Socio e lavoratore subordinato: ecco quando coesistono …

Nella società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci sempreché la prestazione del socio non integri un conferimento previsto dal contratto sociale e l’attività lavorativa sia prestata sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia.

È quanto affermato nella sentenza della Corte di Cassazione n. 24773, depositata il 5 novembre 2013. Il caso. Un attore aveva chiesto di essere ammesso al passivo del fallimento di una s.n.c. - deducendo di avere svolto lavoro subordinato alle dipendenze della stessa - per talune voci retributive derivanti da tale rapporto. Il Tribunale, in sede di opposizione allo stato passivo proposto dal lavoratore, aveva respinto tali richieste, osservando che l’opponente non aveva dato la prova della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato. Per la riforma della sentenza, l’opponente ha presentato ricorso per cassazione, deducendo che, nel corso del giudizio, aveva prodotto documentazione, precedente e successiva alla sua esclusione di socio dalla compagine sociale. Tale documentazione era stata ritenuta irrilevante dal giudice sul rilievo che, essendo il ricorrente co-amministratore della società, era sicuramente in grado di determinare siffatta impropria qualificazione a proprio vantaggio . Inoltre, secondo il ricorrente, a fronte delle prove documentali fornite, sarebbe stato onere della società dimostrare l’insussistenza del rapporto di lavoro subordinato. Per la Suprema Corte il ricorso è fondato. Non è stato considerato se l’assetto societario era espressivo di un potere organizzativo e gerarchico nei confronti del socio di minoranza. Infatti, gli Ermellini hanno evidenziato che nel pervenire alla qualificazione di documentazione apparente , in riferimento a quella apportata per dimostrare il rapporto in questione, il Tribunale non ha considerato la documentazione prodotta dal ricorrente successiva alla data in cui era stato estromesso dalla società, perdendo la qualità di socio nonché i modelli 101 e i CUD rilasciati dalla società nel periodo precedente la sua data di esclusione di socio. Inoltre, per Piazza Cavour, è stata trascurata anche la valutazione della circostanza che gli altri due soci amministratori – la sorella e il cognato – erano soci di maggioranza, essendo titolari dell’80% del capitale della società e la incidenza di tale percentuale sui poteri gestori e sulle scelte societarie solo il restante 20% apparteneva al ricorrente . Enunciato il principio sopra richiamato, alla luce della incompleta e non approfondita valutazione del materiale istruttorio, il S.C. ha cassato la sentenza impugnata.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 18 luglio - 5 novembre 2013, n. 24773 Presidente Miani Canevari – Relatore Venuti Svolgimento del processo Il Tribunale di Milano, con sentenza in data 2-6 settembre 2010, ha respinto l'opposizione allo stato passivo proposta da M.A. nei confronti della curatela del fallimento della RIV-MET s.n.c Il M. , deducendo di avere svolto lavoro subordinato alle dipendenze di tale società, aveva chiesto di essere ammesso al passivo del fallimento per talune voci retributive derivanti da tale rapporto. Il giudice delegato al fallimento ha respinto tali richieste e dello stesso avviso è stato il Tribunale, in sede di opposizione allo stato passivo, osservando che l'opponente non aveva dato la prova della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato. Né poteva attribuirsi rilevanza alla documentazione prodotta in giudizio, posto che l'opponente essendo uno degli amministratori, era in grado di qualificare il rapporto in questione a proprio vantaggio. Per la riforma della sentenza propone ricorso per cassazione M.A. , sulla base di tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod.proc.civ La curatela del fallimento resiste con controricorso. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso è denunziata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Si deduce che il ricorrente nel corso del giudizio aveva prodotto documentazione, precedente e successiva alla sua esclusione di socio dalla compagine sociale, da cui risultava all'evidenza che, oltre a detenere solo il 20% delle quote il restante 80% era di proprietà della sorella G M. e del di lei coniuge, C.L. si era instaurato sin dalla costituzione della società un rapporto di lavoro subordinato dirigenziale, tanto che, dopo la sua esclusione di socio, la RIV.MET era receduta espressamente da tale rapporto. Tale documentazione era stata ritenuta irrilevante dal Tribunale sul rilievo che, essendo il ricorrente co-amministratore della società, era sicuramente in grado di determinare siffatta impropria qualificazione a proprio vantaggio . Ad avviso del ricorrente tale affermazione era del tutto errata, posto che, avendo il medesimo perso la qualità di socio, non poteva influire sulla formazione della volontà sociale e, quindi, inquinare la genuinità di quella documentazione proveniente pacificamente dalla RIV.MET, la quale, oltretutto aveva attestato, in un momento di acceso contenzioso tra le parti, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, con richiamo agli obblighi derivanti da tale rapporto e con il riconoscimento di spettanze, quali il trattamento di fine rapporto e la tredicesima mensilità, tipici ed esclusivi di un rapporto di natura subordinata. Né il Tribunale ha considerato il verbale di conciliazione sottoscritto dalle parti il 16 dicembre 2004 davanti al Tribunale di Milano, conseguente al sequestro conservativo chiesto ed ottenuto dal M. per stipendi arretrati e per tredicesima . Il rapporto di lavoro, che aveva avuto inizio nel 1994, quando il ricorrente venne assunto dalla ditta individuale di C.L. per svolgere mansioni di direzione tecnica, era proseguito negli stessi termini con la RIV-MET s.n.c., senza soluzione di continuità. 2. Con il secondo motivo il ricorrente, denunziando violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2697 cod. civ., deduce che, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, la prova circa la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato non era a suo carico. Una volta infatti che tale rapporto era stato provato per via documentale, incombeva alla procedura fallimentare dimostrare la insussistenza di tale rapporto. 3. Con il terzo motivo è denunziata omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, ribadendosi anche qui che, a fronte delle prove documentali fomite, era onere della società dimostrare l'insussistenza del rapporto di lavoro subordinato. 4. Il ricorso, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, è fondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte nella società di persone è configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e uno dei soci sempreché la prestazione del socio non integri un conferimento previsto dal contratto sociale e l'attività lavorativa sia prestata sotto il controllo gerarchico di un altro socio munito di poteri di supremazia. Il compimento di atti di gestione o la partecipazione alle scelte più o meno importanti per la vita della società non sono, in linea di principio, incompatibili con la suddetta configurabilità, sicché, anche quando essi ricorrano, è comunque necessario verificare la sussistenza delle suddette due condizioni Cass. 21 giugno 2010 n. 14906 Cass. 16 novembre 2010 n. 23129 e, in precedenza, tra le altre, Cass. 18 aprile 1994 Cass. 11 gennaio 1999 n. 216 Cass. 12 maggio 1999 n. 4725 . Nella specie la Corte di merito ha escluso la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato da un lato perché il ricorrente non aveva descritto le condizioni e le circostanze in cui avrebbe prestato la propria attività in posizione di subordinazione, limitandosi a riferire che svolgeva attività tecnico-operative e commerciali, con riporto al cognato L C. e alla sorella M.G M. ” dall'altro perché era irrilevante la qualificazione documentale apparente che la società aveva dato al rapporto in questione, posto che l'opponente, essendone coamministratore, era sicuramente in grado di determinare siffatta impropria qualificazione a proprio vantaggio . Ma, nel pervenire a tale conclusione, il Tribunale non ha considerato la documentazione prodotta dal M. , successiva alla data in cui egli venne estromesso dalla società, perdendo la qualità di socio/e più precisamente la lettera della società del 3 agosto 2004, con la quale gli veniva addebitata la sua irreperibilità durante il normale orario di lavoro e la omessa rendicontazione di appalti da tempo chiusi il telegramma del 12 agosto 2004, con il quale veniva lamentata la sua assenza per ferie e gli veniva richiesta la sua immediata presenza presso i cantieri di OMISSIS , nella sua qualità di dirigente e responsabile tecnico il telegramma del 12 agosto 2004, con il quale veniva nuovamente lamentata la sua assenza dagli uffici la lettera del 7 settembre 2004, con la quale venivano formalmente contestati al M. gravi ritardi nella consegna dei lavori in corso ed il medesimo veniva sospeso in via cautelativa dalle sue funzioni ”, con invito a presentare le sue giustificazioni entro cinque giorni la lettera di licenziamento del M. per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 del c.c. , con invito a consegnare con effetto immediato l'autovettura aziendale, il telefonino aziendale ed altro, facendogli presente che le spettanze di fine rapporto Le verranno erogate nei termini di legge il verbale di conciliazione sottoscritto dalle parti il 16 dicembre 2004 davanti al Tribunale di Milano, conseguente al sequestro conservativo chiesto ed ottenuto dal M. per stipendi arretrati e per tredicesima . Parimenti il Tribunale non ha considerato i modelli 101 ed i CUD rilasciati dalla società al M. nel periodo precedente la sua data di esclusione di socio e che il medesimo, già dipendente sin dal 1974 della ditta individuale di C.L. con mansioni di direzione tecnica, passò successivamente, senza soluzione di continuità, alle dipendenze della società RIV.MET per svolgere le stesse mansioni. Ancora, il Tribunale ha trascurato di valutare la circostanza che gli altri due soci amministratori - la sorella e il cognato - erano soci di maggioranza, essendo titolari dell'ottanta per cento del capitale della società il restante 20% apparteneva al ricorrente e la incidenza di tale percentuale sui poteri gestori e sulle scelte societarie. Infine, il Tribunale non si è dato carico di considerare se tale assetto societario era espressivo di un potere organizzativo, gerarchico e disciplinare nei confronti del ricorrente. La incompleta e non approfondita valutazione del materiale istruttorio comporta l'accoglimento del ricorso, con la conseguente cassazione della impugnata sentenza. La causa va rinviata al giudice indicato in dispositivo, il quale, nel procedere a nuovo esame, si adeguerà ai principi e alle considerazioni come sopra enunciati, provvedendo anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Milano in diversa composizione.