Riflettori puntati sulla dipendente di un’azienda ospedaliera, sospesa dal Gip ma ‘riabilitata’ dal Tribunale del riesame. Ora, però, il provvedimento può ritornare ad essere operativo. Perché non pare reggere la tesi della presunta compatibilità tra lo stato di malattia, come attestato dai certificati medici, e l’attività di assistenza domiciliare prestata a una disabile e retribuita ‘in nero’.
Assente giustificata a lavoro per motivi di salute. Come dimostrato da certificati medici ad hoc. Ma operativa, comunque, ‘in nero’ – e retribuita – per l’opera di assistenza domiciliare ad una persona disabile. Assolutamente plausibile il ricorso alla misura interdittiva della sospensione dal servizio Cassazione, sentenza numero 10258/2013, Seconda Sezione Penale, depositata oggi . Truffa? Eppure, il provvedimento di «sospensione dall’esercizio del servizio svolto alle dipendenze dell’azienda ospedaliera», emesso dal Giudice per le indagini preliminari nei confronti di una donna, viene azzerato dal Tribunale del riesame. Alla base di questa decisione, una semplice considerazione le «certificazioni mediche attestanti lo stato di malattia» della donna non contengono «conclusioni sulla incompatibilità dello stato di salute con lo svolgimento dell’attività lavorativa» attribuitale, ossia l’attività di «assistenza domiciliare ad una disabile». Smentita, quindi, in seconda battuta, la tesi del Gip, secondo cui era lapalissiana la condotta della donna, che aveva «tratto in inganno l’azienda ospedaliera tramite la presentazione di certificati medici» e «ottenuto un ingiusto vantaggio patrimoniale attraverso la corresponsione degli emolumenti e la retribuzione ‘in nero’ di una attività di assistenza domiciliare a una disabile». Valutazione. A ribaltare la visione proposta dal Tribunale del riesame provvedono, ora, i giudici della Cassazione, che, accogliendo il ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica, rimettono in discussione il provvedimento di «sospensione dal servizio», e soprattutto evidenziano l’«illogicità» della tesi sostenuta in secondo grado. Perché non ci si può basare, sostengono i giudici della Cassazione, su una «pretesa massima di esperienza, concernente la diversità ontologica tra la prestazione lavorativa» della donna «e l’attività di assistenza» da ella prestata, e sulla «irrilevanza», presunta, «sotto il profilo indiziario di detta attività di assistenza privata». Non è pensabile, cioè, che, come sostenuto dal Tribunale del riesame, «lo svolgimento dell’attività di assistenza domiciliare – ontologicamente diversa e non immediatamente comparabile a quella oggetto del servizio prestato in ospedale – non sarebbe idoneo a dimostrare la mancanza di malattia e dunque il fatto truffaldino , essendo possibile che» la donna «abbia scelto di prestare l’assistenza domiciliare pur a rischio di conseguenze negative sul compromesso stato di salute». Ciò che ‘pesa’ davvero, concludono i giudici, è il «rilievo indiziario» dello «svolgimento» acclarato di «mansioni in contrasto con il dichiarato e certificato stato di malattia» ecco perché il Tribunale dovrà riesaminare la vicenda, e prendere nuovamente posizione sul provvedimento di «sospensione dal servizio» emesso dal Gip nei confronti della donna.
Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 12 febbraio – 5 marzo 2013, numero 10258 Presidente Carmenini – Relatore Di Marzio Ritenuto in fatto 1. Con l’ordinanza in epigrafe la sezione del riesame del Tribunale di Bologna, decidendo sull’impugnativa proposta da A.C. avverso l’ordinanza emessa dal GIP del medesimo Tribunale in data 11.7.2012 - che aveva applicato alla stessa la misura cautelare della sospensione dall’esercizio dal servizio svolto alle dipendenze dell’Azienda ospedaliera universitaria Sant’Orsola di Bologna, ha annullato la decisione disponendo la cessazione della misura interdittiva. 2. Avverso detta pronunzia ricorre il Procuratore della repubblica presso il Tribunale di Bologna contestando violazione di legge e vizio di motivazione. In premessa il ricorso riferisce il contenuto del capo provvisorio di incolpazione a titolo di truffa per avere l’indagata, con artifizi e raggiri consistiti nel simulare stati dolorosi per lombalgia incompatibili con lo svolgimento dell’attività lavorativa, ottenuto il rilascio di certificati medici attestanti la necessità di periodi di riposo a casa, e dunque tratto in inganno l’azienda ospedaliera tramite la presentazione di detti certificati, ottenuto un ingiusto vantaggio patrimoniale attraverso la corresponsione degli emolumenti e la retribuzione in nero di una attività di assistenza domiciliare a una disabile. Nel corpo dell’atto si critica la motivazione del Tribunale sulla insussistenza di un grave quadro indiziario contestando in particolare - il rilievo del Tribunale sulla sussistenza di certificazioni mediche attestanti lo stato di malattia dell’indagata non riscontrandosi in tali certificazioni, redatte da medici diversi da quello di base dell’indagata, conclusioni sulla incompatibilità dello stato di salute con lo svolgimento dell’attività lavorativa - la ricostruzione dei fatti, per evidenziare la insussistenza di un quadro indiziario sufficiente per l’adozione della misura. Considerato in diritto 1. È anzitutto necessario chiarire i limiti di sindacabilità da parte di questa Corte dei provvedimenti adottati dal giudice del riesame dei provvedimenti sulla libertà personale. Secondo l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, l’ordinamento non conferisce alla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, né alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità 1 - l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato 2 - l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Cass. Sez. 6^ sent. numero 2146 del 25.05.1995 dep. 16.06.1995 rv 201840 . Nel caso di specie il Tribunale, premessa l’esistenza di certificazioni attestanti comunque la patologia dell’indagata e la necessità che la stessa si astenesse da eseguire attività che imponessero la stazione eretta per periodi di tempo prolungati, ha argomentato come lo svolgimento dell’attività di assistenza domiciliare - comunque ontologicamente diversa e quindi non immediatamente comparabile a quella oggetto del servizio prestato dall’indagata in ospedale - non sarebbe idoneo a dimostrare la mancanza di malattia e dunque il fatto truffaldino , essendo possibile che l’indagata abbia scelto di prestare l’assistenza domiciliare pur a rischio di conseguenze negative sul compromesso stato di salute. L’illogicità fondatamente rilevata dal PM ricorrente è determinata dal fondarsi il ragionamento su di una pretesa massima di esperienza concernente la diversità ontologica tra la prestazione lavorativa dell’indagata e l’attività di assistenza prestata dalla stessa, e dalla conclusione sulla irrilevanza sotto il profilo indiziario dell’espletamento di detta attività di assistenza privata. Sotto un primo profilo, la supposta diversità non è minimamente argomentata dal Tribunale, che si limita ad affermare che la patologia di cui l’indagata sarebbe affetta secondo le certificazioni in atti imporrebbero limitazioni all’attività non incompatibili con l’assistenza domiciliare prestata in via di fatto sotto un secondo profilo il Tribunale adduce una ipotesi che l’indagata abbia scelto di prestare l’assistenza domiciliare pur a rischio di conseguenze negative sul compromesso stato di salute che varrebbe al più come giustificazione ipotetica del dato di fatto, come tale accertato, della malattia da un lato e dello svolgimento dell’attività dall’altro, ma che non si presta a svilire il rilievo indiziario dato dal fatto certo dello svolgimento delle mansioni in contrasto con il dichiarato e certificato stato di malattia. 3. Ne discende l’annullamento del provvedimento impugnato e la conseguente trasmissione degli atti al Tribunale di Bologna per nuovo esame. P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato e dispone trasmettersi gli atti al Tribunale di Bologna per nuovo esame.