Cinque mesi sono troppi, tra conoscenza dei fatti e licenziamento

In materia di licenziamento disciplinare vige il principio dell’immediatezza della contestazione, di cui all’art. 7 L. n. 300/1970, che mira da un lato ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile. Di conseguenza non vi è ragione a giustificare l’esercizio del potere disciplinare a distanza di oltre quattro mesi e mezzo dalla conoscenza dei fatti contestati.

Così affermato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 16227, pubblicata il 27 giugno 2013. La vicenda impugnazione di licenziamento disciplinare intimato dopo quasi cinque mesi dalla conoscenza dei fatti da parte del datore di lavoro. Un lavoratore si rivolgeva al Tribunale del lavoro al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogatogli a seguito di condanna penale. Il Tribunale respingeva la domanda riconoscendo legittimo il recesso. Proponeva appello il lavoratore e la Corte d’Appello, in accoglimento del gravame, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare. Ricorreva in Cassazione l’azienda per la riforma della sentenza d’appello. Il principio di immediatezza nel licenziamento disciplinare. La Corte d’Appello, nella sentenza impugnata aveva rilevato un lasso temporale di quasi cinque mesi tra conoscenza dei fatti contestati e provvedimento espulsivo irrogato. Il lavoratore era stato condannato in sede penale con sentenza del 16 febbraio 2004 il licenziamento, fondato sui fatti per i quali era stata pronunciata sentenza penale, venne irrogato il 7 luglio 2004. La Corte di Cassazione ribadisce la tardività del provvedimento disciplinare, correttamente individuata dai giudici di merito. E’ dettato consolidato della Suprema Corte quello secondo il quale in ambito di procedimento disciplinare vige il principio dell’immediatezza della contestazione, di cui all’art. 7 L. n. 300/1970, che mira da un lato ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile. Con la conseguenza che in caso di tardiva contestazione dei fatti, si realizza una preclusione all’esercizio del potere disciplinare e l’invalidità della sanzione irrogata. Oltre quattro mesi sono un tempo eccessivo Nel caso specifico, tra la pronuncia di sentenza penale di condanna riguardante i fatti contestati in sede disciplinare ed il provvedimento di licenziamento trascorsero quasi cinque mesi, lasso di tempo che non può trovare giustificazione alcuna. Inoltre, l’azienda era a conoscenza dei medesimi fatti già precedentemente alla pronuncia della sentenza penale, avendo disposto la sospensione dal servizio nell’immediatezza dell’arresto del dipendente dunque operando una prima valutazione circa la gravità e la rilevanza disciplinare dei medesimi fatti contestati. anche tenendo conto delle dimensioni dell’azienda. Sostiene il datore di lavoro che il lasso di tempo intercorso tra fatti e contestazione sia dipeso della dimensione dell’azienda e dalla complessità della struttura della stessa. Ciò tuttavia, osserva la Suprema Corte, non vale a giustificare il procrastinarsi della contestazione, in quanto a tal proposito è sempre necessario che il datore di lavoro alleghi e provi in giudizio valide ragioni che nel concreto hanno determinato la dilazione dei tempi di contestazione dell’addebito. Prova che nel giudizio è mancata. La valutazione della tempestività della contestazione è giudizio di merito. Osserva infine la Suprema Corte che la valutazione circa la tempestività della contestazione d’addebito rispetto alla conoscenza dei fatti costituisce giudizio di merito, non sindacabile in sede di legittimità ove adeguatamente motivato. Nel caso specifico, la Corte d’Appello ha adeguatamente motivato la propria decisione, dando corretta ed esaustiva giustificazione della decisione assunta, mettendo in evidenza la conoscenza dei fatti da parte del lavoratore già precedentemente alla condanna penale. Il ricorso è stato così ritenuto infondato e rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 maggio - 27 giugno 2013, n. 16227 Presidente Stile – Relatore Napoletano Svolgimento del processo La Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di T.P. , proposta nei confronti della società Poste Italiane di cui era dipendente, avente ad oggetto l'impugnazione del licenziamento intimatogli in data 7 luglio 2004. La Corte del merito poneva a base del decisum il rilievo fondante secondo il quale il licenziamento era stato intimato tardivamente rispetto all'epoca della conoscenza da parte della società della sentenza, comunicatale in data 16 febbraio 2004, di condanna per i fatti posti a base del licenziamento. Avverso questa decisione la società Poste italiane ricorre in cassazione sulla base di un unico motivo,illustrato da memoria. Resiste con controricorso la parte intimata che deposita memoria illustrativa. Motivi della decisione Con l'unico motivo la società, deducendo vizio di motivazione, sostiene che i giudici di appello omettono di motivare sulle ragioni in base alle quali ritengono che il trascorrere di quattro mesi tra il deposito della sentenza penale e la contestazione disciplinare ha leso il diritto di difesa del lavoratore. Né, aggiunge la società ricorrente, la Corte del merito fornisce valide argomentazioni atte a sostenere che la complessità della struttura aziendale, la sua articolazione gerarchica ed il conseguente riparto delle funzioni e dei poteri tra i diversi organi che la compongono non erano idonee a giustificare il decorso di soli quattro mesi. Preliminarmente va rilevata l'ammissibilità del motivo consentendo lo stesso l’identificazione del fatto controverso e decisivo per il giudizio in ordine al quale si deduce il vizio di motivazione di cui all'art. 360 n. 5 cpc. Nel merito la censura è infondata. Invero la Corte del merito rileva che, nel caso in esame, non vi è alcuna ragione tale da giustificare l'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro a distanza di oltre quattro mesi dalla comunicazione della sentenza di condanna con la quale sono stati accertati i fatti che hanno, poi, costituito l'oggetto della contestazione degli addebiti posti a base della risoluzione del rapporto. Peraltro, sottolinea la predetta Corte, una prima valutazione della gravità dei fatti era stata già effettuata dalla società datrice quando, successivamente all'arresto del dipendente ed alla sua rimessione in libertà, aveva ritenuto opportuno di sospenderlo dal servizio. La Corte del merito, quindi, contrariamente a quanto assunto dalla società ricorrente, non omette affatto di motivare sulla ritenuta non tempestività ritenendo non sussistere alcuna valida ragione - evidentemente con riferimento alle circostanze dedotte dalla stessa società - atta a giustificare il ritardo della contestazione disciplinare, sul presupposto che i fatti relativi erano già conosciuti nella loro gravità dal datore di lavoro sin dall'epoca della sospensione cautelare dal servizio, sì che i quattro mesi trascorsi dalla comunicazione della sentenza penale di condanna non possono trovare alcuna giustificazione in ragione della complessità dell'organizzazione aziendale. Né, e vale la pena di sottolinearlo, la società ricorrente denuncia circostanze specifiche, oltre a quelle generiche concernenti la complessità dell'organizzazione, non valutate dalla Corte del merito. D'altro canto, non può non venire in considerazione che la valutazione relativa alla tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove, come nella specie, adeguatamente motivato Cass. 1 luglio 2010 n. 15649 nonché Cass. 6 settembre 2006 n. 19159 e, fra le numerose altre, V. pure Cass. 29 marzo 2004 n. 6228, Cass. 11 maggio 2004 n. 8914, Cass. 23 aprile 2004 n. 7724, Cass. 19 agosto 2003 n. 12141 . Neppure può sottacersi che questa Corte ha già affermato che, in materia di licenziamento disciplinare, il principio dell'immediatezza della contestazione, che trova fondamento nell'art. 7, terzo e quarto comma, della Legge 20 maggio 1970 n. 300, mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall'altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore - in relazione al carattere facoltativo dell'esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede - sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile, con la conseguenza che, ove la contestazione sia tardiva, si realizza una preclusione all'esercizio del relativo potere e l'invalidità della sanzione irrogata. D'altro canto non può ritenersi che l'applicazione in senso relativo del principio di immediatezza possa svuotare di efficacia il principio medesimo, dovendosi reputare che, tra l'interesse del datore di lavoro a prolungare le indagini in assenza di una obbiettiva ragione e il diritto del lavoratore ad una pronta ed effettiva difesa, prevalga la posizione di quest'ultimo, tutelata ex lege, senza che abbia valore giustificativo, a tale fine, la complessità dell'organizzazione aziendale Cass. 8 giugno 2009 n. 13167 . Peraltro la mera complessità dell'organizzazione aziendale, non può di per sé giustificare il procrastinarsi della contestazione, in quanto a tal fine è sempre necessario che il datore di lavoro, pur avendo dimensioni considerevoli, alleghi e provi le ragioni che, nel concreto,hanno determinato la dilazione dei tempi di comunicazione rispetto al momento in cui egli è venuto a conoscenza degli eventi nella loro materialità non essendo a tal fine necessario che sia acquisita l'assoluta certezza della colpevolezza essendo sufficiente, ai fini di cui trattasi, la ragionevole ricorrenza della stessa Cfr. Cass. 13 febbraio 2013 n. 3532 . Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso va, in conclusione, rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi oltre accessori di legge.