I dati reddituali negli archivi dell’Agenzia delle Entrate non salvano nessuno, nemmeno il prestanome

Il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili obbligatori non richiede, per il suo integrarsi, che si verifichi in concreto l’impossibilità assoluta di ricostruire il volume di affari, o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa quando alla ricostruzione possa addivenirsi aliunde, ad esempio con i dati già presenti alla Agenzia delle Entrate.

Questo il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 20265, depositata il 15 maggio 2014 Il caso di specie. L’amministratore di diritto di una società viene processato e condannato sino in sede di appello per il reato di cui all’articolo 10 d.lgs. numero 74/2000, per aver distrutto od occultato le scritture contabili obbligatorie, al fine di evadere le imposte. Avverso la sentenza di condanna della Corte di Appello di Brescia propone, tramite il proprio difensore di fiducia, ricorso per cassazione l’imputato sostenendo che, sin dal primo grado, egli aveva sostenuto e comprovato che alla Agenzia delle Entrate erano presenti tutti i suoi dati reddituali, che sarebbero stati estrapolati nel corso di un precedente accesso operato dalla Polizia Tributaria. Secondo il ricorrente dunque la pur effettiva mancanza delle scritture contabili obbligatorie non avrebbe cagionato l’impossibilità della ricostruzione dei ricavi e dei dati reddituali della impresa, che erano già stati accertati nel corso di un precedente accesso da parte della Guardia di Finanza. In seconda battuta, osserva il ricorrente, egli aveva assunto nell’ambito di detta impresa solo il ruolo di prestanome in quanto l’attività, di fatto, sarebbe stata gestita da altra persona. Impossibilità relativa. Gli Ermellini prendono le mosse da una consolidata giurisprudenza in tema di reati tributari, secondo la quale l'impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d'affari derivante dalla distruzione o dall'occultamento di documenti contabili, penalmente rilevante ex articolo 10 d.lgs. numero 74/2000, non deve essere intesa in senso assoluto e sussiste anche quando si tratti di impossibilità relativa, che non è esclusa quando a tale ricostruzione possa pervenirsi aliunde. Nel dettaglio, ed in ipotesi recente, la stessa Cassazione aveva in effetti chiarito che, in tema di reati fiscali, laddove non venga reperita all’atto della verifica alcuna documentazione utile né la parte provveda a produrla, e l’esistenza dei rapporti commerciali dunque sia stata rilevata e la ricostruzione del volume d'affari sia stata operata sui soli dati rilevati dai militari operanti in sede di verifica - in particolare sulla base degli elenchi fornitori presentati dai clienti della ditta oggetto di verifica - deve ritenersi comunque concretizzata la fattispecie criminosa di cui all’articolo 10 d.lgs. numero 74/2000. Infatti, nonostante sia stata comunque accertata un’evasione d’imposta, la mancata presentazione della dichiarazione annuale dei redditi e la mancata esibizione di documenti o registri ha costituito ostacolo alla ricostruzione del fatturato relativamente agli anni sottoposti a verifica. La conclusione cui perviene allora la Corte in esame è necessitata essendo sufficiente, al fine della integrazione del delitto di cui all’articolo 10 d.lgs. numero 74/2000, anche una impossibilità relativa, la penale responsabilità non è esclusa quando alla ricostruzione possa addivenirsi aliunde, ad esempio con dati già presenti alla Agenzia delle Entrate. Per quanto attiene, poi, alla qualifica di mera “testa di legno” affermata dal ricorrente, la Suprema Corte richiama la consolidata giurisprudenza maturata in sede di bancarotta documentale secondo cui risponde di detto delitto, l’amministratore che, ancorché sia estraneo alla gestione della società, affidata ad un terzo, amministratore di fatto abbia omesso la verifiche sulla regolare tenuta delle scritture contabili. Cenni critici. Mi sia, tuttavia, consentito esprimere alcune riserve in merito alla presa di posizione dei giudici del Palazzaccio. Quanto al primo aspetto non si vuole certo porre in discussione la consolidata giurisprudenza che colpisce la mera condotta, prodromica alla evasione, di distruzione o occultamento delle scritture contabili, che ha penale rilevanza anche laddove alla ricostruzione della posizione reddituale o dei ricavi e della complessiva situazione finanziaria si sia giunti aliunde. Sotto tale profilo si deve, tuttavia, evidenziare che i casi frutto di precedenti pronunce erano invero differenti dal presente. Nel caso in commento, a seguito di ispezione della Guardia di Finanza, vengono ricostruiti i ricavi ed i dati reddituali della impresa e solo con condotta successiva vengono occultate o distrutte le scritture contabili. Ciò che invero pare difettare nel caso di specie non è tanto l’elemento oggettivo del reato, quanto quello soggettivo come può configurarsi il dolo specifico di evadere l’imposta attraverso la distruzione delle scritture contabili quando i dati reddituali ed i ricavi siano già stati ricostruiti nel corso di un precedente verifica da parte della Guardia di Finanza? Invero ed infine, a sommesso avviso di chi scrive, non pare pienamente convincente neppure la seconda argomentazione operata dagli Ermellini onde ritenere penalmente responsabile anche il mero prestanome. Come anticipato, ciò avviene estendendo al caso in esame quanto da tempo la giurisprudenza afferma in ipotesi di bancarotta documentale e cioè che di detto delitto risponde anche l’amministratore solo di diritto allorché lo stesso abbia, anche solo per colpa, omesso di esercitare il controllo sulla regolare tenuta delle scritture contabili. Non si può sottacere, infatti, come detto principio sia stato elaborato per un reato, quale quello di bancarotta documentale semplice, che, da un lato, è sicuramente punibile anche a titolo di mera colpa mentre la fattispecie di cui all’articolo 10 richiede il dolo specifico ed inoltre si presenta come tipicamente omissivo mentre quello tributario è sicuramente commissivo, allorché la condotta sia la distruzione . E’ appena il caso di ricordare come proprio in tema di bancarotta per distrazione e dunque commissiva esista un tanto consolidato quanto differente orientamento giurisprudenziale Cass., sez. V Penale, sent. numero 45671/13 in Diritto e Giustizia del 15 novembre 2013 in tema di amministratore “testa di legno” che richiede, al fine di una penale responsabilità di costui, la concreta verifica della consapevolezza in capo al prestanome delle condotte distrattive. Nel caso in esame pertanto, soprattutto allorché la condotta contestata sia quella di distruzione delle scritture contabili obbligatorie, più conforme ai canoni costituzionali di una responsabilità personale e colpevole apparirebbe pretendere la verifica dell’effettiva consapevolezza in capo al ricorrente che le condotte di distruzione o occultamento delle scritture contabili sono state poste in essere, nonché un effettivo accertamento della sussistenza del dolo specifico, essendo difficoltoso comprendere come un soggetto, i cui dati fiscali e reddituali siano già stato oggetto di una antecedente e precisa verifica da parte della Polizia tributaria, possa poi pensare o immaginare di evadere le imposte già determinate o determinabili sulla base dei dati acquisti semplicemente occultando o distruggendo le proprie scritture contabili.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 aprile – 15 maggio 2014, numero 20265 Presidente Squassoni – Relatore Pezzella Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di Brescia, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente G.L., con sentenza del 22.10.2012, depositata in data 06.11.2012, confermava la sentenza del Tribunale di Brescia del 17.02.2012, condannandolo al pagamento delle spese processuali del grado. Il Tribunale di Brescia aveva dichiarato l'imputato responsabile del reato previsto dall'articolo 10 D.L.vo numero 74/00 perché, nella sua qualità di legale rappresentante della società Silmec Italia di G.L e C. Sas , al fine di evadere le imposte sui redditi, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occultava o distruggeva i documenti dei quali era obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d'affari, accertato in Chiari il 29.05.2009, e del reato previsto dall'articolo 4 D.L.vo numero 74/00 perché, sempre nella sua qualità di legale rappresentante della stessa società, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicava nella dichiarazione per l'anno 2003, elementi passivi fittizi pari ad € 410.098,00, con imposta evasa pari ad € 189.340,77, fatto commesso in Erbusco nell'anno 2004 alla data di presentazione della dichiarazione, e ritenuta la continuazione con i fatti giudicati con sentenza del Tribunale di Brescia del 09.05.2005, lo condannava all'ulteriore pena di mesi 8 di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali. 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, l'imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'articolo 173, comma 1, disp. att., cod. proc. penumero a. violazione dell'articolo 606 co. 1 lett. b ed e in relazione agli articolo 192, 530 co. 2 e 533 co. 1 cod. proc. penumero Il Giudice di Appello avrebbe erroneamente ritenuto integrato il reato di cui all'articolo 10 del D.L.vo 74/2000. L'imputato deduce di aver rilevato, fin dal primo grado, come la Polizia Tributaria di Brescia avesse già accertato, in data antecedente ai fatti di cui all'odierno procedimento, l'avvenuta emissione di fatture per operazioni inesistenti. Sulla base della precedente verifica fiscale, il reato, secondo il ricorrente non potrebbe dirsi sussistente, in quanto erano già presenti negli archivi dell'Agenzia delle Entrate gli elementi che permettevano di calcolare l'ammontare dei volume di affari o del reddito del contribuente. La condotta posta in essere dal G. sarebbe, pertanto, inidonea ad impedire o ad ostacolare fortemente l'attività accertatrice della Amministrazione finanziaria. L'imputato, inoltre, sarebbe stato un semplice prestanome della società, mentre la contabilità era gestita da tale B.P., che si avvaleva di un commercialista. b. illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge richiesti articolo 606, co. 1, lett. e cod. proc. penumero Il ricorrente deduce un vizio motivazionale dell'impugnata sentenza, in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e dei benefici di legge. La Corte di Appello si sarebbe limitata a ribadire quanto affermato dal Tribunale di Brescia, ritenendo di non poter concedere le attenuanti perché l'imputato è persona plurirecidiva e l'esito sarebbe il non corretto apprezzamento del disvalore sociale del fatto . Anche il PM avrebbe , secondo l'assunto del ricorrente, ritenuto concedibili le attenuanti, quanto meno equivalenti alla contestata recidiva. In particolare non sarebbe stata valutata la giovane età dell'imputato che alla data di cui ai capi di imputazione non aveva compiuto i venti anni. Chiede che venga cassata l'impugnata sentenza e vengano adottati i provvedimenti consequenziali. Considerato in diritto 1. I motivi illustrati in premessa appaiono manifestamente infondati e pertanto il proposto ricorso va dichiarato inammissibile. 2. Quanto al primo motivo, ritiene l'imputato che il fatto che gli elementi che abbiano permesso di calcolare il volume di affari e il reddito fossero presenti nell'archivio dell'Agenzia delle Entrate varrebbe ad escludere la sussistenza del reato di occultamento o distruzione delle scritture contabili. L'articolo 10 D.lvo 74/2000 prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, sia punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l'evasione a terzi, occulti o distrugga in tutto o in parte le «scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d'affari. La norma rimanda, quindi, implicitamente, ai fini della individuazione dell'oggetto materiale della condotta di occultamento o distruzione, a quelle scritture contabili e a quei documenti che, alla stregua di altre norme, il cui novero è lasciato, peraltro, del tutto aperto , devono essere obbligatoriamente conservate. Allo stesso tempo, va considerato che, in ragione della ratio della norma, che, in continuità normativa con la precedente disposizione dell'articolo 4 dall'articolo 4, comma 1, lett. b della legge 7 agosto 1982 numero 516 come sostituito dall'articolo 6 del d.l. numero 83 del 1991, convertito con legge numero 154 del 1991 , è quella di garantire, come tutte quelle inserite nel corpus del D. Lgs. numero 74 del 2000, l'esatto adempimento delle obbligazioni tributarie, i documenti e le scritture contabili in oggetto non possono essere, evidentemente, se non quelli e solo quelli aventi rilievo sotto il profilo fiscale. La doglianza proposta, a fronte dell'incontestata circostanza del mancato rinvenimento di scritture contabili, non è fondata. Per giurisprudenza costante di questa Corte Suprema, infatti, il delitto di distruzione od occultamento di scritture contabili o documenti obbligatori, non richiede, per la sua integrazione, che si verifichi in concreto una impossibilità assoluta di ricostruire il volume d'affari o dei redditi, essendo sufficiente anche una impossibilità relativa, non esclusa quando a tale ricostruzione si possa pervenire aliunde cfr. ex plurimis sez. 3, numero 39711 del 4.6.2009, Acerbis, rv. 244619 . E ancora di recente è stato ribadito, con evidente chiarezza, che in tema di reati tributari, l'impossibilità di ricostruire il reddito od il volume d'affari derivante dalla distruzione o dall'occultamento di documenti contabili non deve essere intesa in senso assoluto e sussiste anche quando è necessario procedere all'acquisizione presso terzi della documentazione mancante sez. 3, numero 36624 del 18.7.2012, Pmt in proc. Pratesi, rv. 253365 . Né può essere considerata una valida esimente della responsabilità dell'imputato, la circostanza addotta che l'imputato sarebbe stato un semplice prestanome. Come rilevato dalla giurisprudenza di questa Corte l'amministratore di una società risponde dei reato omissivo contestatogli quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino. così questa sez. 3, numero 22919 del 6.4.2006, Furini, rv. 234474, pronuncia nella quale, in applicazione di tale principio la Corte ha affermato la responsabilità dell'amministratore per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali . Peraltro in materia di bancarotta, con un principio che, mutatis mutandis può essere applicato anche al caso e al reato in esame, è stato costantemente affermato che risponde del reato di bancarotta l'amministratore che, ancorché estraneo alla gestione dell'azienda, esclusivamente riconducibile all'amministratore di fatto, abbia omesso, anche per colpa, di esercitare il controllo sulla regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili. Ciò in quanto l'accettazione della carica di amministratore, anche quando si tratti di mero prestanome, comporta l'assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo di cui all'articolo 2932 cod. civ cfr. ex plurimis sez. 5, numero 31885 del 23.6.2009, Mazzara e altro, rv. 244497 . 3. Parimenti manifestamente infondato appare il secondo motivo di ricorso. La Corte territoriale ha adeguatamente motivato in merito alla mancata concessione delle attenuanti generiche e dei benefici con riferimento alla presenza di recidiva plurima, specifica e recente ed alla assenza di elementi positivi atti a supportare la concessione dei chiesti benefici cfr. pag. 5 della sentenza impugnato . Va rilevato in proposito che ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, come più volte ribadito da questa Corte, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione. così questa sez. 3, numero 23055 del 23.4.2013, banic e altro, rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale . Come si evince a pag. 4 della sentenza di primo grado la numero 449 del 17.2.2012 del GM del Tribunale di Brescia ai fini dei computo della pena si è tenuto conto della contestata recidiva. Purtuttavia, come rileva la Corte d'Appello nel provvedimento impugnato il Giudice di primo grado -sebbene non vi fossero elementi di meritevolezza per la concessione di attenuanti generiche - ha voluto considerare ogni possibile elemento calmieratore presente in atti a favore dell'imputato . 4. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'articolo 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità Corte Cost. sent. numero 186 del 13.6.2000 , alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.