Valutazione più mite per la condotta dello pseudo imprenditore italiano. Nonostante la evidente situazione di precarietà, fisica e psicologica, dei lavoratori stranieri, viene contestato solo il reato di maltrattamenti, e non quello di riduzione in schiavitù. Condanna a soli due anni di reclusione.
Azienda ‘illuminata’ del Ventunesimo secolo lavoratori – cittadini rumeni, per la precisione – costretti a vivere in condizioni precarie, con vitto ridotto all’osso, addirittura senza compenso, e con i documenti d’identità ‘sequestrati’. Scenario la provincia laziale. A indossare i panni dell’imprenditore – eufemismo – un italiano. Che si ritrova a fare i conti con la giustizia uscendone, comunque, bene. Egli, difatti, viene sì condannato, ma per il reato di «maltrattamenti», e non per quello, ben più grave, di «riduzione in schiavitù» Cass., sent. numero 24057/2014, Sezione Sesta Penale, depositata oggi . Lavoro. Nessun dubbio sull’addebito nei confronti di un uomo, di mezza età, capace di tenere «alle proprie dipendenze lavorative alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo degrado materiale, poiché ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo, e privazione del compenso». Di fronte a questo quadro terrificante, però, i giudici di secondo grado ‘mitigano’ le accuse nei confronti dello pseudo imprenditore italiano non viene più contestato il reato di «riduzione in schiavitù», bensì quello di «maltrattamenti» ‘parafamiliari’. E ciò comporta la netta riduzione della pena si passa dagli «otto anni e tre mesi di reclusione» decisi in Tribunale ai «due anni» di reclusione decisi in Corte d’Appello. Pena lieve. A sorpresa, però, nonostante la clamorosa ‘vittoria’ in secondo grado, l’uomo decide comunque di proporre ricorso in Cassazione, contestando addirittura la veridicità delle condotte a lui addebitate. Su questo punto, però, i giudici del ‘Palazzaccio’ si mostrano rigidi, ritenendo acclarata la ricostruzione della vicenda, così come delineata nei giudizi di merito. Non esiste alcuno spiraglio, in sostanza, per mettere in discussione l’abominevole comportamento dello pseudo imprenditore, comportamento concretizzatosi nelle «condizioni di estrema durezza del rapporto lavorativo» con un «numero limitato di dipendenti di nazionalità rumena», «accompagnate da situazioni di acuto disagio, riferite al vitto, all’alloggio e alle relative condizioni igieniche». E ulteriore dettaglio, non di scarso rilievo, anche il fatto che l’uomo ha addirittura trattenuto i «documenti d’identità» dei lavoratori stranieri per «impedirne l’allontanamento». Ciò però, anche per i giudici del ‘Palazzaccio’, non basta per contestare il reato di “riduzione in schiavitù”. Confermata, di conseguenza, la contestazione del reato di “maltrattamenti in famiglia”, alla luce del «rapporto ‘parafamiliare’ tra datore di lavoro e dipendenti». E confermata, ovviamente, anche la pena più lieve solo «due anni di reclusione» per lo pseudo imprenditore.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 11 aprile – 9 giugno 2014, numero 24057 Presidente Ippolito – Relatore Villoni Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza sopra indicata la Corte d'Appello di Roma, in riforma di quella resa in data 10/05/2011 dal Tribunale di Viterbo, riqualificata la condotta originariamente contestata di riduzione in schiavitù di cui all'articolo 600, comma 1 cod. penumero come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell' articolo 572 cod. penumero , riduceva a M.F. la pena di otto anni e tre mesi di reclusione inflittagli in primo grado, rideterminandola nella misura di due anni e revocando le pene accessorie previamente applicate. Ripercorrendo analiticamente la vicenda di fatto sottesa all'imputazione e valutando la condotta contestata all'appellante di avere tenuto alle proprie dipendenze lavorative alcuni cittadini rumeni in condizioni di estremo degrado materiale, poiché ospitati in locali fatiscenti, in pessime condizioni igienico - sanitarie, con somministrazione scarsa o nulla di cibo e privazione del compenso, la Corte riteneva tuttavia che dette condizioni non avevano impedito alle persone offese - tutte ascoltate in qualità di testimoni con incidente probatorio - di determinarsi liberamente sulle proprie scelte di vita, sottraendosi alla fine all'iniquo regime lavorativo, senza esserne tuttavia impedite o dissuase dal farlo mediante impiego di minacce e/o violenze. Riteneva, inoltre, la Corte che la condotta contestata integrasse il diverso e meno grave reato di cui all'articolo 572 cod. penumero , la cui sussistenza è stata più volte affermata nell'ambito di rapporti lavorativi di natura cd. parafamiliare, caratterizzati da plurimi indici quali l'esistenza di relazioni abituali ed intense tra datore e prestatore di lavoro, consuetudini di vita tra i soggetti, soggezione degli uni nei confronti dell'altro, fiducia riposta dal soggetto passivo in quello attivo, tutti ravvisabili nel caso di specie. 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, deducendo vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del dolo di cui all'articolo 572 cod. penumero , essendogli state attribuite condotte logicamente a lui non riferibili secondo il ricorrente, la riqualificazione dei fatti operata in appello altro non costituirebbe che un espediente per giustificare la custodia cautelare previamente inflittagli nel contesto di una complessiva vicenda erroneamente interpretata e comunque sanzionata in modo sproporzionato dal giudice di primo grado. Considerato in diritto 3. Il ricorso risulta manifestamente infondato e come tale deve essere dichiarato inammissibile. Nell'escludere correttamente la sussistenza del più grave reato di cui all'articolo 600, comma 1 cod. penumero , la Corte territoriale ha comunque dato conto delle condizioni di estrema durezza del rapporto lavorativo instauratosi tra l'imputato e un numero limitato di dipendenti di nazionalità romena, accompagnate da situazioni di acuto disagio riferite al vitto, all'alloggio e alle relative condizioni igieniche, caratterizzanti una situazione critica al punto tale da poter addirittura essere apprezzata in termini analoghi alla riduzione in schiavitù. Trattasi all'evidenza di una situazione di gran lunga più grave di quelle, talora ricorrenti nell'ambito dei rapporti di lavoro subordinato, in cui la giurisprudenza di questa Corte e di questa sezione ravvisano pacificamente la ricorrenza del reato di maltrattamenti di cui all'articolo 572 cod. penumero S'intende, infatti, alludere a quelle situazioni in cui il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura cd. parafamiliare, poiché caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia Cass. Sez. 6, sent. numero 28603 del 28/03/2013, P.C. in proc. S. e altro, Rv. 255976 Sez. 6, sent. numero 16094 del 11/04/2012, I., Rv. 252609 Sez. 6, numero 685 del 22/09/2010, P.C. in proc. C., Rv. 249186 ovvero quando nell'ambito di un rapporto professionale o di lavoro, il soggetto attivo si trovi un una posizione di supremazia, connotata dall'esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura parafamiliare Cass. Sez. 6, sent. numero 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368 . Trattasi di principi che hanno portato, in tutti i precedenti citati, ad escludere in concreto la sussistenza del reato, ma che trovano piena applicazione nella fattispecie, in cui la vicinanza tra il datore di lavoro e i subordinati era tale da vedere questi ultimi vivere, nelle condizioni precarie anzidette, in un alloggio fornito dal primo ed in cui la dipendenza e la soggezione dei secondi si manifestava al punto che era il ricorrente a fornire il vitto e sovente a non fornire affatto, stando alle risultanze probatorie ai dipendenti, trattenendo addirittura i loro documenti d'identità al fine di impedirne l'allontanamento. La Corte territoriale non ha, dunque, proceduto ad alcuna forzatura interpretativa nel ritenere il rapporto lavorativo anzidetto di natura parafamiliare e le condizioni in cui esso si svolgeva di carattere tale da integrare il reato contestato, fornendo la corretta qualificazione giuridica di una fattispecie rientrante pienamente nell'ambito di applicazione dell'articolo 572 cod. penumero 4. Alla dichiarazione d'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende che si stima equo determinare nella misura di 1.000,00 mille Euro. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.