Gli inadempimenti tributari e previdenziali ben possono rientrare nelle operazioni dolose che cagionano il fallimento, tali da integrare l’ipotesi di bancarotta di cui all’articolo 233 l.f In dette operazioni infatti rientrano tutti gli atti intrinsecamente pericolosi per la salute economica e finanziaria dell’impresa e dunque anche le condotte omissive di mancato adempimento alle obbligazioni tributarie e previdenziali, che accrescono l’indebitamento della società in conseguenza dell’accumularsi di interessi e sanzioni sulle somme non versate.
Con la sentenza numero 42811, depositata il 13 ottobre, la sez. V della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un imprenditore che si lamentava della ritenuta valenza, ad opera dei giudici di merito, dell’omesso versamento di imposte e contributi previdenziali quale ipotesi di bancarotta in conseguenza dell’intervenuto fallimento della società. Un’altra tegola sull’impresa in crisi. Mentre i mass-media ed invero anche la giurisprudenza di merito e di legittimità, ormai da un paio di anni, si interrogano sulla rilevanza che la crisi di impresa e quindi una situazione di insolvenza possa avere nell’esonerare o meno da responsabilità penale per i reati tributari l’imprenditore che, per tali ragioni, ometta di versare le ritenute, i contributi, ovvero le imposte, la Suprema Corte lancia un ulteriore pesante monito in chiave repressiva. Nel caso in cui, avverte la Cassazione, alla situazione di crisi dell’impresa consegua il fallimento della società, le omissioni di versamenti di contributi ed imposte potranno integrare quelle «operazioni dolose che cagionano il fallimento della società» menzionate nell’articolo 223 l.f. e dunque ipotesi di bancarotta fraudolenta. Poiché infatti, osservano gli Ermellini, le operazioni dolose di cui all’articolo 223 l.f. ben possono essere integrate da condotte omissive ed in esse rientrano tutti gli atti intrinsecamente pericolosi per la salute economico-finanziaria della impresa, non vi è alcun dubbio che, fra le stesse, siano annoverabili gli omessi versamenti di contributi ed imposte, che, come noto, espongono la società al conseguente obbligo di pagare, oltre dette somme, gli interessi e le pesanti sanzioni amministrative conseguenti alle omissioni. Laddove, poi, tali omissioni abbiano il carattere della sistematicità, non può esservi dubbio, per la Cassazione, della penale responsabilità anche per bancarotta fraudolenta ex articolo 223 l.f. dell’imprenditore. Dagli omessi versamenti un cortocircuito sanzionatorio. Non resta che constatare come il vigente sistema legislativo italiano e con esso l’interpretazione giurisprudenziale abbiano creato, con il passare degli anni, un sistema repressivo a fronte degli omessi versamenti di contributi previdenziali e tributari, tale da dare luogo ad un vero e proprio cortocircuito sanzionatorio. Chi infatti ometta di versare imposte e contributi si troverà in primis assoggettato al rischio delle sanzioni amministrative ed agli interessi di mora, in secondo luogo, laddove l’inadempimento permanga e attinga determinate soglie, al rischio delle sanzioni penali di cui agli articolo 10- bis e 10- ter d.lgs. numero 74/2000 ed al conseguente sequestro per equivalente finalizzato alla confisca, la cui natura sanzionatoria è stata definitivamente riconosciuta, ed infine, nel caso di successiva dichiarazione di fallimento, anche a dover rispondere di bancarotta fraudolenta. Una vera e propria escalation sanzionatoria ed una evidente duplicazione di sanzioni penali ed amministrative ora legittimata dalle pronunce a Sezioni Unite numero 37424/2013 , in tema di omesso versamento IVA, e numero 37425/2013 , in tema di omesso versamento di ritenute, con le quali si è chiarito che tra le sanzioni amministrative per omesso versamento IVA e di ritenute certificate e le norme sanzionatorie penali non intercorre alcun rapporto di specialità con conseguente applicabilità della sola sanzione penale ex articolo 19 d.lgs. numero 74/2000 , bensì di “progressione” per la maggior gravità della fattispecie penale, con conseguente applicabilità di entrambe le sanzioni. All’omesso versamento di imposte i.e. IVA potrà dunque, in ipotesi, conseguire l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie, la sanzione penale di cui all’art 10- ter , la confisca per equivalente ed ora, in caso di fallimento, la pena per il delitto di bancarotta fraudolenta. Ad un fatto, sostanzialmente unico sotto il profilo naturalistico, vengono fatte conseguire ben quattro sanzioni. Il semaforo rosso della CEDU. Un freno a tale deriva sanzionatoria potrebbe giungere, come ultimamente spesso accade, dalla giurisprudenza comunitaria. La sentenza del 4 marzo 2014 della CEDU , nota come sentenza Grande Stevens, ha infatti affermato il principio del ne bis in idem processuale fra le sanzioni penali e le sanzioni amministrative riconducibili alla materia penale, a prescindere dalla differente qualificazione alle medesime fornite dal paese membro. Secondo la giurisprudenza comunitaria, l’identità del fatto sul piano storico naturalistico importa il ne bis in idem processuale ed il conseguente divieto di punire due volte il medesimo fatto con sanzioni di natura penale, ricomprendendosi in tale concetto anche le sanzioni punitive qualificate come amministrative dall’ordinamento interno. Orbene, come noto, detto principio è stato esteso dalla Corte CEDU, con la sentenza del 20 maggio 2014, Nykänen, anche alla materia fiscale chiarendo che le sanzioni amministrative tributarie, quando hanno una finalità non solo risarcitoria, ma punitiva, sono riconducibili alla materia penale, con conseguente operatività anche in tale campo del divieto di bis in idem processuale. La materia del concorso delle sanzioni nel diritto interno italiano, venuta meno la pregiudiziale tributaria, è regolata, invero, dall’articolo 19 d.lgs. numero 74/2000 che prevede il principio di specialità con prevalenza della sanzione penale . Tuttavia, proprio per effetto delle due recenti sopra menzionate pronunce a Sezioni Unite numero 37424/2013 e numero 37425/2013 non si applica il principio di specialità di cui all’articolo 19, con conseguente cumulo e applicabilità di entrambe le sanzioni penali ed amministrative . Tuttavia, la tensione di tale situazione con il sistema pattizio pare essere evidente ed è in conseguenza assai probabile che la giurisprudenza comunitaria ravviserà, nei casi in esame, una evidente violazione del ne bis in idem processuale, in quanto il processo penale è volto alla irrogazione di una seconda sanzione in materia penale per il medesimo fatto il mancato pagamento dell’IVA o delle ritenute che si protrae nel tempo e supera una determinata soglia, già sanzionato in via amministrativa. Ben più difficile, invece, che detto ragionamento possa estendersi al caso in esame, laddove la sanzione, invero assai grave, prevista dalla fattispecie di cui all’articolo 223 l.f. viene correlata al fallimento della società, che è fatto naturalistico indubbiamente diverso ed ulteriore rispetto all’omesso versamento, e che lede gli interessi patrimoniali dei creditori e non l’interesse dell’Amministrazione Finanziaria dello Stato all’incasso di imposte e contributi. Resta, dunque, la problematica del moltiplicarsi di sanzioni penali di fronte alla medesima originaria condotta e alla pluralità di conseguenza che ne derivano, che forse solo la, da tempo, auspicata riforma del diritto penale fallimentare potrebbe definitivamente chiarire e risolvere.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 18 giugno – 13 ottobre 2014, numero 42811 Presidente Savani – Relatore Zaza Ritenuto in fatto Con la sentenza impugnata veniva confermata la sentenza del Tribunale di Milano del 31/01/2008, con la quale F.E. era ritenuto responsabile del reato continuato di cui agli articolo 2621 cod. civ., 216 e 223 r.d. 16 marzo 1942, numero 267, commesso quale amministratore delegato fino al 07/05/2002 e successivamente amministratore di fatto della EF Computer s.p.a., dichiarata fallita in omissis , esponendo nei bilanci al 2000 e al 2001 fatti non rispondenti al vero sulle condizioni economiche della società, in particolare indicando quali immobilizzazioni materiali capitalizzazioni di costi per l'impiego di personale addetto allo sviluppo di nuovi software , non documentati e senza prevedere ammortamenti, quali immobilizzazioni finanziarie la partecipazione nella controllata EF Outsourcing, scorporata dalla stessa EF Computer e sopravalutata, e crediti inesistenti verso clienti e società controllate cagionando il dissesto per effetto di tali condotte e del mancato pagamento di contributi previdenziali ed assistenziali ed imposte dirette e sul valore aggiunto a partire dal 2000 e distraendo il programma informatico denominato EVA, non rinvenuto dalla curatela. Reato per il quale l'imputato era condannato alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione. L'imputato ricorre sui punti e per i motivi di seguito indicati. 1. Sull'affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta impropria, il ricorrente deduce mancanza di motivazione sulla definizione delle operazioni dolose che avrebbero cagionato il fallimento, e violazione di legge nella ritenuta sussistenza del rapporto causale fra la determinazione del debito tributario e previdenziale, che non determinava alcun danno patrimoniale per la società, e nell'affermazione della consapevolezza di tale nesso causale da parte dell'imputato al percorso di studi del F. in materia economica. Lamenta altresì violazione di legge nella ritenuta ravvisabilità dell'ipotesi di bancarotta impropria societaria in false rappresentazioni in bilancio non funzionali a distrazioni e come tali anch'esse non produttive di danno patrimoniale, e contraddittorietà della motivazione nel riferimento a tal fine alla prosecuzione dell'attività di impresa, consentita dalle falsità contabili, in quanto tale incompatibile con l'intento di cagionare il fallimento. Con la memoria depositata il ricorrente, oltre a ribadire tali argomentazioni, deduce mancanza di motivazione sul superamento delle soglie di punibilità previste per il reato di false comunicazioni sociali dall'articolo 2621 cod. civ 2. Sull'affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta per distrazione, il ricorrente deduce illogicità della motivazione in quanto fondata sul mancato rinvenimento di un programma non consegnato materialmente al curatore, il quale, come riportato nella stessa sentenza, aveva ammesso di non averlo ricercato nella memoria informatica della società e violazione di legge ed illogicità della motivazione nell'attribuzione della condotta all'imputato in base ad una posizione di amministratore di fatto presunta in base al mero rapporto parentale con l'amministratore di diritto F.L. . Considerato in diritto 1. I motivi proposti sull'affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato di bancarotta impropria sono infondati. È in primo luogo infondata la censura di mancanza di motivazione sull'identificazione delle operazioni dolose che avrebbero cagionato il fallimento. Dette operazioni venivano infatti identificate negli inadempimenti tributari e previdenziali, e tanto in conformità ai principi enunciati da questa Corte, per i quali le operazioni in esame possono essere individuate non solo in abusi o infedeltà nell'esercizio della carica amministrativa, ma, in una visione più ampia, in ogni atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell'impresa Sez. 5, numero 2905 del 16/12/1998 03/03/1999 , Carrino, Rv. 212613 Sez. 5, numero 13767 del 18/03/2003, Prospero, Rv. 225634 come tale individuabile anche in una condotta omissiva, in quanto produttiva in un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa stessa Sez. 5, numero 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti s.p.a., Rv. 247313 , e dunque anche negli omessi versamenti degli oneri in discussione, soprattutto nel momento in cui le violazioni assumevano carattere sistematico. Insussistente è poi la dedotta violazione di legge nel ritenuto rapporto causale fra la creazione del debito tributario e previdenziale della fallita ed il dissesto. Se è vero che, come sostenuto dal ricorrente, il mancato pagamento degli oneri in discussione non comportava nell'immediato una diminuzione patrimoniale per l'impresa, una siffatta diminuzione si verificava successivamente con l'esposizione della società ad un debito non limitato all'importo degli oneri non pagati, ma accresciuto delle sanzioni derivanti dal mancato pagamento circostanza che, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata, per un verso implicava inevitabilmente un aggravamento della condizione di insolvenza della società, e per altro non poteva che essere percepibile come tale dall'imputato, del quale tutt'altro che illogicamente la Corte territoriale rimarcava a questo proposito le specifiche competenze derivanti dagli studi economici intrapresi. La motivazione della sentenza impugnata era altresì corretta ed esente da vizi logici con riguardo alle condotte di false comunicazioni sociali ed all'incidenza delle stesse sull'evento tipico del reato. Quest'ultimo comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto conducendo a tale conclusione sia il dato letterale della norma incriminatrice, che individua le condotte rilevanti in quelle che abbiano anche “concorso a cagionare” il dissesto, sia la considerazione della naturale progressività dei fenomeni determinativi del dissesto di un'impresa Sez. 5, numero 16259 del 04/03/2010, Chini, Rv. 247254 Sez. 5, numero 17021 dell'11/01/2013, Garuti, Rv. 255090 Sez. 5, numero 28508 del 12/04/2013, Mannino, Rv. 255575 . Orbene, tale aggravamento si verifica non solo allorché le falsità in bilancio incidano direttamente sulla consistenza del patrimonio della società, ma anche, come nel caso di specie, laddove le stesse, occultando l'esistenza di perdite, consentano la prosecuzione dell'attività dell'impresa, in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, ed il conseguente accumulo di perdite ulteriori Sez. 5, numero 28508 del 12/04/2013, Mannino, Rv. 255575 . Né è ravvisabile la dedotta contraddittorietà fra la finalizzazione delle falsità alla prosecuzione dell'attività della società e l'intento di cagionare il fallimento della stessa, per il semplice fatto che il dolo del reato di bancarotta impropria da reato societario non richiede tale intento, ma unicamente la consapevolezza del probabile squilibrio economico quale effetto della condotta Sez. 5, numero 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804 , compatibile con la volontà di prolungare l'esercizio dell'impresa. È infine inammissibile la censura di mancanza di motivazione sul superamento delle soglie di punibilità del reato di false comunicazioni sociali. L'esame della questione è precluso in questa sede, non essendo stato il tema proposto con i motivi di appello e peraltro la doglianza è comunque generica, laddove nella sentenza di primo grado il punto era specificamente affrontato e risolto positivamente osservando che le poste attive inesistenti occultavano perdite che nel 2000 avrebbero determinato l'azzeramento del capitale, e nel 2001 raggiungevano un importo superiore al milione di Euro. 2. Sono altresì infondati i motivi proposti sull'affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato di bancarotta per distrazione. La censura di illogicità della motivazione sul mancato rinvenimento del programma informatico, oggetto della contestata distrazione, è invero articolata sull'infondato presupposto che nella stessa sentenza impugnata si dia atto di omesse ricerche del programma, da parte del curatore, nella memoria della società laddove la Corte territoriale osservava che il programma non era stato ritrovato dal curatore neppure a seguito dell'intervento di un consulente informatico, il che implicava ricerche condotte in quella memoria. La doglianza di illogicità della ritenuta posizione di amministratore di fatto dell'imputato, in quanto asseritamente fondata unicamente sul rapporto di parentela dello stesso con il padre ed amministratore di diritto F.L. , è invece generica laddove i giudici di merito affidavano le loro conclusioni sul punto ad elementi di ben altra consistenza, segnatamente le dichiarazioni dei dipendenti, raccolte dal curatore, per le quali, nell'ambito di una società sostanzialmente amministrata dalla famiglia F. , l'imputato proponeva specifiche scelte gestionali, quale quelle relative all'omesso versamento dei contributi previdenziali, ed assumeva decisioni insieme al padre. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.