Configura reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e non la più lieve fattispecie di atti di corruzione per l’esercizio della funzione, articolo 318 c.p. lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza numero 33032/18, depositata il 17 luglio. La vicenda. La Corte d’Appello di Milano confermava la condanna di prime cure inflitta all’imputato per corruzione articolo 319 c.p. per aver ricevuto somme di denaro per compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio consistenti nella trattazione agevolata delle pratiche di ricongiungimento familiare di cittadini extracomunitari. Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione la difesa. Sussistenza del reato. La censura attinente alla mancata individuazione degli specifici atti contrari ai doveri di ufficio, oltre a costituire mera riproposizione dei temi già avanzati in appello, viene smontata dai Giudici di legittimità che sottolineano come la sentenza impugnata abbia correttamente dettagliato i tre singoli episodi contestati. In generale, infatti, configura reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e non la più lieve fattispecie di atti di corruzione per l’esercizio della funzione, articolo 318 c.p. lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi traducibile in «atti, che pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali». In conclusione, la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 24 maggio – 17 luglio 2018, numero 33032 Presidente Fidelbo – Relatore Gianesini Ritenuto in fatto 1. Il Difensore di M.M. ha proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza con la quale la Corte di Appello di MILANO ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato l’imputato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione per il reato di cui all’articolo 319 e 321 cod. penumero in riferimento alla ricezione di somme di denaro per il compimento di atti contrari ai doveri di ufficio consistenti nella trattazione agevolata delle pratiche di ricongiungimento familiare di alcuni cittadini extracomunitari. 2. Il ricorrente ha dedotto motivi di ricorso riferibili a violazione di legge penale sostanziale e processuale e vizi di motivazione ex articolo 606, comma 1 lett. b,c, ed e cod. proc. penumero . 2.1 Il ricorrente, nel ricorso, ha riproposto il tema della individuazione concreta degli atti contrari ai doveri di ufficio, lamentata come sostanzialmente assente nel caso in esame, e della mancata competenza funzionale del Pubblico Ufficiale alla trattazione delle pratiche di ricongiungimento, che erano in realtà gestite in via generale a livello informatico, così che doveva ritenersi integrato, a tutto voler concedere, il reato di cui all’articolo 318 cod. penumero . Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile in quanto proposto per motivi manifestamente infondati, con le conseguenze di cui all’articolo 616 cod. proc. penumero in tema di condanna alle spese del procedimento e alla sanzione pecuniaria. 2. Il primo tema critico sollevato con il ricorso, quello della affermata, mancata individuazione degli atti contrari ai doveri di ufficio, costituisce la mera riproposizione, senza alcuna effettiva connessione argomentativa esposta in termini di reale confutazione, di temi e valutazioni già avanzati davanti alla Corte di Appello e già da quest’ultima rigettati con motivazione pienamente rispettosa dei principi di diritto che si sono succeduti sul tema. 2.1 La Corte di Appello, infatti, ha espressamente indicato gli atti contrari ai doveri di ufficio non solo in via generale, e cioè nella trattazione agevolata di pratiche di ricongiungimento familiare, ma anche, con successivo dettaglio, nelle tre distinte occasioni, rigorosamente individuate anche nella loro collocazione temporale, nelle quali il ricorrente ha ricevuto del denaro per anticipare i tempi di trattazione delle pratiche di ricongiungimento. 2.2 Sulla base dei dati di fatto di cui sopra, non contestati dal ricorrente e sostanzialmente ammessi anche dall’imputato, la Corte ha conseguentemente affermato la sussistenza del reato di cui all’articolo 319 cod. penumero in quanto gli atti contrari ai doveri di ufficio erano stati materialmente individuati nella loro essenza si tratta delle tre pratiche di ricongiungimento alle quali si è fatto cenno più sopra , e, più in generale, in corretta adesione al principio per cui configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio - e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’articolo 318 cod. penumero - lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali così da ultimo, ma a riaffermazione di un orientamento costante, Cass. Sez. 6 15/9/2017 numero 46492, Argenziano, Rv 271383 . 3. In merito poi alla seconda prospettazione critica sollevata con il ricorso, quella della assenza di competenza specifica dall’imputato in relazione alla trattazione della pratiche di ricongiungimento, va ribadito che si tratta ancora di valutazioni e censure che non tengono conto della ineccepibile osservazione della Corte secondo la quale non è necessario che l’agente abbia una competenza specifica in relazione all’atto da compiere ma è sufficiente una generica competenza derivata dalla appartenenza all’Ufficio pubblico preposto al compimento dell’atto che comunque gli consenta di intervenire nella formazione o manifestazione della volontà dell’Ente pubblico così, da ultimo, Cass. Sez. 6 26/2/2016 numero 23355, Margiotta, Rv 267060 . 3.1 Tanto più persuasiva è poi la tesi della Corte di Appello se si considera la circostanza che l’imputato, come si è detto, ha ammesso di aver ricevuto in tre occasioni del denaro proprio per velocizzare le pratiche in questione, con ciò dimostrando una sua specifica competenza funzionale alla trattazione delle stesse o almeno, una sua concreta possibilità di ingerenza anche di mero fatto nella relativa procedura di rilascio. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di duemila Euro in favore della cassa delle ammende.