Respinta la tesi dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, che puntava a mettere in discussione la conservazione dell’indennità. Ciò che risulta primario è la tutela della donna lavoratrice, obbligata a fermarsi per salvaguardare sé stessa e il nascituro.
Economia in crisi, mercato del lavoro sempre più precario così, cresce l’onda delle aziende che tirano giù la saracinesca, e si diffonde il virus della disoccupazione. E concreto è il rischio di veder svanire la propria occupazione da una settimana all’altra Ma anche di fronte a un quadro a tinte così fosche, è necessario salvaguardare la posizione delle lavoratrici per questo, l’indennità di maternità è salva anche se l’azienda si è dematerializzata’ Cassazione, sentenza n. 13110, sezione Lavoro, depositata oggi . Copertura sicura. Anche nell’ultimo grado di giudizio, anche in Cassazione, viene seguita la linea di pensiero già delineata dai giudici di primo e di secondo grado, i quali avevano accolto la domanda presentata da una donna, riconoscendole il diritto di continuare ad usufruire della corresponsione della indennità di maternità, pur essendosi verificata, nel frattempo, la cessazione dell’attività dell’azienda . Ad avviso dei legali dell’Istituto nazionale di previdenza sociale che ricorre in Cassazione , però, questa visione è forzata. Per una semplice ragione in questa vicenda, l’interdizione dal lavoro è stata riconosciuta alla donna in gravidanza per la impossibilità di adibirla a mansioni meno gravose , ma, essendo cessata l’attività del datore di lavoro , è venuta meno anche l’ipotesi di obbligare la donna a svolgere mansioni gravose . Di conseguenza, sostengono i legali dell’Istituto, perde efficacia il provvedimento di interdizione anticipata , e viene meno il diritto della donna di continuare a percepire l’indennità di maternità . Ma questa visione viene completamente rigettata dai giudici del Palazzaccio, i quali confermando la pronunzia di secondo grado , oltre a sottolineare il valore profondo della indennità di maternità , ricordano che l’ indennità è corrisposta anche nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro , anche nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda . Ciò perché, è bene averlo sempre bene in mente, obiettivo primario è garantire la più ampia protezione della lavoratrice madre , anche di fronte alla possibilità che il rapporto di lavoro venga a cessare nel corso del periodo di astensione obbligatoria .
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 marzo - 27 maggio 2013, n. 13110 Presidente Stile Relatore Filabozzi Svolgimento del processo S.S., premesso di avere prestato attività lavorativa alle dipendenze della C.S.V. 2000 dal 19.7.2001 al 25.2.2002, data a decorrere dalla quale la Direzione provinciale del lavoro aveva disposto la sua astensione anticipata dal lavoro sino a sette mesi dopo il parto , salvo che non si fossero verificate nuove condizioni tali da consentire di adibire la lavoratrice ad altre mansioni non vietate, ha chiesto che venisse accertato il proprio diritto alla corresponsione dell’indennità di maternità per tutto il periodo per il quale era stata disposta l’astensione dal lavoro. Il Tribunale di Verona ha accolto la domanda, con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello di Venezia, che ha ritenuto che la lavoratrice, avesse diritto di continuare ad usufruire della corresponsione dell’indennità, pur essendosi verificata nel frattempo la cessazione dell’attività dell’azienda, essendo previsto dall’art. 24 d.lgs. n. 151/2001 il prolungamento, del diritto alla corresponsione del trattamento economico anche nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro per la cessazione dell’attività dell’azienda che si verifichino durante i periodi di congedo per maternità previsti dall’art. 17 della legge n. 151 del 2001, come nel caso della S., per la quale era stata disposta interdizione dal lavoro ai sensi dell’art. 17, lett. c , d.lgs. cit. che prevede possa essere disposta l’interdizione dal lavoro quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli artt. 7 e 12 . Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’Inps affidandosi ad un unico motivo di ricorso. L’intimata non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione 1. Con l’unico motivo si denuncia violazione degli artt. 17, comma 2, lett. b e c , e 24, comma 2, d.lgs. n. 151/2001, chiedendo a questa Corte di stabilire se, nell’ipotesi in cui l’interdizione dal lavoro sia stata disposta in relazione alla impossibilità di spostare la lavoratrice ad altre mansioni art. 17, comma 2, lett. c , d.lgs. cit. , la totale cessazione dell’attività del datore di lavoro, comportando la definitiva impossibilità di svolgere mansioni gravose, tolga efficacia al provvedimento di interdizione anticipata e di conseguenza precluda alla lavoratrice in interdizione anticipata e sino a 7 mesi dopo il parto ex art. 17, 2 comma, lett. b e c del d.lvo n. 151/2001, di continuare a percepire l’indennità di maternità. 2. Il ricorso è infondato. L’art. 17 del d.lgs. n. 151 del 2001 prevede che il servizio ispettivo del Ministero del lavoro può disporre, sulla base di accertamento medico, l’interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza fino al periodo di sette mesi di età del figlio per i seguenti motivi a nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza b quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino c quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli artt. 7 e 12. A sua volta, l’art. 7, nel prevedere il divieto di adibire le lavoratrici a lavori pericolosi, faticosi ed insalubri, stabilisce che, quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro può disporre l’interdizione dal lavoro per un periodo fino a sette mesi di età del figlio in attuazione di quanto previsto dall’art. 17. Analoga disposizione è contenuta nell’art. 12 per il caso in cui, per motivi organizzativi o produttivi, non sia possibile una modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro. L’art. 24 del d.lgs. citato prevede che l’indennità di maternità è corrisposta anche nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro previsti dall’art. 54, comma 3 lett. b e c , che si verifichino durante i periodi di congedo di maternità previsti dagli artt. 16 e 17. Le ipotesi previste dalla lettere b e c del comma 3 dell’art. 54 sono, rispettivamente, quella di cessazione dell’attività dell’azienda cui è addetta la lavoratrice e quella di ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine . Giova ricordare anche che la Corte costituzionale, con sentenza n. 405 del 2001, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 1, d.lgs. n. 151/2001 nella parte in cui esclude la corresponsione dell’indennità di maternità nell’ipotesi prevista dall’art. 54, comma 3, lett. a dello stesso d.lgs. licenziamento per giusta causa . 3. Alla luce del chiaro tenore letterale delle disposizioni sopra citate, non può esservi dubbio che l’art. 24, prevedendo il prolungamento del diritto all’indennità di maternità nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro venga a cessare durante i periodi di congedo di maternità previsti dagli artt. 16 e 17, nessuno escluso, richiami tutte le ipotesi previste da queste ultime disposizioni, e quindi anche quella - prevista dalla lettera c dello stesso art. 17 - in cui l’interdizione dal lavoro sia stata disposta perché la lavoratrice non poteva essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli artt. 7 e 12. Va rilevato, al riguardo, che una diversa interpretazione, quale quella suggerita dall’Istituto ricorrente finirebbe con il privare la norma di ogni reale significato, ovvero con l’introdurre all’interno della stessa limitazioni o distinzioni che si porrebbero in contrasto con quella che è la finalità della norma medesima, e cioè garantire la più ampia protezione della lavoratrice madre anche in ipotesi nelle quali il rapporto di lavoro venga a cessare nel corso del periodo di astensione obbligatoria dovendo rimarcarsi, in proposito, che, come già evidenziato nella citata sentenza n. 405/2001 della Corte costituzionale, la tutela della maternità, bene protetto dal legislatore attraverso le molteplici misure contenute nella legge in esame, non può venir meno in relazione alle cause di risoluzione del rapporto di lavoro e che gli interventi legislativi succedutisi in materia attestano come il fondamento della protezione sia sempre più spesso e sempre più nitidamente ricondotto alla maternità in quanto tale e, non più, come in passato, solo in quanto collegata allo svolgimento di un’attività lavorativa subordinata , il tutto in linea con la duplice finalità del sostegno economico alle lavoratrici nei periodi di astensione obbligatoria, consistente nella necessità di tutelare la salute della donna e del nascituro soprattutto attraverso lo strumento dell’astensione dal lavoro e di evitare che la maternità possa soffrire a causa del bisogno economico . 4. Il ricorso deve essere pertanto rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendo ritenersi assorbite in quanto sinora detto tutte le deduzioni e le argomentazioni non espressamente esaminate. Considerato che la parte intimata non ha svolto attività difensiva, non deve provvedersi in ordine alle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso nulla per le spese.