In un contesto di tensione lavorativa, di travalicamento di compiti istituzionali e di reiterati atteggiamenti di prepotenza, il dipendente accusato di ingiurie verso il collega burbero può essere scriminato dall’esimente del diritto di critica.
Lo afferma la sezione V Penale nella pronuncia numero 19577/12, depositata il 23 maggio. Alta tensione in corsia. Una donna era chiamata a rispondere, dinnanzi al Giudice di Pace di Firenze, del reato di ingiuria in danno di una collega dottoressa. La diatriba era sorta dopo la formulazione di una diagnosi diversa a proposito di una degente, proseguita con un alterco e accuse di prepotenza e di mancanza di professionalità, conclusa con la richiesta di analisi formulata dal medico strappata e gettata nel cestino in segno di ulteriore disprezzo. Il Giudice di Pace assolveva l’imputata del reato ascrittole, però la Corte d’Appello riformava la sentenza impugnata e condannava l’iraconda al risarcimento dei danni morali. Ognuno stia al suo posto. La Cassazione rileva come la dottoressa bersaglio di ingiuria era stata in passato sospesa dal proprio servizio a cagione del suo comportamento presso il nosocomio. La vicenda processuale si colloca perciò in un panorama di acerrimo conflitto tra le due donne, la prima assegnata al reparto di pediatria, l’altra al settore didattica e ricerca. L’attrice, mal sopportando quella che aveva intuito come una manifesta indebita interferenza nella sua professione, aveva proferito le parole nel contesto delicato di una consulenza genetica su una bambina affetta da malformazioni. Così contestualizzando la vicenda, la donna – pur apparendo pacifica l’oggettività offensiva delle parole proferite – appare scriminata dall’esercizio di diritto di critica, come correttamente ritenuto del primo giudice. Il fatto si poneva insomma come manifestazione di dissenso per il diverso parere espresso dalla collega più anziana, in un contesto di travalicamento di compiti da parte di quest’ultima e di indebita ingerenza nell’ambito lavorativo altrui.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 8 febbraio – 23 maggio 2012, numero 19577 Presidente Marasca – Relatore Bruno Svolgimento del processo G.S.R. era chiamata rispondere, innanzi al Giudice di pace di Firenze, del reato di ingiuria in danno della collega dr.ssa G.U.M.L.G. che aveva formulato una diagnosi diversa rispetto alla sua ed a proposito di una piccola paziente ricoverata presso il OMISSIS , rivolgendole alla sua presenza le frasi lei ha l'abitudine di non rispettare i colleghi, se ne deve andare, non rispetta nessuno, è una vergogna, andrò a raccontare a tutti quello che lei fa qui con le sue prepotenze, lei non sa lavorare, si permette di andare contro un mio parere e quindi strappandole la richiesta di analisi formulata dalla dr.ssa G.U. e buttandola in un cestino in segno di ulteriore disprezzo. Con sentenza del 16 luglio 2008, il Giudice di pace assolveva l'imputata dal reato ascrittole con formula perché il fatto non costituisce reato. Pronunciando sul gravame proposto della persona offesa, la Corte di Appello di Firenze, con la sentenza indicata in epigrafe, riformava la sentenza impugnata condannando la G. al risarcimento dei danni morali, quantificati in Euro 500 oltre consequenziali statuizioni. Avverso la sentenza anzidetta l'imputata ha proposto ricorso per cassazione, e, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva. Motivi della decisione 1 - Il primo motivo del ricorso denuncia inosservanza od erronea applicazione della legge penale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità di motivazione. Si duole della valutazione delle risultanze di causa e segnatamente del fatto che siano state ritenute credibili le dichiarazioni della persona offesa e dei testi escussi. Non era stato, poi, considerato che l'U. , ormai in pensione, era rimasta in attività solo per la ricerca ed inoltre, a cagione del suo comportamento sul posto di lavoro, era stata pure sospesa da quel servizio. 2. - La vicenda sostanziale in esame, la cui puntualizzazione si rende necessaria per apprezzare le doglianze di parte ricorrente, si colloca nell'ambito di un rapporto conflittuale tra due dottoresse, la G. - odierna ricorrente - assegnata al reparto pediatria dell'Azienda Ospedaliera Universitaria OMISSIS e la U.M.L.G. , collega anziana, collocata nel settore della didattica e della ricerca. La G. , mal sopportando quello che aveva avvertito come indebita interferenza nel suo lavoro, il fatto cioè che la U. , richiesta dal direttore dell'azienda solo di una consulenza genetica su una bambina affetta da malformazione ed affidata alle cure della stessa G. , avesse visitato la piccola, formulando una diversa diagnosi, con richiesta di particolari esami clinici. In questo contesto, sono state proferite le espressioni ingiuriose, accompagnate dal gesto di stizza del lancio della richiesta di analisi nel cestino. Così contestualizzato l'episodio, balza evidente che, pacifica l'oggettività offensiva delle espressioni usate, in uno al gesto di disprezzo, la stessa debba ritenersi scriminata dall'esimente del diritto di critica, come esattamente ritenuto dal primo giudice. Ed invero, il fatto si poneva come chiara manifestazione di dissenso per il diverso parere espresso dalla collega più anziana, peraltro in un contesto tale da far ragionevolmente ritenere che fosse stato reso con travalicamento dei compiti istituzionali da parte della stessa persona offesa ed indebita ingerenza nel proprio ambito lavorativo. 3. - Per quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per l'effetto, l'impugnata sentenza deve essere annullata con la formula espressa in dispositivo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.