Cadono definitivamente le accuse nei confronti di un professionista, consulente di un’azienda, protagonista dello scontro verbale, durante una riunione, con una dipendente. La frase «Lei non sa chi sono io », tipica dei costumi italici, alla luce del contesto, non ha chiara valenza intimidatoria.
Clima teso in azienda, scontro frontale – a livello verbale – in occasione di una riunione di lavoro. E il culmine si raggiunge, come da costumi italici, con la frase «Lei non sa chi sono io », rivolta da un consulente – con esperienze manageriali – nei confronti di una dipendente, e accompagnata dal “dito puntato” del consulente, capace anche, nella foga, di spingere una scrivania verso la donna. Quadro chiarissimo, quindi, che, pur tuttavia, non consente di valutare quella singola espressione – «Stai attenta, non sai chi sono io » – come minaccia in senso pieno. Consequenziale la caduta delle accuse nei confronti del consulente aziendale Cassazione, sentenza numero 45502, sez. V Penale, depositata oggi . Parole grosse Prima ‘tappa’ del percorso giudiziario è la pronuncia del gdp, il quale condanna il «consulente aziendale» per il reato di «minacce». Evidente, in sostanza, il carattere minatorio delle «frasi» rivolte a una dipendente «nel corso di una riunione di lavoro». A contestare tale visione è, ovviamente, il professionista, il quale, tramite il proprio difensore, spiega di non aver avuto alcuna «intenzione di intimidire», ma solo di «controbattere le recriminazioni» della dipendente – recriminazioni attinenti «all’organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda» – facendo valere «la propria pregressa esperienza professionale di tipo manageriale». Chiara la linea difensiva, proposta in Cassazione la «frase» – «Lei non sa chi sono io » – va valutata come «un semplice sfogo, una manifestazione di insofferenza, inidonee a limitare la libertà psichica» della donna, che, difatti, «ha dichiarato di essersi semplicemente ‘preoccupata’». Contesto. Ebbene, a sorpresa, i giudici del ‘Palazzaccio’ liberano il «consulente» da ogni addebito. In sostanza, la «valutazione, nel complesso, delle frasi» pronunciate all’indirizzo della donna comporta l’esclusione di «ogni idoneità minatoria». Per una ragione precisa la «semplice espressione “Stai attenta, non sai chi sono io ”», in mancanza di «ulteriori aggiunte verbali in grado di colorare e di riempire di contenuti effettivamente minacciosi tale espressione», non può avere «oggettiva valenza intimidatoria». Peraltro, aggiungono i giudici, il presunto «carattere minatorio della espressione» non può «essere desunto dalla circostanza che essa venne proferita nel corso di una lite sorta per motivi di lavoro», e che l’uomo «aveva puntato il dito e spinto la scrivania» verso la dipendente ciò perché tali «comportamenti», all’interno di un «contesto caratterizzato da una discussione animata», non hanno «un significato univocamente ed ineluttabilmente riconducibile ad una finalità intimidatoria».
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 22 aprile – 4 novembre 2014, numero 45502 Presidente Bruno – Relatore Guardiano Fatto e diritto 1. Con sentenza pronunciata il 23.5.2013 il giudice di pace di Piacenza condannava S.A. alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato di cui all'articolo 612, c.p., commesso in danno di M.I., nei confronti della quale, secondo l'assunto accusatorio, l'imputato aveva proferito la seguente espressione stai attenta signorina lei non sa chi sono io, ha capito signorina . 2. Avverso la sentenza del giudice di pace, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del suo difensore di fiducia, lamentando i vizi di cui all'articolo 606, co. 1, lett. b ed e , c.p.p., in quanto le frasi ritenute minacciose dal giudice di merito, rivolte dall'imputato alla persona offesa nel corso di una riunione di lavoro, sono in realtà oggettivamente prive di ogni efficacia intimidatoria, come riconosciuto dallo stesso giudice di primo grado, efficacia che non può desumersi, come erroneamente e contraddittoriamente affermato dal giudice di pace, dal contesto in sono state pronunciate, vale a dire dalla circostanza che l'imputato, nell'esprimersi nei sensi richiamati abbia puntato il dito e spinto una scrivania verso la M. Io S., infatti, chiamato a svolgere funzioni di consulente nell'azienda presso cui lavorava la M., con il suo dire non aveva nessuna intenzione di intimidire la persona offesa, ma solo di controbattere le recriminazioni di quest'ultima, attinenti all'organizzazione del lavoro all'interno dell'azienda, come riconosciuto dallo stesso giudice di pace, facendo valere la propria pregressa esperienza professionale di tipo manageriale le frasi pronunciate dallo S. costituiscono, dunque, nella prospettiva difensiva, un semplice sfogo, una manifestazione di insofferenza, inidonee a limitare la libertà psichica della persona offesa, che, infatti, ha dichiarato di essersi semplicemente preoccupata , sentendole, in quanto sapeva che l'imputato era sposato con un funzionario di polizia. Ad avviso del ricorrente, peraltro, i suddetti elementi avrebbero dovuto condurre ad una definizione del procedimento in senso favorevole all'imputato per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'articolo 34, d. Ivo 28.8.2000, numero 274. 3 il ricorso è fondato. 4. Ed invero ritiene il Collegio di fare proprio l'insegnamento della Suprema Corte, secondo cui nel reato di minaccia elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest'ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire e irrilevante l'indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente cfr. Cass. sez. V, 23/01/2012, numero 11621 . Orbene proprio la valutazione nel suo complesso delle frasi attribuite allo S., che tenga conto, cioè, del contesto in cui sono state pronunciate, ne esclude ogni idoneità minatoria, posto che alla semplice espressione stai attenta non sai chi sono io , in mancanza di ulteriori aggiunte verbali in grado di colorare e riempire di contenuti effettivamente minacciosi tale espressione, non può attribuirsi oggettiva valenza intimidatoria, che invece si riscontra, ad esempio, nel diverso caso, preso in esame dalla sentenza del Supremo Collegio in precedenza citata, in cui l'espressione non sai chi sono io si accompagnava alla significativa affermazione da parte del soggetto attivo del reato che l'avrebbe fatta pagare alla vittima. Né il carattere minatorio della espressione di cui si discute può essere desunto dalla circostanza che essa venne proferita nel corso di una lite sorta per motivi di lavoro, nel corso della quale l'imputato, come affermato nella sentenza impugnata, aveva puntato il dito e spinto la scrivania verso la persona offesa cfr. p. 4 dell'impugnata sentenza . Tali comportamenti, infatti, che il tribunale considera decisivi per attribuire valenza minatoria ad una espressione che io stesso giudice di secondo grado considera dotata di una dubbia carica intimidatoria cfr. p. 4 della sentenza impugnata , non assumono affatto un valore inequivocabilmente intimidatorio , perché il significato ad essi attribuibile in un contesto caratterizzato, come quello in esame, da una discussione animata non è univocamente ed ineluttabilmente riconducibile ad una finalità intimidatoria. In conclusione deve affermarsi che la decisione di condanna da parte del giudice di secondo grado è stata assunta in violazione del principio dell' oltre ogni ragionevole dubbio , introdotto formalmente dalla I. numero 46 del 2006, che ha modificato l'articolo 533 c.p.p. e che impone al giudice di giungere alla condanna solo se è possibile escludere ipotesi alternative dotate di razionalità e plausibilità, violazione rilevabile in questa sede, secondo condivisibile giurisprudenza, quando, come nel caso in esame, la scelta operata dal giudice dell'appello non risulta sorretta da una motivazione rispettosa dei canoni della logica e della esaustività, fondandosi la sentenza di condanna di condanna su un accertamento giudiziale non sostenuto dalla certezza razionale, ossia da un grado di conferma così elevato da confinare con la certezza. cfr. Cass., sez. V, 28/01/2013, numero 10411, rv 254579 Cass., sez. I, 14/05/2004, numero 32494 . 5. Sulla base delle svolte considerazioni, dunque, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste. P.Q.M annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste.