Cane deceduto, responsabile la titolare della pensione ma niente risarcimento del danno morale

L’animale è stato affidato per anni alla struttura, dove poi è morto. I Giudici hanno ritenuto evidente la responsabilità della persona che gestiva la pensione, ma le padrone del quadrupede non hanno dato sostanza alla lesione morale da loro lamentata.

Il legame con il proprio cane va dimostrato, altrimenti non può essere riconosciuto il danno morale connesso alla perdita dell’animale. Esemplare la decisione con cui è stato negato il risarcimento a tre donne che avevano citato in giudizio la titolare di una pensione per animali domestici cui avevano affidato per anni il loro quadrupede, poi deceduto in quella struttura Cassazione, ordinanza n. 8440/18, sez. VI Civile, depositata il 5 aprile . La prova del danno morale. Nessun dubbio, in premessa, sulla responsabilità della titolare della pensione per la morte del cane affidato alla sua custodia per oltre otto anni . Ciò nonostante, alle proprietarie dell’animale viene negato in appello – contrariamente a quanto deciso in primo grado – il risarcimento del danno patrimoniale e morale . In particolare, viene evidenziato che del danno patrimoniale non era stata fornita alcuna prova e che il danno morale non poteva ritenersi in re ipsa ma andava debitamente allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni . In sostanza, secondo i Giudici di secondo grado, le proprietarie del cane non hanno dato sostanza al danno morale da loro lamentato. Questa visione viene ritenuta corretta dai Giudici della Cassazione, i quali ritengono inammissibile il ricorso proposto dalle tre donne. Irrilevante il richiamo da parte del legale al fatto che le sue clienti avevano sostenuto per oltre otto anni le spese di custodia del cane e avevano continuato a frequentarlo assiduamente .

Corte di Cassazione, sez. VI Civile 3, ordinanza 16 gennaio – 5 aprile 2018, n. 8440 Presidente Frasca – Relatore Sestini Fatto e diritto Rilevato che a Corte di Appello di Napoli, pur ritenendo provata la responsabilità della Ge. titolare di una pensione per animali domestici per la morte di un cane affidato alla sua custodia, ha negato alle proprietarie dell'animale il risarcimento del danno, che era stato invece riconosciuto dal primo giudice a titolo di danno patrimoniale e morale ha affermato la Corte che del danno patrimoniale non era stata fornita alcuna prova e che il danno morale non poteva ritenersi in re ipsa , ma andava debitamente allegato e provato, anche a mezzo di presunzioni, mentre le attrici non avevano fornito la prova richiesta hanno proposto ricorso per cassazione Ma. e Al. Ro. e Pa. Co., affidandosi a tre motivi ha resistito l'intimata a mezzo di controricorso il ricorso è stato rimesso all'adunanza camerale, ex art. 380 bis cod. proc. civ., con proposta di accoglimento. Considerato che con i primi due motivi che denunciano -il primo la violazione o falsa applicazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ. e l'erronea valutazione delle prove, nonché -il secondo la violazione o falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 cod. civ. , le ricorrenti censurano la sentenza per non aver valutato l'esistenza di elementi quali il fatto che, per oltre otto anni, le proprietarie avevano sostenuto le spese di custodia del cane e avevano continuato a frequentarlo assiduamente che deponevano univocamente nel senso dell'esistenza dei danni, che dunque avrebbero dovuto essere liquidati in via equitativa a fronte dell'obiettiva difficoltà di fornire la prova del loro esatto ammontare i motivi risultano entrambi inammissibili, in quanto il primo motivo deduce la violazione delle norme in modo palesemente difforme da quanto indicato da Cass. n. 11892/2016 quanto all'art. 116 cod. proc. civ. e da Cass., S.U. n. 16598/2016 quanto all'art. 2697 cod. civ. contiene, inoltre, un rimando alla esaustiva istruttoria del tutto generico e si risolve nella mera sollecitazione ad una rivalutazione delle circostanze di fatto, svolgendo una censura alla motivazione sulla quaestio facti al di fuori dei limiti consentiti da Cass., S.U. nn. 8053 e 8054 del 2014 anche il secondo motivo si muove su un iter deduttivo del tutto generico, dato che l'evocazione dei principi di diritto non è parametrata alle risultanze processuali, ma si risolve in una postulazione astratta il terzo motivo che attiene alla condanna alle spese di lite e che lamenta la mancata compensazione è parimenti inammissibile, in quanto non è censurabile in sede di legittimità la scelta del giudice di merito di non avvalersi della facoltà di compensare le spese processuali sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente giudizio, ai sensi dell'art. 92, 2. co. cod. proc. civ., nel testo anteriore alle modifiche introdotte a partire dalla L. n. 263/2005 applicabile ratione temporis, trattandosi di causa iniziata nell'anno 2003 trattandosi di ricorso proposto successivamente al 30.1.2013, sussistono le condizioni per l'applicazione dell'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002. P.Q.M. La Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso e compensa le spese di lite. Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.