Dimissioni o licenziamento: un’altra fine non è prevista

Il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro oppure delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, ma svincolato dall’effettiva volontà del soggetto e che non ammetta prova contraria.

Lo afferma la Corte di Cassazione nella sentenza numero 1025, depositata il 21 gennaio 2015. Il caso. Il tribunale di Roma dichiarava legittimo il licenziamento di un lavoratore, che si era ingiustificatamente assentato dal lavoro per due mesi e mezzo. La società aveva applicato il regolamento del personale, secondo cui è considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assenti senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo non superiore a 10 giorni lavorativi. Il comportamento del lavoratore rappresentava, di conseguenza, un’implicita volontà di rassegnare le dimissioni. In totale riforma, la Corte d’appello dichiarava, invece, l’illegittimità del licenziamento. La società ricorreva, quindi, in Cassazione, deducendo che il comportamento del lavoratore fosse incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro, risolto pertanto per dimissioni e non mediante licenziamento. Manifestazione implicita da escludere. La Corte di Cassazione ricorda che alle parti non è consentito attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. In tale ipotesi, non si tratterebbe più di dimissioni manifestate per facta concludentia, che presuppongono una volontà effettiva di dimettersi e la manifestazione di essa seppure in forma diversa dalla dichiarazione esplicita, bensì dell’attribuzione convenzionale di un effetto giuridico tipizzato, cioè la cessazione del rapporto, ad un determinato comportamento. Si tratta di effetti che non possono essere stabiliti dalle parti collettive. O uno o l’altro. Il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro oppure delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, ma svincolato dall’effettiva volontà del soggetto e che non ammetta prova contraria. Altrimenti, la previsione negoziale si risolverebbe in una clausola risolutiva espressa del rapporto, il che è inammissibile. Nel caso di specie, inoltre, il lavoratore aveva comunicato telefonicamente alla società di essere in malattia e quest’ultima aveva poi richiesto l’invio di documentazione medica. La mancata trasmissione, secondo la società, rendeva applicabile la fattispecie del regolamento del personale, per cui il lavoratore doveva ritenersi dimissionario. Ma la richiesta della società non conteneva una diffida espressa a riprendere servizio, né faceva riferimento ad una presunta volontà del lavoratore di recedere dal rapporto. Perciò, si trattava di una situazione di assenza ingiustificata, non della volontà mai manifestata del lavoratore di dimettersi. Eventualmente, la prolungata assenza dovuta a malattia, non documentata, avrebbe potuto essere il fondamento di un licenziamento disciplinare, nel rispetto delle garanzie procedimentali di legge. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 23 ottobre 2014 – 21 gennaio 2015, numero 1025 Presidente Macioce – Relatore Amoroso Svolgimento del processo 1. Con sentenza numero 15103 del 3 ottobre 2008 il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso proposto da S.A. , volto ad ottenere la dichiarazione di nullità, inefficacia e/o illegittimità del licenziamento comunicatogli con lettera del 15 settembre 2006 dalla SIAE - Società Italiane degli Autori ed Editori. Il Tribunale, dopo aver evidenziato che il S. si era ingiustificatamente assentato dal lavoro in via continuativa dal 26 aprile al 4 luglio 2006, data in cui la SIAE gli aveva contestato l'assenza ingiustificata, ha ritenuto applicabile alla fattispecie l'articolo 68 del regolamento del personale, approvato il 9 settembre 1992, a norma del quale è considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assenti senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo superiore a 10 giorni lavorativi consecutivi. Ha ritenuto che correttamente la società aveva ravvisato nel comportamento del dipendente una implicita volontà di rassegnare le dimissioni ed ha aggiunto che nessun rilievo poteva essere attribuito al preteso stato confusionale del S. . Ha rilevato, infine, che la SIAE aveva tenuto nei confronti del lavoratore un atteggiamento più che benevolo, avendo tollerato un'assenza ingiustificata di ben 143 giorni, concedendogli la fruizione del più favorevole trattamento di a spettati va al 50%, pur in assenza di qualsivoglia notizia da parte del S. . 2. Avverso detta decisione ha proposto tempestivo appello il S. soccombente, rilevando che con la lettera del 4 luglio 2006 la società, nel richiedergli la trasmissione di certificati medici a giustificazione del suo stato di malattia, aveva riconosciuto l'avvenuta comunicazione dell'impedimento, effettuata telefonicamente dall'interessato. Ed infatti la società nel periodo 26 aprile - 31 agosto 2006 aveva ritenuto la sussistenza della malattia, tanto che aveva corrisposto il relativo trattamento economico indicato in busta paga come aspettativa per malattia 50% . Non poteva, quindi, trovare applicazione l'articolo 68, comma 4, del regolamento SIAE perché esso si riferiva alla diversa fattispecie della assenza ingiustificata, accompagnata dalla omessa comunicazione di ragioni poste a fondamento della stessa. Ha sostenuto, quindi, che una volta esclusa la applicabilità dell'articolo 68 cit., nella comunicazione del 15 settembre 2006 doveva essere ravvisato un vero e proprio licenziamento, nella specie illegittimo perché intimato senza il rispetto delle garanzie difensive previste dall'articolo 7 della legge numero 300 del 1970. Ha quindi concluso per l'integrale accoglimento della domanda così come formulata nel primo grado di giudizio, chiedendo la reintegrazione, nel posto di lavoro in precedenza occupato ed il risarcimento dei danni ex articolo 18 legge numero 300 del 1970. Ha resistito all'appello la Società Italiana degli Autori ed Editori che, nel costituirsi in giudizio, ha eccepito in via preliminare l'inammissibilità del gravame per difetto di specificità. Nel merito ha fatto propria la motivazione della sentenza, impugnata, sostenendo la legittimità del provvedimento adottato, in quanto assunto nel rispetto delle previsioni del Regolamento del personale. La Corte d'appello di Roma con sentenza del 7 maggio 2010-19 luglio 2010, in riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento comunicato dalla1 S.I.A.E. - Società Italiana degli Autori e degli Editori - a S.A. con missiva del 15 settembre 2006 e ha ordinato per l'effetto alla società appellata di reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato. Ha condannato la S.I.A.E. a corrispondere a S.A. , a titolo di risarcimento del danno, le retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento sino alla effettiva reintegrazione, da quantificarsi in relazione all'importo mensile di Euro 1.831,55, oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali da calcolarsi a far tempo dalla data di maturazione dei singoli ratei sino al soddisfo. Ha condannato la SIAE al versamento dei contributi previdenziali a far tempo dalla data del recesso. Ha infine condannato la società appellata a rifondere a S.A. le spese di entrambi i gradi di giudizio. 3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la società con un unico motivo. Resiste con controricorso la parte intimata, che ha anche depositato memoria. Motivi della decisione 1. Con un unico motivo di ricorso la società censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli articolo 1324, 1334, 2727 c.c., nonché dell'articolo 18 legge numero 300 del 1970, e dell'articolo 68 del regolamento del personale Siae del 9 settembre 1992. Lamenta altresì omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi. Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale non ha considerato che il rapporto di lavoro si era risolto per dimissioni del lavoratore, espresse per fatti concludenti, in ragione della protratta ingiustificata assenza dal posto di lavoro per un periodo superiore a 10 giorni. Il comportamento tenuto dal lavoratore era incompatibile con la volontà di proseguire il rapporto di lavoro, che pertanto si era risolto per dimissioni e non già per il licenziamento come ritenuto dalla Corte d'appello. 2. Il ricorso è infondato. In diritto va ribadito il principio già affermato da questa Corte Cass., sez. lav., 2 luglio 2013, numero 16507 secondo cui alle parti non è consentito di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. Si è osservato che in tale ipotesi, invero, non si tratterebbe più di dimissioni manifestate per facta concludentia - le quali presuppongono una volontà effettiva di dimettersi e la manifestazione di essa seppure in forma diversa dalla dichiarazione esplicita - ma della attribuzione convenzionale di un effetto giuridico tipizzato - la cessazione del rapporto - ad un determinato comportamento. Tanto le parti collettive non possono stabilire, atteso che il rapporto di lavoro può estinguersi esclusivamente per le cause a tal fine previste dalla legge e non è permesso alle parti introdurre altre cause di estinzione del rapporto, stante il carattere inderogabile della disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti. Si ha quindi che il recesso dal rapporto di lavoro subordinato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, mentre non è possibile che le parti contraenti, collettive o individuali, introducano un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell'intenzione di recedere, che sia, però, svincolato dalla effettiva volontà del soggetto e che non ammetta la possibilità di prova contraria, giacché in tal caso la previsione negoziale si risolverebbe in una clausola risolutiva espressa del rapporto, inammissibile nell'attuale assetto della disciplina legale della risoluzione del rapporto di lavoro. Si è anche precisato Cass., sez. lav., 20 maggio 2000, numero 6604 che non può escludersi che un comportamento tenuto dal lavoratore sia tale da esprimere la sua volontà di recedere dal rapporto di lavoro, ma ciò implica un'indagine del giudice diretta ad accertare in concreto la volontà di recedere dal rapporto, restando incensurabile in sede di legittimità l'accertamento del giudice di merito congruamente motivato. Parimenti si è affermato Cass., sez. lav., 9 settembre 2011, numero 18523 che il lavoratore che agisce in giudizio per conseguire i rimedi contro il licenziamento illegittimo ha l'onere di provare l'esistenza del licenziamento, spettando al datore di lavoro provare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Ove, peraltro, l'attuazione del rapporto di lavoro sia cessata in assenza di atti formali di licenziamento o di dimissioni e in presenza di contrapposte tesi circa la causale di detta cessazione, il giudice di merito deve, ai fini dell'accertamento del fatto, prestare particolare attenzione indagandone la rilevanza sostanziale e probatoria nel caso concreto anche agli eventuali episodi consistenti nell'offerta delle prestazioni da parte del lavoratore e nel rifiuto o mancata accettazione delle stesse da parte del datore di lavoro. 3. Nella specie la Corte d'appello - dopo aver richiamato la normativa interna posta dal Regolamento del personale delibera del Consiglio di Amministrazione del 9 settembre 1992 che prevedeva all'articolo 68 che le dimissioni dovevano essere presentate per iscritto dal dipendente primo comma , ma che era considerato dimissionario il dipendente che, senza dare la prevista comunicazione, si assentasse senza giustificato motivo dal lavoro per un periodo superiore a dieci giorni lavorativi consecutivi ovvero non riprendesse servizio entro il termine prefissatogli mediante apposita diffida quarto comma - ha considerato che con missiva del 4 luglio 2006 la SIAE invitava il S. a trasmettere documentazione medica attestante il preteso stato di malattia, dando atto che, a suo tempo, la malattia medesima era stata comunicata telefonicamente dall'interessato. Con la successiva lettera del 15 settembre 2006 la società comunicava che la mancata trasmissione della documentazione sollecitata rendeva applicabile alla fattispecie l'articolo 68 del regolamento del personale, per cui il S. doveva ritenersi dimissionario, essendo rimasto ingiustificatamente assente per più di dieci giorni. Quindi dallo stesso contenuto della missiva del 4 luglio 2006 risultava che, in realtà, il S. aveva comunicato alla società di trovarsi in malattia, sia pure solo telefonicamente e senza documentare l'impedimento, tanto che la SIAE aveva anche provveduto ad erogare il relativo trattamento economico, come emergeva inequivocabilmente dalle buste paga per mesi di aprile, maggio, giugno, luglio e agosto 2006. Inoltre la lettera del 15 settembre 2006 non conteneva alcuna espressa diffida a riprendere servizio, né faceva riferimento ad una presunta volontà del lavoratore di recedere dal rapporto. Si versava quindi - ha motivatamente ritenuto la Corte d'appello - in una situazione di assenza ingiustificata che è concettualmente diversa dalla volontà del lavoratore di dimettersi e che in concreto non era affatto significativa di una volontà di quest'ultimo di porre fine al rapporto. Doveva infatti escludersi una siffatta volontà in ragione delle comprovate circostanze che il S. , prima di assentarsi, avesse comunicato le ragioni dell'assenza ossia la malattia, sia pure senza documentarla, e che la società avesse erogato il trattamento di malattia per tutta la durata dell'assenza circostanze che rendevano inapplicabile la previsione regolamentare. Si versava in una fattispecie di prolungata assenza asseriamente causata da malattia, la quale, in mancanza di idonea documentazione, doveva considerarsi ingiustificata ed avrebbe potuto esser posta a fondamento di un licenziamento disciplinare nel rispetto però delle garanzie procedimentali di legge ciò che non è avvenuto avendo la società ritenuto - erroneamente - che si versasse in ipotesi di dimissioni del lavoratore per fatti concludenti. Correttamente la Corte d'appello ha considerato conclusivamente che la circostanza che il datore di lavoro fosse stato reso edotto dello stato di malattia escludeva che la fattispecie potesse essere ricondotta a quelle delle dimissioni espresse per fatti concludenti. Si è trattato pertanto di un licenziamento per colpa, quindi disciplinare, che nella specie era illegittimo per ragioni di forma, ossia perché intimato - circostanza pacifica in causa - senza l'osservanza delle garanzie prescritte dall'articolo 7 della legge numero 300 del 1970. 4. Il ricorso va quindi rigettato. Alla soccombenza consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali di questo giudizio di cassazione nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio di cassazione liquidate in Euro 100,00 cento per esborsi ed in Euro 4.000,00 quattromila per compensi d'avvocato, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.