In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro. Ma tale elemento va inteso in senso relativo.
A spiegare in che senso ci ha pensato la Corte di Cassazione con la sentenza numero 16138/14, depositata lo scorso 15 luglio. Il caso. Un portalettere di Poste Italiane presenta ricorso per cassazione avverso la sentenza di rigetto della domanda volta ad ottenere l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, comminato dalla datrice di lavoro per giusta causa «per aver riscosso in frode un vaglia postale di € 697,22», contenuto in una raccomandata, apponendo firma falsa di girata del destinatario, beneficiario del titolo. Oggetto della censura è la violazione del principio dell'immediatezza della contestazione. Infatti, secondo il ricorrente, già dopo 2 mesi dall’incasso fraudolento del vaglia «era chiaro ed inequivoco che fosse stato commesso o un errore o un illecito con la conseguenza che vi erano tutti gli elementi per iniziare un'indagine ispettiva» e non, come affermato dai giudici territoriali, solo 10 mesi dopo l’accaduto. Inoltre, il ritardo nell’avviare la procedura disciplinare era chiaramente da imputare ai dirigenti della struttura. Il provvedimento disciplinare doveva essere immediato Tuttavia, la Corte di Cassazione, ribadendo un precedente principio di diritto, ha confermato il verdetto dei colleghi di merito, affermando che «in tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo» Cass., numero 20719/2013 . ma, nella prima fase, i termini della vicenda non erano stati ancora chiariti. A parere della Corte, in effetti, nella prima fase la questione era stata trattata come lo smarrimento di una raccomandata o semplice disservizio. Solo in un secondo momento – a cui era seguito l’intervento del servizio ispettivo - era emerso che il mancato recapito della raccomandata celava l'abusivo incasso del vaglia da parte del portalettere. In sostanza, prima dell'avvio dell'indagine ispettiva non risultava accertato che il mancato recapito della raccomandata fosse frutto di un illecito. La S.C., quindi, rigetta il ricorso, condannando il ricorrente a pagare le spese processuali.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 7 maggio – 15 luglio 2014, numero 16138 Presidente Stile – Relatore D’Antonio Svolgimento del processo Con sentenza dell' 1/3/2012 la Corte d'appello di Caltanisetta in riforma della sentenza del Tribunale di Caltanisetta, ha rigettato la domanda di G.A., dipendente di Poste Italiane come portalettere, volta ad ottenere l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento comminato dalla datrice di lavoro per giusta causa per aver riscosso in frode un vaglia postale di € 697,22, contenuto nella raccomandata diretta a tale M.F., apponendo firma falsa di girata di quest'ultimo, beneficiario del titolo, come da contestazione del 5/2/2004. Circa il ritardo nell'irrogazione del licenziamento, ritenuto dal Tribunale, la Corte territoriale ha ricostruito i fatti ed ha rilevato che l'arco temporale tra il 9 gennaio data in cui il vaglia era stato fraudolentemente posto all'incasso, ed il novembre 2003, data in cui il responsabile della sede di Caltanisetta Montante, aveva interessato il servizio centrale ispettivo dopo l'ulteriore sollecito del F., non era riconducibile ad una volontà del datore di lavoro di non attribuire rilievo al fatto in quanto fino allora nulla di significativo era stato realmente svolto dalla sede di Caltanisetta. La Corte ha osservato che la circostanza che gli organi periferici non avessero prontamente chiarito gli esatti termini della vicenda e che non avessero subito segnalato agli organi ispettivi l'anomalia consistente nel fatto che il portalettere A. aveva lasciato l'avviso di giacenza della raccomandata al F. stante l'assenza del destinatario e che tuttavia la raccomandata non risultava in giacenza nell'ufficio postale tra le raccomandate restituite, non poteva essere interpretata alla stregua di un giudizio del datore di lavoro di irrilevanza del fatto e o di volontà dello stesso di non voler perseguire il responsabile e ciò in quanto fino al novembre 2003, data di interessamento del servizio ispettivo, non risultava che Poste fosse a conoscenza che il mancato recapito della raccomandata in realtà celasse l' abusivo incasso dell'importo del vaglia da parte del portalettere e che, pertanto, non si trattava di semplice smarrimento della raccomandata. La Corte ha sottolineato che prima dell'avvio degli accertamenti del servizio ispettivo non era stato assodato che il mancato recapito della missiva fosse frutto di un illecito ed ha pertanto concluso che nessuna volontà abdicativa poteva essere attribuita al lasso di tempo intercorso tra il gennaio 2003 e il novembre successivo e che, pertanto, il licenziamento era tempestivo. Circa la sussistenza della giusta causa, elemento non valutato dal primo giudice che si era limitato ad affermare il ritardo della contestazione disciplinare, la Corte ha esaminato i risultati del procedimento penale conclusosi con sentenza di condanna del lavoratore passata in giudicato nonché le risultanze emerse anche nel procedimento civile pervenendo ad affermare la fondatezza della contestazione e la proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato. Avverso la sentenza ricorre in Cassazione G.A. formulando 4 motivi. Resiste Poste Italiane con controricorso e poi deposita memoria ex art 378 cpc. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza per avere violato il principio dell'immediatezza della contestazione. Osserva che fin dal mese di marzo era chiaro ed inequivoco che fosse stato commesso o un errore o un illecito con la conseguenza che vi erano tutti gli elementi per iniziare un'indagine ispettiva. Il ricorrente osserva inoltre che l'ipotizzata complessità dell'organizzazione aziendale con la conseguente pretesa necessità di coordinamento tra i vari uffici non poteva far ritardare indebitamente la contestazione disciplinare pregiudicando il diritto del lavoratore ad una pronta e utile difesa e comunque il datore di lavoro avrebbe dovuto fornire prova della sussistenza di specifiche ragioni organizzative impeditive. Censura la sentenza nella parte in cui afferma che il diritto del datore di lavoro di procedere disciplinarmente non può essere vanificato dalla colpevole inerzia dei suoi organi periferici. Il ritardo è chiaramente imputabile ai dirigenti della struttura di Caltanissetta che pur sapendo che A. ed altri avevano commesso dei fatti sanzionabili non avevano investito immediatamente l'accaduto. Con il secondo motivo denuncia violazione dell'articolo 345 c.p.c Lamenta che la Corte aveva ammesso la produzione documentale di Poste consistente nella sentenza del Tribunale penale di Caltanissetta ed in quella della Corte d'appello sebbene Poste non avesse dimostrato di non averli potuti produrre prima. Con il terzo motivo l'A. denuncia vizio di motivazione. La stessa Corte afferma che già la discrasia che coinvolgeva sia il portalettere incaricato della consegna sia il dipendente addetto all'ufficio delle raccomandate restituite avrebbe giustificato l'interessamento degli organi ispettivi e che ciò nonostante la Corte non aveva considerato rilevante l'inerzia. Con il quarto motivo denuncia violazione del C.C.N.L. di Poste. Non si era tenuto conto delle giustificazioni fornite dal lavoratore che aveva sempre negato di aver apposto la firma del F Poste aveva pertanto violato la norma contrattuale che impone licenziamento per fatti o atti dolosi di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto nonché il principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto. Le censure, congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate. Costituisce principio affermato da questa Corte che in tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza del provvedimento espulsivo rispetto alla mancanza addotta a sua giustificazione ovvero a quello della contestazione, si configura quale elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del lavoratore, con la precisazione che detto requisito va inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero quando la complessità della struttura organizzativa dell'impresa possa far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo cfr. Cass. numero 20719/2013 . La Corte d'Appello ha valutato correttamente il comportamento delle parti con giudizio immune da vizi che investendo una questione di merito sfuggono al sindacato della Cassazione. Il ricorrente si limita a proporre una diversa valutazione dei fatti formulando in definitiva una richiesta di duplicazione del giudizio di merito e di accertamento della fondatezza della domanda senza evidenziare contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata o lacune così gravi da risultare detta motivazione sostanzialmente incomprensibile o equivoca. La Corte d'appello pur rilevando che il responsabile della sede di Caltanisetta sebbene consapevole dell'anomalia del fatto che la raccomandata non risultava in ufficio tra la posta in giacenza non aveva provveduto a interessarne gli organi ispettivi, ha sottolineato che nella prima fase i termini della vicenda non erano stati ancora chiariti e che, anzi, secondo quanto dichiarato dal responsabile la pratica era stata chiusa non essendo possibile rintracciare la raccomandata né il soggetto cui era riferibile la mancata consegna. Secondo la Corte, in definitiva, nella prima fase la questione fu trattata come lo smarrimento di una raccomandata o semplice disservizio e che solo nel novembre 2003, allorchè fu allenato il servizio ispettivo, era emerso che il mancato recapito della raccomandata celava l'abusivo incasso del vaglia da parte del portalettere . La Corte territoriale ha anche sottolineato che prima dell'intervento del servizio ispettivo gli altri impiegati coinvolti nello smarrimento della raccomandata l'addetto al settore dove confluivano le raccomandate inesitate e l'addetto allo sportello che aveva pagato il vaglia al portalettere , con atteggiamento verosimilmente compiacente, non avevano offerto elementi utili alla ricostruzione del fatto ed ha escluso che la polizia postale, interessata dal F., avesse comunicato a Poste Italiane che l'A. era indagato La Corte ha pertanto, concluso che prima dell'avvio dell'indagine ispettiva non risultava accertato che il mancato recapito della raccomandata fosse frutto di un illecito . Alla luce di tale elementi di fatto non è censurabile l'affermazione della Corte territoriale secondo cui il periodo di tempo intercorso tra il fatto della riscossione del vaglia del gennaio 2003 ed il novembre 2003 non poteva essere inteso come volontà del datore di lavoro di non voler perseguire il lavoratore. Deve rilevarsi, infine, che il ricorrente non ha neppure indicato di aver subito una limitazione nel suo diritto di difesa a causa del tempo trascorso. Quanto alle censure relative alla sussistenza della giusta causa la Corte territoriale ha richiamato la sentenza di condanna del ricorrente emessa all'esito del giudizio penale passata in giudicato il cui percorso argomentativo, secondo la Corte, trovava conferma dalle risultanze emerse nel presente procedimento che non lasciavano dubbi sulla riferibilità dell'illecito al ricorrente e sull'inconsistenza della sua posizione difensiva. La produzione di detta sentenza è ammissibile così come affermato dalla Corte in mancanza di prova della conoscenza di tale sentenza in epoca anteriore al deposito. Infine, la gravità del fatto contestato è, secondo la Corte, tale da incidere sul rapporto di fiducia e giustifica la grave sanzione del licenziamento risultando integrata l'ipotesi dell'art 53 del CCNL Come è noto, la valutazione della gravità degli addebiti e della loro idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, il quale per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, tale da comportare una grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario, deve valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra i fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare, definitivamente espulsiva cfr. ex plurimis Cass. 4 giugno 2002 numero 8107 . Per queste ragioni il ricorso deve essere rigettato. Le spese del presente giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in € 100,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.