Il reato di estorsione si differenzia dal reato di truffa aggravata dall’essere stato ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario articolo 640 cpv numero 2 c.p. . Nel primo caso, per la condotta di colui che richiede una somma di danaro come corrispettivo per l’attività di intermediazione posta in essere per la restituzione del bene sottratto, la vittima subisce gli effetti della minaccia implicita della mancata restituzione del bene come conseguenza del mancato versamento di tale compenso. Invece, nel caso di truffa aggravata, la vittima viene indotta ad agire per l’ipotetico pericolo di subire un danno il cui verificarsi, tuttavia, viene avvertito come dipendente da fattori esterni all’agente che si limita pertanto a condizionare la volontà dell’offeso senza, peraltro, conculcarla.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione nella sentenza numero 47207, depositata il 28 novembre 2013. Il caso. Gli imputati, a seguito di udienza preliminare, venivano prosciolti, per difetto di querela, alla luce della ricostruzione giuridica dei fatti effettuati dal GUP del Tribunale di Taranto che aveva ravvisato nella condotta dagli stessi posta in essere gli estremi di quella prevista dall’articolo 640 c.p., invece che quella, originariamente contestata, di cui all’articolo 629 c.p. estorsione . Avverso la pronuncia formulava ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto censurando il superamento dei limiti fissati alla funzione del GUP nell’udienza preliminare. La Corte, nell’accogliere il ricorso, detta alcuni principi, peraltro già noti, in tema di distinzione tra le due fattispecie criminali descritte. I poteri del GUP. Francamente non pare che il GUP abbia agito superando « de i limiti fissati alla funzione del GUP nell’udienza preliminare». Non è dato comprendersi in cosa consisterebbe questo superamento ed in relazione a quella norma giuridica esso sia stato posto in essere, ma tant’è. La Corte ha ritenuto ammissibile il ricorso e, “approfittato” dell’occasione per intervenire in tema di elementi distintivi tra la fattispecie di estorsione e quella di truffa aggravata dall’essere stato ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario. Il reato di estorsione. La condotta di colui che richiede una somma di danaro come corrispettivo per l’attività di intermediazione posta in essere per la restituzione del bene sottratto deve considerarsi capace di integrare quella richiamata dal legislatore all’articolo 629 c.p. Ciò perché la vittima percepisce, a sensi della interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, gli effetti della minaccia implicita della mancata restituzione del bene come conseguenza del mancato versamento del compenso richiesto. Ovvero se non pago non riavrò il bene. Il reato di truffa aggravata. Nel reato di truffa aggravata invece la vittima, sempre ai sensi dell’augusto insegnamento, viene indotta ad agire per l’ipotetico pericolo di subire un danno il cui verificarsi, tuttavia, viene avvertito come dipendente da fattori esterni all’agente che si limita pertanto a condizionare la volontà dell’offeso senza, peraltro, conculcarla. Dunque se non pago non riavrò il bene. I problemi. È pacifico che le valutazioni della vittima siano, quanto alla condotta da essa posta in essere pago e quanto alle ragioni che ne hanno determinato la scelta voglio riavere il bene siano identiche. La vittima non può infatti conoscere se la minaccia implicita in entrambi i casi sia dipendente o meno dalla volontà dell’agente che, v’è da supporre, in entrambi i casi non si accuserà del furto del bene. È evidente dunque che il ragionamento della Corte, tutto basata sulla volontà della vittima sia frutto di una ricostruzione “a tavolino” circa la volontà della vittima che pare essere caratterizzata da un’erronea percezione del dato reale che mi pare non possa che essere quello appena esposto. Ovvero che per la vittima le due situazioni appaiono e sono del tutto identiche. Infatti, se essa non percepisse quale attuabile da parte dell’agente la minaccia implicita non si risolverebbe a versare alcun compenso o corrispettivo con ogni conseguenza giuridica in punto. Ma se così è e se esistono due distinte fattispecie criminali destinate a colpire differenti condotte, cui sono state applicate sanzioni assolutamente differenti, v’è da chiedersi forse? come possa distinguersi la condotta posta in essere nell’uno e nell’altro caso. E ancor prima se sia corretto ricostruire l’agire dell’imputato sulla scorta della percezione che di esso agire abbia la vittima. Il problema della percezione della vittima si tratta di un tema di fondamentale importanza e, per certi versi, di stringente attualità. L’analisi del portato nel diritto vivente della “vittimologia” meriterebbe un’approfondita analisi che mal si concilia con il tenore del presente commento ma che, seppur per sommi capi e con le necessarie approssimazioni, mi pare possa e debba farsi. Il principio di tipicità dell’illecito penale e di tassatività della condotta mi sembra di poter affermare debba aver quale unico punto di riferimento quello dell’agente medesimo. Cioè è illecito penale solo quell’azione, capita, voluta e prevista, che l’agente ponga in essere con modalità perfettamente aderenti rispetto a quelle previste e normate dal Legislatore. In quest’ottica non vi è spazio per il “sentire” della vittima che, infatti, sparisce quale soggetto fisico identificato e diviene, per esempio nella truffa, categoria indistinta rappresentata dall’homo eiusdem professionis et condicionis incapace di accorgersi degli “artifici e raggiri” posti in essere dall’agente. Quasi a costruire una categoria di “vittima modello”. Ora se così è, e mi pare che cosi sia, la percezione della vittima non può avere alcuno spazio. L’agente infatti non è in grado di preventivamente conoscere come la vittima reagirà. Se non facendo riferimento ad una categoria di vittima modello. Posso ingannare facilmente un piccolo risparmiatore più difficilmente un tycoon della finanza, ma non posso sapere se il piccolo risparmiatore in concreto è un grande esperto di finanza capace di accorgersi con assoluta semplicità dei miei raggiri. E di converso i raggiri che io posso porre in essere nei confronti del piccolo risparmiatore non dovrebbero essere in grado di ingannare il tycoon con ogni conseguenza del caso. Allora perché continuare nella lettura della norma seguendo l’ottica della vittima ? A me pare più coerente leggere la condotta dell’agente nell’unica ottica costituzionalmente ammissibile e rilevante ovvero partendo da ciò che egli sapeva e voleva. I risultati. Proviamo ad applicare il ragionamento appena svolto al caso di specie. Gli imputati sapevano di avere nella propria disponibilità il bene e quindi la richiesta di danaro dagli stessi prospettata e formulata aveva natura e caratteristiche tipiche perfettamente compatibili con la condotta normata dall’articolo 629 c.p. Ove gli imputati non avessero avuto nella propria materiale disponibilità il bene la minaccia dagli stessi effettuata quale grado di “serietà” avrebbe avuto? Era possibile attuarla ? Dipendeva dai medesimi che essa si attuasse ? A me pare si possa dire che la realizzazione della minaccia sarebbe stata dipendente dalla volontà di un terzo. Estranea dunque a quella degli agenti. In altre parole si verserebbe in ipotesi di truffa aggravata. Il risultato interpretativo sarebbe dunque identico a quello cui è giunta la Corte. Non so quale dei due iter prospettati possa dirsi più logico e più rispondente al dettato Costituzionale.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 16 ottobre – 28 novembre 2013, numero 47207 Presidente Esposito – Relatore Fiandanese Svolgimento del processo Il G.U.P. del Tribunale di Taranto, con sentenza in data 26 novembre 2012, dichiarava non doversi procedere nei confronti di P.F. e di C.T. in ordine ai reati di cui agli articolo 81, 110, 640 c.p. e 56, 640 c.p., così diversamente qualificato il fatto di cui all'originaria imputazione ex articolo 81, 110, 629 cpv. c.p. e 56, 629 cpv. c.p., per difetto di valida querela. Secondo l'originaria imputazione, i predetti, in concorso tra loro, dietro minaccia implicita di non restituire un attrezzo per cantiere edile, precedentemente sottratto, costringevano il proprietario a corrispondere loro la somma di Euro 2.000, complessivi, in due volte inoltre, ponevano in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere la persona offesa, cui non avevano ancora restituito l'attrezzo in questione e, quindi, sempre dietro la minaccia implicita di non restituirglielo in futuro, a corrispondere loro la somma ulteriore di Euro 2.000, tentativo non riuscito per cause indipendenti dalla loro volontà. Il G.U.P. riteneva che da parte degli imputati non vi fosse mai stata una vera e propria minaccia implicita e neppure l'allegazione del timore di un pericolo immaginario, ma che essi si limitarono a circuire ed ingannare la persona offesa, pattuendo con questi un compenso per il loro interessamento ai fini del ritrovamento del mezzo, ma in realtà senza adoperarsi in alcun modo a tal fine. Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, deducendo la inverosimiglianza della prospettata qualificazione giuridica, poiché la richiesta stessa del denaro, a fronte di un furto perpetrato e ai fini della restituzione del mezzo sottratto, ha una carica di per sé intimidatoria censurando il superamento dei limiti fissati alla funzione del G.U.P. nell'udienza preliminare lamentando che, comunque, la truffa dovrebbe considerarsi aggravata ai sensi dell'articolo 61 numero A c.p Motivi della decisione Il motivo di ricorso è fondato, in quanto la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi giuridici elaborati da questa Suprema Corte. Infatti, premesso che integra il delitto di estorsione la condotta di colui che chiede ed ottiene dal derubato il pagamento di una somma di denaro come corrispettivo per l’attività di intermediazione posta in essere per la restituzione del bene sottratto, in quanto la vittima subisce gli effetti della minaccia implicita della mancata restituzione del bene come conseguenza del mancato versamento di tale compenso Sez. 2, numero 6818 del 31/01/2013, Piazza, Rv. 254501 , questa Corte ha ulteriormente chiarito che il reato di truffa aggravata dall'essere stato ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario articolo 640 cpv. numero 2 cod. penumero si configura allorché venga prospettata al soggetto passivo una situazione di pericolo che non sia riconducibile alla condotta dell'agente, ma che anzi da questa prescinda perché dipendente dalla volontà di un terzo o da accadimenti non controllabili dall'uomo in tal caso la vittima viene infatti indotta ad agire per l'ipotetico pericolo di subire un danno il cui verificarsi, tuttavia, viene avvertito come dipendente da fattori esterni estranei all'agente, che si limita pertanto a condizionare la volontà dell'offeso, senza peraltro conculcarla, con una falsa rappresentazione della realtà al contrario se il verificarsi del male minacciato, pur immaginario, viene prospettato come dipendente dalla volontà dell'agente, il soggetto passivo è comunque posto davanti all'alternativa di aderire all'ingiusta e pregiudizievole richiesta del primo o subire il danno in tali ipotesi pertanto si configura il delitto di estorsione, ed a nulla rileva che la minaccia, se credibile, non sia concretamente attuabile. Fattispecie relativa alla richiesta di una somma di danaro per la restituzione di un motociclo rubato formulata da un soggetto che aveva tratto in inganno il derubato falsamente affermando di avere la disponibilità del mezzo Sez. 2, numero 7889 del 27/03/1996, Spinelli, Rv. 205606 . La sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Taranto, che rivaluterà i fatti alla luce dei predetti principi di diritto. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Taranto.