Nessun dubbio sulla condotta tenuta dall’uomo, che ha omesso di comunicare all’INPS il decesso del parente. Respinta la tesi della situazione di necessità, legata, secondo l’uomo, alla sua condizione di disoccupato, provocata dall’essersi completamente dedicato all’assistenza dello zio.
‘Bluff’ subito scoperto, condanna consequenziale per truffa. Fatale la scelta di un uomo di continuare a percepire, dall’Istituto nazionale di previdenza sociale, la pensione riconosciuta allo zio, nonostante quest’ultimo sia, purtroppo deceduto. Ininfluente la disoccupazione lamentata dall’uomo, e addebitata proprio al fatto di aver dovuto pensare soprattutto a prestare assistenza allo zio Cass., sent. numero 19649/2014, Seconda Sezione Penale, depositata oggi Truffa. Identica linea di pensiero per i giudici di primo e di secondo grado in entrambi i contesti, difatti, viene sancita la condanna, per il «reato di truffa ai danni dell’INPS», a carico di un uomo colpevole di avere continuato a «riscuotere la pensione» dello zio oramai deceduto. E l’ottica adottata in Tribunale prima e in Corte d’Appello poi viene ora ‘sigillata’ dai giudici del Palazzaccio, i quali, difatti, confermano la condanna dell’uomo. Respinta, in maniera netta, la tesi dello «stato di necessità» avanzata dall’uomo, il quale, in sostanza, riandando con la mente all’epoca della morte del pensionato – agosto 2005 –, sostiene di essersi ritrovato «senza lavoro», a 40 anni suonati, proprio perché dedicatosi completamente all’assistenza dello zio. Ciò, secondo l’uomo, rende umanamente comprensibile la sua scelta di non «comunicare» all’INPS il «decesso» dello zio Ma questa obiezione viene ritenuta assolutamente non plausibile dai giudici del Palazzaccio per questi ultimi, è risibile parlare di «causa di non punibilità». E’ impensabile che l’uomo non abbia «avuto la possibilità di trovare un lavoro» perché impegnato a prendersi cura dello zio.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 24 aprile – 13 maggio 2014, numero 19649 Presidente Fiandanese – Relatore Rago Fatto e Diritto 1. Con sentenza dei 21/02/2013, la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza pronunciata in data 11/05/2009 dal Tribunale di Velletri nella parte in cui aveva ritenuto R.M. colpevole del reato di truffa ai danni dell'INPS perché, avendo omesso di comunicare al suddetto istituto il decesso di R.F., continuò a riscuoterne la pensione per i mesi successivi all'agosto 2005. 2. Avverso la suddetta sentenza, l'imputato, in proprio, con due separati atti, ed il difensore, hanno proposto ricorso per cassazione deducendo 2.1. la VIOLAZIONE DELL'articolo 54 COD. PEN. per non avere la Corte ritenuto la sussistenza dello stato di necessità 2.2. VIOLAZIONE DEGLI articolo 483, 61 N° 2 COD. PEN. per non avere indicato quali fossero le prove a carico di esso ricorrente 2.3. VIOLAZIONE DELL'articolo 133 COD. PEN. per avere inflitto una pena eccessiva. 3. Il ricorso, nei termini in cui le doglianze sono state dedotte, è manifestamente infondato. 3.1. Quanto alla pretesa violazione dell'articolo 54 cod. penumero , la Corte ha disatteso la medesima censura sia in diritto che in fatto rilevando che nulla era stato, comunque, provato. Sul punto il ricorrente, in questa sede, si è limitato a reiterare, in modo tralaticio e, quindi, inammissibile, la medesima doglianza. Non può, infatti, ritenersi integrante gli estremi della invocata causa di non punibilità la circostanza che il ricorrente aveva dichiarato di essersi preso cura dello zio fino alla morte e che, quindi, per tale ragione, non aveva avuto la possibilità di trovare un lavoro. 3.2. Quanto alla pretesa violazione dell'articolo 483, 61 n° 2 cod. penumero , va osservato quanto segue. Nel capo d'imputazione, è contestato al ricorrente di avere, al fine di commettere il reato di truffa, falsamente attestato presso l'ufficio postale, l'esistenza in vita dello zio R.F. nelle varie occasioni in cui si era recato a riscuotere la pensione. Il giudice di primo grado aveva ritenuto fondata l'ipotesi accusatoria. Nel proporre appello, l'imputato, secondo quanto è scritto nella sentenza impugnata, si era limitato ad obiettare che egli «non ha avuto bisogno di munirsi di una falsa procura per procedere al ritiro della pensione». A tale doglianza, la Corte replicò che il reato di falso «non è contestato in relazione a una falsa procura ». In questa sede, il ricorrente sostiene che la Corte «avrebbe dovuto svolgere argomentazioni di altro tenore» e cioè in pratica, allargare d'ufficio, il thema decidendum alla sussistenza in ordine alla responsabilità. Al che deve replicarsi che la Corte, a fronte di un preciso motivo di appello con il quale si contestavano le modalità esecutive del reato, correttamente si limitò a confutarlo, non comprendendosi per quale motivo avrebbe dovuto mettere in discussione la ricostruzione dei fatti così come effettuata dal primo giudice, senza che, sul punto, vi fosse stata alcuna specifica doglianza. 3.3. Incensurabile, infine, è la motivazione con la quale la Corte ha rideterminato la pena, dovendosi ritenere, in relazione ai precedenti penali, correttamente esercitato il potere discrezionale attribuito dalla legge al giudice. 4. In conclusione, l'impugnazione deve ritenersi inammissibile a norma dell'articolo 606/3 c.p.p, per manifesta infondatezza alla relativa declaratoria consegue, per il disposto dell'articolo 616 c.p.p., la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in € 1.000,00. Infine, va rammentato che, essendo stati tutti i motivi del ricorso dichiarati inammissibili, trova applicazione il principio di diritto secondo il quale «l'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto d'impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'articolo 129 c.p.p.» ex plurimis SSUU 22/11/2000, De Luca, Riv 217266 - Cass. 4/10/2007, Impero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende, nonché alla rifusione in favore della parte civile INPS delle spese del presente grado di giudizio che si liquidano in € 3.510,00 oltre spese forfettarie nella misura del 15% Iva e Cpa.