Operare un paziente ritenuto inoperabile è omicidio colposo perché si va contro le regole di prudenza e le disposizioni dettate dalla scienza e dalla coscienza .
La sentenza numero 13746, depositata il 7 aprile, scagiona i tre chirurghi condannati in secondo grado per aver causato la morte di una paziente inoperabile , ma solo per l'avvenuta prescrizione del reato.Il caso. I chirurghi operavano una paziente affetta da tumore al pancreas con metastasi diffuse. Nel corso dell'intervento, perlomeno in base a quanto evidenziato dalle perizie, veniva provocata una lesione alla milza che, nelle ore successive, portava ad un brusco peggioramento delle condizioni cliniche della donna e al seguente decesso. Non solo. Nel tentativo di rianimare la paziente le veniva fratturato anche lo sterno e due costole.Violazione delle regole di prudenza. La Corte d'appello di Roma riteneva responsabili i chirurghi di omicidio colposo articolo 589 c.p. per violazione delle regole di prudenza che devono ispirare i professionisti che operano in scienza e coscienza.L'accanimento terapeutico. Era emerso che i medici operatori, dopo aver acclarato l'inoperabilità e col consenso della paziente, procedevano all'intervento chirurgico per asportarne le ovaie allo scopo di determinare lo stadio di avanzamento della malattia. Nel corso dell'operazione i chirurghi non si accorgevano della piccola lacerazione della milza che, successivamente, causava un'emorragia mortale.I Giudici di secondo grado ravvisavano, quindi, un nesso causale tra l'omessa tempestiva identificazione delle lesioni, avuto riguardo anche alle condizioni cliniche della paziente già note prima dell'intervento, e la morte della signora.Il consenso del paziente non giustifica l'accanimento terapeutico. Secondo la Quarta sezione Penale della Corte di Cassazione, nel caso concreto, attese le condizioni indiscusse ed indiscutibili della paziente, non era possibile attendersi dall'intervento un beneficio per la salute o un miglioramento della qualità della vita, così che i medici non avrebbero dovuto effettuare l'intervento chirurgico nonostante il regolare consenso da parte dell'ammalata a subire l'operazione.La S.C. conferma quanto già sostenuto dalla Corte territoriale, cioè la violazione, da parte dei medici, del codice deontologico che fa divieto di trattamenti informati a forme di inutile accanimento diagnostico-terapeutico .La prescrizione. Secondo i giudici di legittimità, non sono ravvisabili profili di violazione della legge sostanziale e processuale prospettati dai ricorrenti visto che la Corte d'appello ha analizzato la sussistenza della condotta colposa e il relativo nesso causale tra condotta ed evento l'unica motivazione addotta dai ricorrenti che viene accolta, portando all'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, è quella inerente all'estinzione del reato per intervenuta prescrizione ex articolo 129 c.p.p. .