Confermata la linea indicata dal Giudice di pace osservazioni critiche, quelle del padre di una ragazza, che rientrano nei limiti della legittimità. Fondamentale utilizzare toni urbani ed argomentare le proprie affermazioni.
Rapporto teso tra maestra e genitore, con quest’ultimo intenzionato a ‘liberare’ la figlia dalla ‘ingombrante’ figura Per raggiungere l’obiettivo, ovviamente, la strada percorsa è quella del pressing sulla direzione dell’istituto, contestando addirittura la scelta dei vertici scolastici di assumere quella maestra. Nonostante sia un atteggiamento davvero poco ortodosso, però, non esistono i presupposti per contestare il reato di diffamazione manca l’elemento centrale, ossia una lapalissiana valutazione negativa su «moralità e caratura professionale» dell’insegnante. Alta pressione. A chiedere giustizia, anche da un punto di vista morale, è una maestra, operativa in una scuola privata. L’offesa, ad avviso della donna, è rappresentata dall’atteggiamento del padre di un’alunna, impegnato a fare pressione sui vertici dell’istituto per ottenerne la rimozione, insinuando «dubbi» sulle sue «qualità morali e capacità professionali». Ma, secondo il Giudice di pace prima e il Tribunale poi, nessun addebito è possibile, a carico dell’uomo, per considerare come concreto il reato di diffamazione. Censura. Davvero nessuna contestazione è ipotizzabile? È ancora la maestra ‘contestata’ a sollevare questo dubbio, presentando ricorso in Cassazione come parte civile, sottolineando il ‘peso’ della «pressione esercitata» dal genitore sui «dirigenti della scuola» e il mancato approfondimento della vicenda da parte dei giudici. Su quest’ultimo punto, in effetti, i giudici di terzo grado sembrano concordare, evidenziando, ad esempio, che non è chiaro quali siano state «le espressioni diffamatorie» utilizzate nei confronti della maestra. Senza dimenticare, poi, la «reticenza» delle rappresentanti della scuola, che «pur di non inimicarsi il genitore di una alunna – e, dunque, un cliente – hanno tenuto un comportamento omertoso». Ma, nonostante tale quadro, deve essere comunque riconosciuta ai genitori la possibilità di «esprimere valutazioni e censure sull’operato degli insegnati», sempre «con toni urbani e argomentando le affermazioni» per evitare di cadere nella diffamazione. E tale visione, è evidente, si attaglia alla vicenda in esame perché l’uomo «chiarì alla direzione dell’istituto di non gradire» l’insegnante della figlia, esprimendo semplicemente «disappunto» e affermando – forse sopra le righe, ma in maniera legittima – «Con tutti gli insegnanti liberi, proprio lei dovevate assumere?». Nessun fondamento, quindi, per il reato di diffamazione ecco perché il ricorso viene rigettato, e la pronuncia del Tribunale viene confermata in toto.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 11 aprile – 5 giugno 2012, numero 21865 Presidente Sandrelli – Relatore Fumo Rilevato in fatto Il tribunale di Bologna, in funzione di giudice di appello, decidendo su impugnazione della parte civile, ha confermato la sentenza del giudice di pace che ha assolto P.P.M. dal delitto di cui all’articolo 595 cp in danno di P.G., perché il fatto non sussiste. L’imputazione è la seguente “comunicando con B.R. e N.L.M., offendeva la reputazione di P.G., instaurando dubbi sulle qualità morali e sulle capacità professionali della suddetta”. La P. è una insegnante e, all’epoca, prestava servizio in una scuola privata, gestito, ci quanta, a quanto si comprende, da monache. Ricorre per cassazione il difensore della parte civile e deduce 1 errata valutazione delle risultanze istruttorie, atteso che le dichiarazioni dibattimentali di B.R. sono state solo parzialmente utilizzate e sono state completamente ignorate quelle di N.L.M. e della stessa persona offesa. In realtà, l’assoluzione è intervenuta per quella che il giudicanti hanno ritenuto una situazione di assoluta incertezza, ma diversamente si sarebbero determinati se avessero valutato l’intero compendio probatorio. 2 carenza dell’apparato motivazionale in relazione alle condotte illecite dell’imputato e alla applicazione dell’articolo 595 cp. La indeterminatezza del capo di imputazione non fu dedotta nei termini previsti dalla legge peraltro, l’imputato ha avuto adeguata possibilità di difendersi e si è difeso in relazione ad una accusa precisa. In atti vi è prova della pressione esercitata dal P. presso i dirigenti della scuola nella quale la persona offesa lavorava. La stessa fu infatti convocata dalla B., che le chiese ragione delle accuse che le aveva mosso l’imputato. Ha depositato memoria il difensore dell’imputato. Considerato in diritto Il capo di imputazione è effettivamente generico e, dunque, non sufficientemente, determinato , in quanto dallo stesso non può desumersi quali siano state le espressioni diffamatorie che sarebbero state pronunziate dall’imputato. Chi ha formulato l’addebito, si è colpevolmente limitato ad affermare che il P. avrebbe “instaurato” dubbi sic! evidentemente insinuato dubbi sulle qualità morali e sulla professionalità della P. Al proposito, deve osservarsi che la doglianza circa la predetta genericità avrebbe dovuto essere rappresentata in apertura del dibattimento in primo grado. Non di meno, in conseguenza della riconoscibile reticenza delle testi le quali, evidentemente, pur di non inimicarsi il genitore di una alunna - e dunque un “cliente” hanno tenuto un comportamento, che non pare esagerato definire omertoso e dello scarso impegno “maieutica” del GdP, non è rimasto chiarito quale sia stato la condotta, penalmente rilevante, effettivamente addebitata al P. Va da sé che il genitore, di uni alunno può esprimere valutazioni e censure sull’operaio degli insegnanti cui è affidata la sua prole, ma ciò deve fare con toni urbani e argomentando le sue affermazioni altrimenti si sconfina nella contumelia, nell’insulto, nel pettegolezzo e, appunto, nella diffamazione. Orbene, quel caso in esame, dalla sentenza e dallo stesso ricorso corredato di allegati , si comprende che tra la P. e il P. era in atto un contenzioso civile. In conseguenza di ciò, il secondo chiarì alla direzione dell’istituto di non gradire che la prima prestasse servizio come insegnante nella stessa scuola che la figlia frequentava come alunna. Ciò illumina sulle ragioni dell’avversione oltre che sulla personalità del P. , ma nulla dice circa la eventuale natura denigratoria della comunicazione verbale indirizzato, dall’imputato alla B. e alla N. La stessa frase riportata della ricorrente PC e che si legge nei verbali allegati “con tutti gli insegnanti liberi, proprio lei dovevate assumere?!” è indicativa del disappunto del P., ma nulla dice, circa eventuali negative valutazioni in relazione alla moralità o alla caratura professionale della P. Consegue rigetto e condanna alle spese. della ricorrente. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese dei procedimento.