenuti, ma prevedeva un modo di acquisto della proprietà degli stessi, a seguito dell’eventuale rinvenimento nel sottosuolo. Lo stesso era a dirsi in relazione all’articolo 826, comma 2, cod. civ. Ne conseguiva che era lo Stato, nel momento in cui reclamava la proprietà di un bene, a dover dimostrare la sussistenza delle condizioni per l’operatività dell’acquisto ai sensi dell’articolo 15 r.d. numero 364/1909 o dell’articolo 826 cod. civ., il che era coerente con le comuni regole dell’onere probatorio nelle azioni di rivendica della proprietà. La conclusione non sarebbe mutata anche usando la categoria inappropriata della presunzione legale . Spettava allo Stato provare il dato noto - il bene è stato rinvenuto in Italia in uno scavo dopo il 1909 - per potersi giovare della presunzione di un fatto ignoto - la proprietà del bene -. In definitiva, sia che si trattasse dell’acquisto della proprietà a titolo originario, sia che si trattasse di una presunzione legale relativa, spettava comunque allo Stato la prova che i beni sequestrati fossero stati rinvenuti in territorio nazionale e non estero, dopo il 1909, a seguito di uno scavo. Peraltro, anche a correggere la motivazione dell’ordinanza sulla base di altri indici normativi, comunque s’imponeva l’annullamento e la restituzione del bene. L’articolo 91 d. Lgs. 42/2004, secondo cui le cose indicate nell’articolo 10, da chiunque ed in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini, appartengono allo Stato , non si applicava al caso di specie. Dal combinato disposto degli articolo 10 e 13 si ricavava che quanto rinvenuto nel sottosuolo apparteneva allo Stato se era un bene culturale un bene culturale era tale, qualora non fosse appartenuto già allo Stato, solo se fosse stato d’interesse particolarmente importante e fosse intervenuta la dichiarazione prevista dall’articolo 13, ossia la dichiarazione d’interesse culturale. In giurisprudenza si riteneva che, ai fini della configurazione del reato d’impossessamento di beni culturali, fosse necessario che i beni oggetto materiale del reato fossero qualificati come tali in un formale provvedimento dell’autorità amministrativa, in quanto rivestissero un oggettivo interesse eccezionale o particolarmente importante. Dunque, in mancanza della dichiarazione ex articolo 13 il bene non poteva definirsi culturale e non apparteneva allo Stato. Secondo l’Avvocatura, invece, poiché il bene era dello Stato, non era necessaria la dichiarazione d’interesse. Ribadisce un’opposta lettura delle norme poiché il bene non era statale, lo poteva diventare solo con la dichiarazione d’interesse che rendeva il bene culturale , cioè rientrante tra quelli dell’articolo 10 e quindi soggetto all’attribuzione della proprietà statale prevista dall’articolo 91. Precisa che, nella specie, la dichiarazione d’interesse culturale non era stata mai formulata. Evidenzia che il d. Lgs. 42/2004 non era applicabile al caso in esame perché i beni erano stati ritrovati in data anteriore al 2004, come dimostrato in processo. Infine, la sentenza aveva escluso la sua responsabilità dal reato di ricettazione e conseguentemente aveva stabilito che i beni non rientravano tra quelli culturali e la loro proprietà non poteva essere attribuita allo Stato. Considerato in diritto 3. È necessario sgomberare il campo da un equivoco interpretativo che sovente s’insinua, in modo peraltro suggestivo, negli argomenti del ricorrente altro è il profilo dell’accertamento della responsabilità penale, altro quello civilistico della proprietà e, per conseguenza, dell’accertamento del diritto alla restituzione. 3.1. Quanto al primo profilo, significativamente questa Sezione con sentenza numero 28929/04, Mugnaini, Rv 229421 e 229422, citata dal ricorrente a sostegno delle sue ragioni, ha affermato che ai fini della configurabilità del reato di impossessamento di beni culturali, attualmente previsto dall’articolo 176 del D. Lgs. numero 42 del 2004 codice dei beni culturali e del paesaggio , a differenza delle disposizioni previgenti di cui all’articolo 67 della legge numero 1089 del 1939 e all’articolo 125 del D.Lgs. numero 490 del 1999, è necessario che i beni oggetto materiale del reato siano qualificati come tali in un formale provvedimento dell’autorità amministrativa, in quanto rivestano un oggettivo interesse, che risulti eccezionale o particolarmente importante pertanto, quando si tratta di un bene mai denunziato all’autorità competente, deve avere inizio il procedimento per la dichiarazione di interesse culturale, prevista dall’articolo 13 del citato D.Lgs. numero 42 del 2004, e a tal fine esso può essere legittimamente sottoposto a sequestro probatorio qualora sia presente il fumus del c.d. furto d’arte , desunto dalle caratteristiche della res in riferimento al valore comunicativo spirituale ed ai requisiti peculiari attinenti alla sua tipologia, localizzazione, rarità o analoghi criteri mass. uff. e che la prova della illegittima provenienza dei beni di interesse archeologico, al fine della configurabilità del reato di impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, anche nella formulazione dell’articolo 176 del D. Lgs. numero 42 del 2004, non è a carico dell’imputato, ma della pubblica accusa mass. uff. . Orbene, è certo che il Giudice di merito abbia ritenuto il ricorrente con sentenza divenuta irrevocabile non responsabile del reato ascrittogli ed il tema è fuori discussione, al pari delle regole di diritto affermate da questa Sezione penale in precedenti occasioni, di cui la sentenza citata è esempio. Ma il problema posto all’attenzione del Collegio in questo caso è altro se sia corretta la decisione del Giudice dell’esecuzione, a fronte della sentenza di assoluzione, di restituire i beni allo Stato piuttosto che all’odierno ricorrente, il che obbliga alla ricostruzione della disciplina normativa non dal punto di vista penalistico, bensì civilistico. 3.2. Soccorre allora il riferimento alle sentenze civili di questa Corte, in particolare ad una tra le più ampie, la numero 22501/04, Rv 578633, che ha ricostruito la disciplina normativa della materia, con ampi riferimenti alla giurisprudenza precedente. Innanzi tutto, l’articolo 826, comma 2, cod. civ., dispone che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo l’articolo 840 limita l’estensione della proprietà del suolo al sottosuolo, mediante il rinvio alle leggi sulle antichità e belle arti analogo limite e rinvio è effettuato dall’articolo 932 per quanto riguarda l’applicazione della disciplina del tesoro al ritrovamento degli oggetti di interesse storico, artistico, archeologico, paletnologico etc. La legge speciale 1.6.1939, numero 1089, anteriore all’adozione del codice civile, sulla tutela delle cose d’interesse artistico e storico, dispone al capo V, che detta la disciplina dei ritrovamenti e delle scoperte, che i reperti archeologici o, in genere, le altre cose di cui all’articolo 1 della stessa legge ritrovati a seguito di ricerche effettuate dallo Stato, da concessionari o dai proprietari del suolo, debitamente autorizzati, ovvero fortuitamente scoperti, appartengono allo Stato articolo 44, 1 comma 46, 1 comma 47, 3 comma e 49, 1 comma . Dalle richiamate disposizioni risulta, dunque, che le cose di interesse archeologico appartengono comunque, ed a titolo originario, allo Stato si veda Cass. numero 10355/95 e Cass. numero 66/93 che ha ammesso la tutela del diritto soggettivo dello Stato anche in via d’urgenza . Un’eccezione a tale principio riguarda i beni archeologici di proprietà di privati anteriormente all’entrata in vigore della ancor più risalente L. 20.6.1909, numero 364, che, disciplinando specificamente all’articolo 15 i reperti archeologici, ha, per la prima volta, introdotto la regola della proprietà a titolo originario dello Stato sulle cose d’interesse archeologico, precisando che, nel caso in cui i privati abbiano effettuato l’acquisto prima di tale data possono continuare a godere del diritto. Altre eccezioni sono previste dall’attuale ordinamento in riferimento ad ipotesi di proprietà privata di beni archeologici ritrovati o scoperti dopo il 1909 quando i beni stessi siano stati ceduti dallo Stato come indennizzo articolo 43 , premio articolo 44, 46, 47 e 49 o ad altro titolo articolo 24 e 25, L. numero 1089/39 , ma è indubbio che tali ipotesi rappresentano delle eccezioni rispetto al principio generale della proprietà statale e comunque rappresentano fatti residuali e anormali rispetto al fatto normale della proprietà statale. Inoltre, salvo che per gli acquisti anteriori al 1909, si tratta di acquisti a titolo derivativo, che presuppongono la proprietà statale a titolo originario. Un’ulteriore eccezione riguarda poi beni archeologici acquistati all’estero di cui si è occupata Cass. numero 12166/95. In conclusione può dunque affermarsi che i beni archeologici ovunque essi si trovino, sia che siano già stati oggetto di ritrovamento oppure no, appartengono allo Stato. Il privato che affermi al contrario il proprio diritto di proprietà su tali beni può soltanto eccepire che i beni stessi sono stati acquisiti in proprietà privata prima del 1909 ovvero far valere una delle ipotesi dianzi indicate in cui la legge statale consente che i beni stessi ricadano in proprietà di privati. In tutte tali ipotesi l’onere di fornire la prova di quanto eccepito grava sul privato, come stabilito da Cass. numero 10355/95. Non muta il quadro normativo il riferimento al d. Lgs. 42/2004, perché i beni archeologici per la definizione dell’articolo 13 sono sempre culturali, a meno che non appartengano ai privati, il che può verificarsi solo nei rari casi sopra passati in rassegna. 3.3. Il Giudice dell’esecuzione, nell’ordinanza impugnata, ha dato puntuale applicazione al principio di diritto affermato dalla Cassazione civile. Appurato tramite le Soprintendenze ai beni archeologici di Napoli e Pompei in data 15.1.2009 che i beni sequestrati erano d’interesse archeologico, ne ha disposto la restituzione allo Stato, siccome il privato non ha provato né allegato neanche nel presente ricorso per cassazione che li possedeva da data anteriore al 1909. Del resto, è stato anche chiarito con sentenza sempre della I sezione civile numero 2995/06, Rv 586959, che il mancato riconoscimento dell’interesse culturale di oggetti archeologici da parte dell’autorità, a mezzo di apposito atto di notifica , non dimostra il carattere privato del bene, e la sua impossibilità di ascriverlo al patrimonio indisponibile dello Stato e quindi la possibilità di apprensione o usucapione da parte di privati , essendo il requisito del carattere culturale insito negli stessi beni, per il loro appartenere alla categoria delle cose d’interesse archeologico. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.