Mancata affissione del codice disciplinare, ma il licenziamento è legittimo …

L’obbligo di affissione del codice disciplinare non vale per quei comportamenti di cui il lavoratore può autonomamente percepire il disvalore in quanto siano violativi di ciò che, nella coscienza sociale, è sentito come codice etico fondamentale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25311/13 depositata l’11 novembre, si è espressa in merito alla mancata affissione del codice disciplinare sul luogo di lavoro. Il caso. La questione prende spunto dal licenziamento intimato ad un lavoratore che si era assentato arbitrariamente e senza giustificazione dal servizio dal 1° agosto 1998 al settembre 1998. Licenziamento che era stato dichiarato illegittimo dai giudici di primo grado e, al contrario, ritenuto legittimo in appello. Obbligo di affissione del codice disciplinare? I giudici territoriali, infatti, ricordano il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’obbligo di affissione del codice disciplinare non vale per quei comportamenti – e per le corrispondenti sanzioni espulsive - di cui il lavoratore può autonomamente percepire il disvalore in quanto siano violativi di ciò che, nella coscienza sociale, è sentito come codice etico fondamentale c.d. ‘minimum etico’ o comunque risultino contrapposti agli obblighi essenziali discendenti dal rapporto di lavoro . Sì, ma non vale per i comportamenti di cui il lavoratore può autonomamente percepire il disvalore. E non vi è dubbio che la condotta posta a base del licenziamento del lavoratore rientri tra tali comportamenti, trattandosi di condotta chiaramente lesiva dei fondamentali obblighi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro . Tale decisione è stata confermata anche dalla Corte di Cassazione, che ha dunque rigettato il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 2 ottobre - 11 novembre 2013, n. 25311 Presidente Stile – Relatore Tria Svolgimento del processo 1.- La sentenza attualmente impugnata accoglie l'appello proposto da Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli in data 6 dicembre 2001 e, riformando tale sentenza, respinge la domanda avanzata, in primo grado, da S V., nei confronti della suindicata società, onde ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento con preavviso intimatogli, con le conseguenti pronunce ai sensi dell'art. 18 St. lav La Corte d'appello di Napoli, per quel che qui interessa, precisa che a sul punto della controversia riguardante la mancata affissione del codice disciplinare, non si può condividere la decisione del Giudice di primo grado b infatti, dalla nota di Poste Italiane del 18 novembre 1998 si ricava che la condotta ascritta al lavoratore e posta alla base del licenziamento assenza arbitraria dal servizio a decorrere dal 1 agosto 1998 fino al settembre 1998 era prevista dall'art. 32, lettera D, del CCNL per i dipendenti EPI del 26 novembre 1994 c ai fini della delibazione della suindicata questione è decisivo ricordare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l'obbligo di affissione del codice disciplinare non vale per quei comportamenti - e per le corrispondenti sanzioni espulsive - di cui il lavoratore può autonomamente percepire il disvalore in quanto siano violativi di ciò che, nella coscienza sociale, è sentito come codice etico fondamentale c.d. minimum etico o comunque risultino contrapposti agli obblighi essenziali discendenti dal rapporto di lavoro d non può dubitarsi che la condotta del V. posta a base del licenziamento - prolungata assenza arbitraria e ingiustificata dal servizio - rientri fra tali ultimi comportamenti, trattandosi di condotta chiaramente lesiva dei fondamentali obblighi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro e quanto alla proporzionalità della sanzione va osservato - sulla base del confronto delle due versioni dei fatti fornite, rispettivamente, dalle parti - che è certo che il lavoratore si sia assentato dal servizio per tutto il mese di agosto 1998 senza aver ricevuto la relativa autorizzazione da parte della datrice di lavoro f è, quindi, sicuro che, nei suoi aspetti materiali, la condotta suindicata sia riconducibile alla fattispecie della assenza arbitraria dal servizio superiore a dieci giorni consecutivi, anche non lavorativi , per la quale l'art. 34 CCNL applicabile prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso g orbene, diversamente da quanto ritenuto dal primo Giudice, la sanzione espulsiva irrogata non appare sproporzionata al comportamento del lavoratore h infatti, nella condotta del lavoratore, pur non essendo rinvenibili gli estremi del dolo, tuttavia si ravvisano sufficienti elementi di gravità tale da giustificare il licenziamento, in particolare è agevole rinvenire una scarsa attenzione - se non addirittura una piena indifferenza - ai problemi organizzativi della datrice di lavoro, aggravati, nel periodo estivo, anche dall'assenza di uno sportellista, quale il V. i tale atteggiamento si desume, con evidenza, soprattutto dall'invio della prima istanza di collocamento in aspettativa solo pochi giorni prima del previsto rientro in servizio, senza offrire a giustificazione la subitaneità o imprevedibilità dei problemi familiari addotti e quindi impossibilità di farvi fronte in modo diverso dall'assenza dal servizio. 2.- Il ricorso di S V. domanda la cassazione della sentenza per tre motivi resiste, con controricorso, Poste Italiane s.p.a Motivi della decisione I - Sintesi dei motivi di ricorso. 1.- Il ricorso è articolato in tre motivi. 1.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto decisivo e controverso del giudizio. Il ricorrente sostiene che la motivazione della sentenza sarebbe palesemente contraddittoria” in quanto a la Corte partenopea ha, in primo luogo, sottolineato che dalla nota di Poste Italiane del 18 novembre 1998 si ricava che la condotta ascritta al lavoratore e posta alla base del licenziamento assenza arbitraria dal servizio a decorrere dal 1 agosto 1998 fino al settembre 1998 era prevista dall'art. 32, lettera D, del CCNL per i dipendenti EPI del 26 novembre 1994 e ha dato rilievo a tale circostanza anche nella valutazione della suddetta condotta b ciò posto, la Corte territoriale ha altresì affermato che il comportamento del V. sia stato di tale gravità da violare il minimum etico - ossia ciò che nella coscienza sociale è sentito come codice etico fondamentale - e, quindi, da essere sottratto all'applicazione dell'obbligo datoriale di affissione del codice disciplinare, secondo la giurisprudenza di legittimità. Di qui la denunciata contraddizione, visto che secondo il ricorrente la Corte d'appello, dopo aver riconosciuto che la condotta ascritta al lavoratore era prevista nel CCNL e ivi sanzionata con il licenziamento con preavviso nonché dopo aver accertato che dagli atti di causa che non vi era stata la doverosa affissione del codice disciplinare, avrebbe dovuto trame le esatte conseguenze confermando la sentenza di primo grado e non, invece, riformare tale sentenza sul presupposto che la causa della sanzione espulsiva è da ricercare nella violazione dei principi etici fondamentali e non nella contrattazione collettiva. 1.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2109 cod. civ., 7 della legge n. 300 del 1970 e 34 del CCNL di categoria. Pur avendo il primo motivo carattere decisivo e assorbente , il ricorrente rileva che la Corte partenopea non ha valutato la evidente sproporzione tra la sanzione espulsiva e il fatto contestato, così violando specialmente il principio della buona fede, posto a base dei doveri datoriali di cui all'art. 7 St. lav., nonché dell'art. 2106 cod. civ. in materia di esercizio del potere disciplinare e anche l'art. 34 CCNL cit Secondo il V. la Corte territoriale non ha considerato che, a fronte dei gravissimi problemi familiari evidenziati per tempo nella propria richiesta di aspettativa, il rifiuto postumo della datrice di lavoro risultava tendenzioso e inspiegabile , visto che nel periodo estivo è noto che la mole di lavoro diminuisce sensibilmente. Neppure il Giudice del merito avrebbe accertato in modo adeguato l'idoneità della condotta contestata a ledere in modo irreparabile il rapporto fiduciario, in quanto nella sentenza si addebita al V. la produzione di disguidi arrecati al servizio postale, quando egli svolgeva mansioni di semplice sportellista e, comunque, le motivazioni dell'assenza non potevano non essere valutate ai fini dell'elemento soggettivo del fatto. 1.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto decisivo e controverso del giudizio. La contraddizione evidenziata nel presente motivo consisterebbe nel fatto che la Corte partenopea, pur avendo escluso il carattere doloso della condotta del V. , ha ugualmente affermato che la sua assenza dal servizio è stata arbitraria , come previsto dall'art. 34 del CCNL cit Ad avviso del ricorrente, infatti, i concetti di dolosità e arbitrarietà non potrebbero essere disgiunti, come ha fatto il Giudice del merito. II - Esame delle censure. 2.- I motivi di ricorso - da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione - non sono da accogliere. 2.1.- Dal punto di vista dell'impostazione generale, va osservato che nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto nell'intestazione del secondo motivo, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti. In altri termini, si tratta di doglianze che non attengono all'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione - che, peraltro, risulta congruo e chiaramente individuabile - ma si risolvono sostanzialmente nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di fatto già valutate dal Giudice del merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e si traducono, quindi, nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto inammissibile in sede di legittimità. 2.2.- Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito vedi, tra le tante Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486 Cass. 20 aprile 2011, n. 9043 Cass. 13 gennaio 2011, n. 313 Cass. 3 gennaio 2011, n. 37 Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731 Cass. 21 agosto 2006, n. 18214 Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436 Cass. 27 aprile 2005, n. 8718 . Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all'ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicché la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità Cass. 26 marzo 2010, n. 7394 Cass. 6 marzo 2008, n. 6064 Cass. 20 giugno 2006, n. 14267 Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707 Cass. 13 luglio 2004, n. 12912 Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965 Cass. 18 settembre 2009, n. 20112 . Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione, oltre ad rappresentare una corretta applicazione degli indirizzi giurisprudenziali di questa Corte in materia di ricostruzione della fattispecie del licenziamento disciplinare in particolare per assenza arbitraria dal servizio , nei suoi elementi oggettivo e soggettivo, nonché di ambito di applicazione dell'onere datoriale di affissione del codice disciplinare. 2.3.- In particolare si osserva che, superato un periodo di incertezza, ormai in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte a la garanzia, prevista dall'art. 7, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti, non trova applicazione - per le sanzioni disciplinari, anche conservative - in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionato sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico, ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro ovvero all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa del datore di lavoro ovvero a norme di rilevanza penale, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta ed è quindi in condizione di esercitare adeguatamente il proprio diritto di difesa Cass. 27 gennaio 2011, n. 1926 Cass. 29 maggio 2013, n. 13414 Cass. 14 settembre 2009, n. 19770 Cass. 18 settembre 2009, n. 20270 Cass. 2 settembre 2004, n. 17763 Cass. 9 agosto 2001 n. 10997 16 maggio 2001 n. 6737 10 novembre 2000 n. 14615 b l'obbligo di rendere la prestazione rientra tra i doveri fondamentali e non accessori del lavoratore in aderenza del dettato legislativo art. 2104 c.c. e della logica comune ne consegue che, ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare intimato per assenza ingiustificata dal lavoro nella specie pari a tre giornate, a fronte della mancata determinazione, da parte del CCNL, del periodo di assenza rilevante ai suddetti fini , è conforme alla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione la statuizione della sentenza di merito secondo cui non è necessaria, per la suddetta infrazione, l'affissione del codice disciplinare, trattandosi di una condotta sanzionata direttamente dalla legge, così come è corretta la statuizione secondo cui, nella suindicata ipotesi, non occorre accertare se l'assenza del lavoratore abbia o meno nuociuto all'organizzazione aziendale, considerato che l'esistenza di un danno non è elemento costitutivo della fattispecie di inadempimento che legittima il licenziamento Cass. 14 maggio 2002, n. 6974 Cass. 23 giugno 2000 n. 8553 Cass. 3 marzo 2000 n. 2404 c rientra tra i normali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto di lavoro anche quello che fa carico al lavoratore di assicurarsi che impedimenti nell'espletamento della prestazione, seppure legittimi, non arrechino alla controparte datoriale un pregiudizio ulteriore, per effetto di inesatte comunicazioni che generino un legittimo affidamento in ordine alla effettiva ripresa della prestazione lavorativa. Pertanto, è da confermare la sentenza impugnata secondo cui è stato ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata dal lavoro per il tempo previsto dal contratto collettivo, nei confronti di un lavoratore che, pur temporaneamente impossibilitato per ragioni di salute all'espletamento della prestazione, non aveva rispettato il termine di ripresa del lavoro indicato nel certificato di malattia inviato al datore, ma quello indicato in altro certificato non inviato Cass. 17 maggio 2013, n. 10572 . 2.4.- Dai suindicati principi si desume che - in linea astratta - la ingiustificata assenza dal servizio è un comportamento la cui lesività dei doveri fondamentali connessi con il rapporto di lavoro è immediatamente percepibile da parte del lavoratore, sicché esso è fuori dalla sfera di applicazione dell'obbligo di pubblicità, che si concreta nell'affissione del codice disciplinare. La ratio di tale obbligo è, infatti, rappresentata dalla garanzia del diritto di difesa del lavoratore, nel senso di tutelarlo contro il rischio di incorrere in una sanzione disciplinare - o addirittura nel licenziamento - per fatti non preventivamente conosciuti quali mancanze suscettibili di essere sanzionate vedi, per tutte Cass. 10 novembre 2000, n. 14615 . Questa situazione - che riguarda il disvalore in sé della condotta - non muta quando, come accade nella specie, la contrattazione collettiva stabilisca la durata del periodo di assenza rilevante ai fini del licenziamento. In tali casi, infatti, la disciplina collettiva viene solo ad integrare - dal punto di vista operativo - la disciplina legislativa, dalla quale si desume la contrarietà dell'assenza ingiustificata dal servizio al c.d. minimo etico , cioè, in linea generale ai principi fondamentali di correttezza e buona fede che governano anche il rapporto di lavoro, in tutte le sue componenti. Di ciò si ha conferma nel fatto che la condotta di cui si tratta può portare al licenziamento disciplinare anche laddove la contrattazione collettiva nulla disponga al riguardo vedi Cass. 14 maggio 2002, n. 6974 cit. . La Corte d'appello di Napoli - con congrua e logica motivazione - è giunta alla conclusione della non necessità, nella specie, dell'affissione del codice disciplinare in conformità dei suddetti principi. Ne risulta destituito di fondamento il primo motivo di ricorso. 2.5.- Ovviamente, quel che si è detto sopra non esclude che, in presenza di una assenza ingiustificata dal servizio per la quale sia stato intimato il licenziamento, si debba comunque accertare con scrupolo la ricorrenza di tutti gli elementi oggettivi e soggettivi propri della fattispecie. Ebbene, dall'ampia e articolata motivazione della sentenza impugnata, risulta che la suddetta verifica è stata effettuata con molta attenzione dalla Corte partenopea, anche in questo caso conformandosi alla giurisprudenza di questa Corte. In particolare, la Corte territoriale è giunta alla conclusione della sussistenza di tutti gli estremi per l'irrogazione del licenziamento - che, peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, come accade nella specie - attraverso un'attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, arrivando ad affermare che la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia stata in concreto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare, in conformità con i costanti orientamenti di questa Corte in materia, dai quali in particolare si evince, ai fini del licenziamento disciplinare non è necessario che il comportamento addebitabile al lavoratore sia doloso, potendo anche essere colposo vedi, di recente Cass. 4 marzo 2013, n. 5280 . A tale ultimo riguardo appare del tutto condivisibile e conforme alla giurisprudenza di legittimità, anche il rilievo della Corte d'appello secondo cui, il lavoratore dopo aver presentato la domanda di aspettativa per motivi di famiglia avrebbe dovuto informarsi dell'esito di tale richiesta prima di decidere di assentarsi dal lavoro per un periodo di tempo di circa un mese. Infatti, nei normali obblighi di correttezza e diligenza del prestatore di lavoro rientra anche quello di assicurarsi che propri impedimenti nell'espletamento della prestazione - anche se, in astratto, legittimi - per come se ne da attuazione non arrechino alla controparte datoriale un pregiudizio organizzativo derivante dal legittimo affidamento in ordine alla supposta effettiva ripresa della prestazione lavorativa arg. ex Cass. 17 maggio 2013, n. 10572 cit. . Di qui la non accoglibilità anche del secondo e del terzo motivo di ricorso. III – Conclusioni. 3.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione - liquidate nella misura indicata in dispositivo - seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 100,00 cento/00 per esborsi, Euro 2500,00 duemilacinquecento/00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge.