Arrestato e ai ‘domiciliari’ per spaccio di droga: operaio licenziato

Non contestabile la gravità dell’addebito penale mosso all’uomo, fermato perché in possesso di ben 34 grammi di cocaina. A peggiorare la sua posizione, poi, anche la scelta di bluffare con l’azienda, inviando un certificato medico per fornire una giustificazione alternativa all’azienda per l’assenza provocata dagli arresti domiciliari.

Sotto accusa per spaccio di droga, e costretto agli arresti domiciliari. Problemi seri con la giustizia, e ripercussioni gravi in ambito lavorativo. L’uomo, difatti, perde il proprio impiego come operaio. Rilevante, in ottica aziendale, il reato contestato. Significativa, però, anche la scelta del lavoratore di ‘coprire’ la lunga assenza con un certificato di malattia, tacendo volutamente l’arresto e la detenzione domiciliare subiti Cassazione, sentenza numero 4633/16, sezione Lavoro, depositata il 9 marzo . Arresto. Ben 34 grammi di cocaina. Quantitativo di droga sufficiente per contestare il reato di «spaccio di sostanze stupefacenti». Accusa pesantissima per un uomo, che, arrestato e costretto ai ‘domiciliari’, deve fare i conti anche con le gravi ripercussioni negative sul fronte lavorativo. Più precisamente, la azienda – la ‘Fiat’ –, che lo ha inquadrato come «operaio», sceglie di metterlo letteralmente alla porta. Licenziamento legittimo, spiegano i giudici del Tribunale prima e della Corte d’appello poi. Corretta, in sostanza, la visione aziendale, centrata sulla «contestazione disciplinare» mossa all’uomo, ritenuto colpevole anche di «avere sottaciuto la sua sottoposizione agli arresti domiciliari» nel periodo in cui «egli risultava assente per malattia». Correttezza. Logica, e immaginabile, l’opposizione del lavoratore alla decisione dei giudici di secondo grado. Secondo il legale sono state ignorate le caratteristiche del rapporto con l’azienda il suo cliente «è un modesto operaio, addetto alle mansioni di carrellista nell’ambito del reparto ‘montaggio A147’ della società», e quindi ha mansioni «prive di particolare delicatezza, né implicanti il contatto con il pubblico». Allo stesso tempo, viene evidenziato, sempre in ottica difensiva, che «l’addebito contestato non era avvenuto nel luogo di lavoro e non vi erano altri precedenti disciplinari» quindi si «doveva», sostiene il legale, ipotizzare «una futura regolare esecuzione della prestazione lavorativa». Ogni obiezione, però, si rivela inutile. Anche i Giudici della Cassazione, difatti, ritengono comprensibile il provvedimento adottato dalla ‘Fiat’ nei confronti dell’operaio. Ciò perché «la detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti, a fine di spaccio, è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento». Per valutare la condotta dell’uomo, in particolare, va tenuto presente che «il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario». Corretto, quindi, ritenere che la «condotta extralavorativa» dell’operaio ha rotto irrimediabilmente il «vincolo» con l’azienda. Per i Giudici è evidente che «la perdita della fiducia, da parte del datore di lavoro» è stata correttamente collegata «al notevole quantitativo di droga» che, anche «in ragione del suo valore di mercato», induce a ritenere «sia l’abitualità dell’attività delittuosa sia l’incompatibilità con i suoi redditi da lavoro dipendente». Logico, di conseguenza, considerare «concreto il pericolo che il lavoratore potesse commettere reati della stessa natura anche all’interno del luogo di lavoro». A dare ancora più forza a questa visione, poi, l’ulteriore errore compiuto dall’operaio. Egli ha «taciuto di essere stato tratto in arresto e di essere in detenzione domiciliare», e ha preferito invece mentire, inoltrando un «certificato medico» per «fornire una giustificazione» alternativa della sua «assenza». Evidente, in sostanza, la mancanza di «correttezza» e di «buonafede» del lavoratore nei confronti dell’azienda.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 2 dicembre 2015 – 9 marzo 2016, numero 4633 Presidente Manna – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo La Corte d'appello di Napoli con la sentenza numero 7174 depositata il 27 dicembre 2012, confermava la sentenza del Tribunale di Noia che aveva rigettato l'impugnativa proposta da P.A. avverso il licenziamento intimatogli in data 29 novembre 2007 da Fiat auto s.p.a., poi Fiat Group automobiles s.p.a., a seguito di contestazione disciplinare con la quale gli veniva addebitato il coinvolgimento nella commissione del reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti 34 g. Ç li cocaina e di avere sottaciuto la sua sottoposizione agli arresti domiciliari nel periodo nel quale egli risultava assente per malattia. Per la cassazione della sentenza P.A. ha proposto ricorso, affidato a due motivi Fiat Group automobiles s.p.a. ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ex articolo 378 c.p.c. con la nuova denominazione di F.C.A. Italy s.p.a Motivi della decisione 1. Come primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 2119 e 2106 del codice civile. Premette che ai fini di ritenere l'idoneità del fatto extra lavorativo a incidere sulla relazione fiduciaria, è necessario valutare la natura e qualità dello specifico rapporto di lavoro dedotto nella specie, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni dei dipendente, l'organizzazione dell'impresa. Nel caso, i giudici d'appello non avrebbero considerato che il ricorrente è un modesto operaio addetto alle mansioni di carrellista nell'ambito del reparto montaggio A 147 della società e quindi svolgeva mansioni prive di particolare delicatezza, né implicanti il contatto con il pubblico. Inoltre, l'addebito contestato non era avvenuto nel luogo di lavoro e non vi erano altri precedenti disciplinari a suo carico, sicché il giudizio prognostico doveva condurre ad una conclusione di futura regolare esecuzione della prestazione lavorativa. 2. Come secondo motivo, lamenta la violazione e falsa applicazione dell'articolo 5 della L.numero 604 del 1966 e dell'articolo 7 della L.numero 300 del 1970, nonché la violazione e falsa applicazione dell'articolo 112 c.p.c. e sostiene che la Corte territoriale si sarebbe avvalsa di argomentazioni apodittiche , laddove ha ritenuto che la condotta fosse idonea a compromettere la salubrità e sicurezza dei luoghi di lavoro per il rischio che egli potesse commettere reati della stessa natura all'interno di essi, in assenza nella contestazione disciplinare di qualunque riferimento alle conseguenze negative che il comportamento addebitato avrebbe potuto avere sulla prestazione lavorativa. Inoltre, non era in discussione la veridicità dello stato morboso in cui versava I' A. in concomitanza con la custodia cautelare, comprovato da certificato medico. 3. I due motivi, da valutarsi congiuntamente in quanto connessi, non sono fondati. 3.1. Preliminarmente, occorre rilevare profili di inammissibilità del secondo motivo, laddove non specifica in che cosa sarebbe consistita la violazione dell'articolo 7 della L. numero 300 del 1970 e dell'articolo 112 c.p.c. Sulle questioni proposte si rileva comunque che la problematica dell'idoneità di condotte extralavorative a costituire giusta causa di licenziamento è stata reiteratamente affrontata da questa Corte, che ancora di recente ha ribadito che anche una condotta illecita, estranea all'esercizio delle mansioni dei lavoratore subordinato, può avere un rilievo disciplinare poiché il lavoratore è assoggettato non solo all'obbligo di rendere la prestazione, bensì anche ali' obbligazione accessoria di tenere un comportamento extralavorativo che sia tale da non ledere ne' gli interessi morali e patrimoniali del datore di lavoro ne' la fiducia che, in diversa misura e in diversa forma, lega le parti del rapporto di durata. Detta condotta illecita comporta la sanzione espulsiva se presenti caratteri di gravità, che debbono essere apprezzati, tra l'altro, in relazione alla natura dell'attività svolta dall'impresa datrice di lavoro ed ali' attività in cui s' inserisce la prestazione resa dal lavoratore subordinato Cass. Sez. L, numero 776 del 2015 . Gli articolo 2104 e 2105 cod. civ., richiamati dalla disposizione dell'articolo 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno infatti interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata, e si estenda a comportamenti che per la loro natura e per le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento dei lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della stessa Cass. numero 3822 del 2011, numero 2550 de/ 2015 . Con riferimento in particolare all'addebito che qui rileva, si è poi affermato Cass. numero 16524 del 06/08/2015 che la detenzione, in ambito extralavorativo, di un significativo quantitativo di sostanze stupefacenti nella specie, si trattava di duecento grammi di hashish a fine di spaccio è idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento, poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta ma anche a non porre in essere, fuori dall'ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali dei datore di lavoro o da comprometterne il rapporto fiduciario. Posti tali principi in via generale, spetta poi al giudice di merito apprezzare se e in che misura tale condotta extralavorativa abbia leso il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro. 3.2. Tale valutazione è stata puntualmente compiuta dalla Corte territoriale, che ha affermato che la perdita della fiducia dei datore di lavoro era stata correttamente collegata dal Tribunale al notevole quantitativo di droga trovato in possesso dell'A., che in ragione del suo valore di mercato induceva a ritenere sia l'abitualità dell'attività delittuosa sia l'incompatibilità con i suoi redditi da lavoro dipendente, e quindi rendeva concreto il pericolo che il lavoratore potesse commettere reati della stessa natura anche all'interno del luogo di lavoro. 3.3. Occorre peraltro aggiungere che il giudizio prognostico negativo circa la correttezza dei futuro adempimento risultava nella valutazione datoriale, avallata dalla Corte territoriale, anche dalla considerazione che il lavoratore aveva realizzato un' ulteriore condotta in violazione degli obblighi di correttezza e buona fede egli infatti aveva taciuto di essere stato tratto in arresto il 10 novembre 2007 e di essere in detenzione domiciliare dal 11 novembre 2007, ed aveva inoltrato un certificato medico con prognosi decorrente dal 12 novembre, così dimostrando, pur a prescindere dall'effettività della malattia, di voler fornire una giustificazione dell'assenza che impedisse l'emergere della situazione che già rendeva assolutamente inesigibile la prestazione. Ne risulta ulteriormente confermato che la valutazione della Corte territoriale, che ha correttamente applicato i principi di diritto sopra enunciati, neppure soffre delle lacune motivazionali addebitatele, essendo giustificata dalla completa valutazione di tutte le emergenze processuali. 4. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate come da dispositivo. In considerazione della data di notifica dei ricorso, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell'articolo 13, comma 1 quater, dei d.P.R. 30 maggio 2002 numero 115, introdotto dal comma 17 dell'articolo 1 della Legge 24 dicembre 2012, numero 228, ai fini del raddoppio del contributo unificato per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi professionali, oltre ad e 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell' articolo 13, comma 1 quater, dei D.P.R. numero 115 del 2002, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.