Dipendente accusato pubblicamente di essere causa dei problemi aziendali: parole che pesano

Addebitare pubblicamente al dipendente gli insuccessi aziendali e accusarlo pubblicamente senza prove non serve a migliorare l’andamento o il clima aziendale, ma solo ad esasperare i rapporti lavorativi e interpersonali, configurando il reato di ingiuria se le espressioni profferite sono lesive dell’onore.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 30502 del 15 luglio 2013. Il caso. Durante una riunione convocata per dibattere circa problemi aziendali, il Direttore generale della società per azioni, insinuava che un dipendente fosse responsabile dei danneggiamenti subiti alla propria autovettura e a quelle degli altri dirigenti aziendali Se qualcuno riceve la macchina sfregiatalei è uno di quelli che è considerato sotto incriminazione . Non pago, lo indicava anche come uno dei responsabili degli insuccessi aziendali lei è uno dei grandi contribuenti degli insuccessi che ha l’azienda è giusto che i suoi colleghi sappiano se quello che succede non va bene è anche perché P. ci mette tutta la sua volontà perché non vadano bene . E invece di procedere in via disciplinare interna contro il dipendente, sulla base di un’istruttoria correttamente instaurata, era proprio quest’ultimo a denunciarlo per ingiurie, di talché si apriva un procedimento nell’ambito del quale Giudice di Pace in prima istanza e Tribunale in appello condannavano il direttore generale alla pena di giustizia. Prove schiaccianti contro il Direttore . Le parole al vetriolo erano provate tramite le dichiarazioni dei testi, della persona offesa, nonché tramite la trascrizione della discussione registrata dalla persona offesa. I testi a difesa non scalfivano la ricostruzione del fatto operata dall’accusa, perché si trattava di dichiarazioni generiche e prive di contenuto realmente contrastante con quello ricavabile dalle deposizioni dei testi a carico. Nessun ragionevole dubbio poteva dunque sussistere in merito alla portata oggettivamente offensiva delle parole profferite. Le accuse rivolte al dipendente erano certamente lesive dell’onore e attentavano alla sfera della capacità professionale e della correttezza umana, ipotizzando finanche la commissione di reati. La pretesa contestualizzazione” delle frasi profferite non poteva essere considerata mera intemperanza verbale giustificabile con la gravità del problemi asseritamente provocati dal dipendente. Tenuta della motivazione in punto profilo psicologico. Neppure la questione della carenza dell’elemento soggettivo poteva trovare terreno di discussione nel caso al vaglio della Corte. Già essendo sufficiente a configurare la fattispecie l’accertamento del dolo generico e non necessariamente il dolo specifico di ledere il bene protetto l’onore , nel caso concreto l’incontinenza – per tono e contenuto delle accuse – delle espressioni rivolte alla persona offesa era tale da provocare moto di riprovazione nelle persone presenti e frustrazione nel dipendente accusato senza prove . Nessuna reformatio in peius . Inconsistente anche il riferimento alla ritenuta violazione del divieto di reformatio in peius in cui sarebbe incorso il Tribunale quale giudice d’appello. Invero reformatio in peius si ha quando – in assenza di impugnazione del PM – viene pronunciata condanna per reato prima escluso o viene aumentata la pena nel caso in esame, invece, il Tribunale aveva colmato un vuoto motivazionale – descrivendo perché una frase fosse da ritenere lesiva dell’onore – ma la condanna era avvenuta per il medesimo reato, id est l’ingiuria. La scriminante speciale non sussiste. Nell’universo dei reati contro l’onore si invoca sovente la scriminante del diritto di critica, riconosciuta quando si discuta della tutela di interessi riconosciuti meritevoli dall’ordinamento e nei limiti di tutela di tali interessi – non indicati nel caso di specie dal condannato ricorrente, così come non precisava quale fosse la pertinenza delle accuse rivolte al dipendente. In ogni caso, le accuse fatte pubblicamente durante la riunione, per il loro carattere perentorio e denso di espressioni eccessive avevano l’unico scopo di ledere l’onore del dipendente, esponendolo alla disapprovazione e al ludibrio dei colleghi. Violavano dunque il canone della continenza”. Non pertinenti, inoltre, erano le accuse di danneggiamento alle autovetture dei dirigenti, perché – attesa la mancanza di prova – si presentavano del tutto gratuite. Ritorsione o provocazione? La Suprema Corte di Cassazione esamina in modo completo anche la doglianza relativa al mancato riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall’art. 599 c.p. che richiede l’accertamento che il fatto ingiurioso sia realizzato come reazione al fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso, seppure l’immediatezza va intesa in senso relativo, con riferimento alla situazione concreta e alle modalità di reazione. In altre parole, l’azione reattiva deve essere condotta a termine nella persistenza dell’accecamento dello stato d’ira provocato dal fatto ingiusto altrui e in presenza di una reale contiguità temporale tra i due fatti, perché mai il fatto ingiusto altrui deve divenire pretesto per aggredire la sfera morale dell’offeso, da realizzare in tempi e modalità ritenute più favorevoli. Reazione neppure immediata . Il ricorrente assumeva infatti che vi erano i presupposti per riconoscere la non punibilità in quanto vi erano gravi errori di esecuzione della prestazione lavorativa del dipendente persona offesa che aveva assunto anche un tono sprezzante nel corso della riunione. Nel caso esaminato, secondo la Corte, doveva essere esclusa la contiguità temporale tra le lamentate condotte della persona offesa e quella incriminata, in quanto il Direttore aveva avuto il tempo necessario per metabolizzare le inadempienze lavorative del dipendente e di impostare una congrua razionale reazione. Inoltre, l’accusa del danneggiamento era una mera congettura, frutto delle voci correnti tra i dipendenti, a cui veniva data – in modo del tutto inopportuno – sonante e pubblica rilevanza.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 16 maggio - 15 luglio 2013, n. 30502 Presidente Marasca – Relatore Settembre Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Reggio Emilia, con sentenza del 27/9/2012, a conferma di quella emessa dal locale Giudice di pace, ha condannato Q.L. a pena di giustizia per il reato di ingiuria continuata nei confronti di P.F. . Secondo l'accusa, condivisa dai giudicanti, il Q. , che era direttore generale della Idromeccanica Bettolini spa, nel corso di una riunione convocata per discutere i problemi aziendali, insinuò che il P. fosse autore dei danneggiamenti subiti dall'autovettura sua e di altri dirigenti aziendali e lo indicò come uno dei responsabili degli insuccessi aziendali. Alla base della resa statuizione vi sono la registrazione, effettuata dal P. , delle conversazioni intervenute nel corso della riunione le dichiarazioni della persona offesa e di vari testi presenti al fatto. 2. Ha presentato ricorso per Cassazione nell'interesse dell'imputato l'avv. Roberto Sutich, il quale si duole sia della carenza ed illogicità della motivazione che dell'erronea applicazione dell'art. 599 cod. penale. Deduce, sotto il primo profilo, che il Tribunale ha omesso di valutare le dichiarazioni di testi presenti al fatto, cui il ricorrente attribuisce carattere dirimente nella valutazione del profilo psicologico del reato. Riporta, a tal fine, le dichiarazioni di alcuni dipendenti presenti alla riunione, al fine di dimostrare che le espressioni utilizzate dal Q. erano giustificate dalle inadempienze lavorative del P. e dalla convinzione, propria di alcuni collaboratori, che quest'ultimo fosse l'autore dei danneggiamenti alla autovetture. Pertanto, aggiunge, la contestualizzazione della frase consentirebbe di escludere la sua valenza ingiuriosa, trattandosi di una mera intemperanza verbale spiegabile con la gravità dei problemi creati dalla persona offesa. Lamenta, poi, che il giudice d'appello abbia ritenuto ingiurioso il riferimento alle autovetture danneggiate, laddove il giudice di primo grado non aveva riservato a questa parte delle affermazioni dell'imputato alcuna considerazione. Sotto il secondo profilo lamenta il mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art. 599 cod. pen., di cui sussistono, a suo giudizio, i presupposti, rappresentati dai gravi errori di esecuzione della prestazione lavorativa del P. e dal tono sprezzante da questi assunto nel corso della riunione. Considerato in diritto I motivi di ricorso sono infondati e non meritano, pertanto, accoglimento. 1. Col primo motivo il ricorrente svolge considerazioni che attengono al carattere delle espressioni utilizzate, di cui nega la valenza offensiva, e all'elemento soggettivo del reato. Le doglianze sono infondate sotto entrambi i profili. Nessun dubbio può sussistere, come ritenuto dai giudici di primo e secondo grado, sul fatto che le accuse rivolte al P. fossero lesive dell'onore, in quanto toccavano e mettevano in discussione sia la sua capacità professionale che la sua correttezza umana, giungendo a ipotizzare la commissione di reati da parte sua il danneggiamento volontario delle autovetture e il sabotaggio della produzione dell'azienda . La motivazione resa sul punto dai giudici di merito è, pertanto, ineccepibile, anche in punto di ricostruzione del fatto, operata attraverso le dichiarazioni non solo della persona offesa, ma anche dei testi presenti C. e Co. , nonché attraverso la trascrizione della discussione intervenuta nel contesto sopra richiamato e registrata dalla persona offesa. Né i giudici hanno mancato di esaminare e apprezzare le dichiarazioni degli altri testi menzionati dal ricorrente, rilevandone la genericità e, in ogni caso, la mancanza di contenuti realmente contrastanti con quelli rilevabili dalle deposizioni dei testi a carico. Logica e giuridicamente corretta è anche la motivazione resa in punto di elemento soggettivò. Premesso che il reato di ingiuria è integrato dal dolo generico e che per la sua sussistenza non è necessaria l'intenzione di ledere il bene protetto, la sentenza fa leva, in maniera ineccepibile, sulla incontinenza delle espressioni profferite nella specie per desumere la volontà e la consapevolezza, in capo all'imputato, di offendere il P. , in quanto il tono e il contenuto delle accuse erano tali - secondo il comune sentire - da suscitare un moto di riprovazione negli ascoltatori e un sentimento di frustrazione nell'accusato. Gli argomenti utilizzati dalla Corte di merito si lasciano apprezzare per persuasività e congruenza e si sottraggono, perché tali, alle censure di illogicità mosse col ricorso. Ma anche alle censure di illegittimità, che il ricorrente ricollega ad una insussistente reformatio in peius per la ragione che il giudice di secondo grado ha fatto riferimento, per motivare la condanna, al carattere ingiurioso della seconda accusa mossa al P. quella di aver danneggiato le autovetture dei colleghi . Il giudice di primo grado, infatti, aveva riconosciuto l'imputato responsabile del reato a lui contestato quindi, sia per l'accusa di sabotaggio della produzione industriale che per l'accusa di danneggiamento delle autovetture ed aveva, in motivazione, sorvolato sulla seconda delle accuse suddette, ritenendo pacifico il carattere ingiurioso della stessa. Il giudice d'appello ha riconosciuto l'imputato responsabile del medesimo reato ed ha integrato - com'era suo compito - la motivazione, spiegando perché anche la frase in questione fosse da ritenere lesiva dell'onore. La censura è, quindi, manifestamente infondata, giacché si ha reformatio in peius quando - in assenza di impugnazione del Pubblico Ministero - viene pronunciata condanna per un reato prima escluso, o viene aumentata la pena, e non quando viene colmato un vuoto motivazionale su sollecitazione di parte o d'ufficio. 2. Inappropriato è anche il riferimento al diritto di critica e alla connessa scriminante. Posto, infatti, che non è consentito, con la parola o con qualsiasi altro mezzo di espressione, ledere l'altrui onore o reputazione, salvo che per tutelare interessi riconosciuti meritevoli dall'ordinamento, e negli stretti limiti necessari alla tutela di tali interessi, il ricorrente non si è fatto carico né di indicare gli interessi che intendeva tutelare, né di valutare la continenza delle espressioni utilizzate, né di spiegare la pertinenza delle accuse. Non si vede, infatti, né è stato spiegato, quale interesse stesse perseguendo l'imputato, posto che addebitare pubblicamente al P. gli insuccessi aziendali non serviva - contrariamente a quanto opinato - a migliorare l'andamento o il clima aziendale per la qualcosa sarebbero state necessarie iniziative organizzative o disciplinari , mentre l'accusarlo pubblicamente, senza prova, dei danneggiamenti alle autovetture serviva solo ad esasperare i rapporti lavorativi e interpersonali. E senza contare che, in assenza di prove, non è lecito accusare chicchessia della commissione di reati. Giustamente prive del carattere della continenza sono state considerate, poi, le accuse suddette, siccome fatte pubblicamente, in modo perentorio e con l'utilizzo di espressioni eccessive, che non servivano a richiamare il dipendente alle sue responsabilità, ma ad esporlo alla disapprovazione e al ludibrio dei colleghi Se qualcuno riceve la macchina sfregiata lei è uno di quelli che è considerato sotto incriminazione lei è uno dei grandi contribuenti degli insuccessi che ha l'azienda è giusto che i suoi colleghi sappiano se quello che succede non va bene è anche perché P. ci mette tutta la sua volontà perché non vadano bene mentre la pertinenza delle espressioni relative al danneggiamento delle autovetture è esclusa in radice dalla sua gratuità, giacché si trattava si di un problema aziendale, ma arbitrariamente addebitato al P. , in assenza di prova nemmeno il difensore dell'imputato ha potuto argomentare sul punto che egli ne fosse l'autore. 3. Giuridicamente corretta e congruamente motivata è l'esclusione della causa di non punibilità prevista dall'art. 599 cod. pen., che ricorre allorché il fatto ingiurioso sia posto in essere come reazione al fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso . Sebbene questa Corte abbia precisato che, nei reati contro l'onore, ai fini dell'integrazione dell'esimente della provocazione, l'immediatezza della reazione deve essere intesa in senso relativo, avuto riguardo alla situazione concreta e alle stesse modalità di reazione, in modo da non esigere una contemporaneità che finirebbe per limitare la sfera di applicazione dell'esimente in questione e di frustarne la ratio , occorre comunque, come pure è stato aggiunto, che l'azione reattiva sia condotta a termine persistendo l'accecamento dello stato d'ira provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra l'insorgere della reazione e tale fatto sussista una reale contiguità temporale, così da escludere che il fatto ingiusto altrui diventi pretesto di aggressione alla sfera morale dell'offeso, da consumare nei tempi e con le modalità ritenute più favorevoli. Ragionevolmente è stata esclusa, quindi, nel caso di specie, la contiguità temporale, posto che il Q. aveva avuto tutto il tempo di metabolizzare le inadempienze lavorative del P. - che risalivano a notevole tempo addietro - e di impostare una reazione. Senza contare, poi, che l'accusa di danneggiamento delle autovetture era, per quanto si è detto, del tutto indimostrata, rappresentando una mera congettura dell'imputato, mutuata da voci correnti tra il personale dipendente, cui inopinatamente è stata data dall'imputato pubblica e sonante rilevanza. Ugualmente corretta è l'esclusione della ritorsione, posto che di tono sprezzante usato dal P. nel corso della riunione parla solo il difensore dell'imputato, mentre la sentenza impugnata ~ non adeguatamente contrastata sul punto - fa leva, per escludere questa causa di non punibilità, sulla inidoneità delle espressioni usate dal P. ad offendere il Q. , peraltro contenute nell'ambito di una legittima reazione. Il ricorso va pertanto rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che si liquidano in dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 1.700, oltre accessori come per legge.