Stare a distanza a volte è obbligatorio

Se il conflitto sulle distanze si pone tra diritti spettanti alle proprietà esclusive, seppure inserite in ambito condominiale, la norma da applicare è quella di cui all’articolo 907 c.c. e non quella di cui all’articolo 1102 c.c. che attiene al concorrente godimento della cosa comune.

Questo il principio di diritto espresso dalla Suprema Corte con la decisione numero 5732/2019. Il caso. Un condominio agiva avanti al Tribunale di Modena richiedendo, in quanto proprietario di un unità immobiliare, la rimozione di una costruzione eseguita da altri condomini nell’area scoperta di loro proprietà esclusiva. I ricorrenti invocavano a tal fine l’applicazione dell’articolo 907 c.c. in materia di distanze delle costruzioni dalle vedute. Si costituivano in giudizio i convenuti sostenendo che, nel caso di specie, dovesse trovare applicazione la norma di cui all’articolo 1102 c.c. che disciplina l’utilizzo della cosa comune. Il Tribunale modenese rigettava le richieste dell’attore, con sentenza che veniva totalmente riformata da parte del giudice del gravame. La causa giungeva così in Cassazione. La norma ex articolo 1102 prevale su quella ex articolo 907 c.c. ma solo in ambito condominiale. Punto decisivo, secondo i Giudici della Suprema Corte, per stabilire quale norma applicare e chi quindi tra le parti dovesse prevalere, è la constatazione che il manufatto del quale si reclama la illegittimità sia stato edificato non su un area comune, ma bensì a copertura di una proprietà scoperta annessa alla proprietà esclusiva del ricorrente in cassazione. Trattandosi quindi di proprietà esclusiva e non condominiale, andrà applicato il termine per la distanza previsto dall’articolo 907 c.c. con conseguente rigetto del ricorso per cassazione e relativa condanna all’abbattimento della copertura posta non a distanza regolamentare. In ambito condominiale prevale il principio del comune utilizzo dei beni comuni. La Cassazione, in sostanza, rileva come poiché il conflitto si pone tra diritti spettanti alle proprietà esclusive dei contendenti, risulta non invocabile la diversa disciplina di cui all’articolo 1102 c.c., che attiene al concorrente godimento della cosa comune. Se, in altre parole, si rientra in ambito condominiale e a rapporti sulle cose comuni tra i condomini, deve prevalere il principio di cui all’articolo 1102 c.c. «Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso». In forza di tale principio valevole per le parti comuni, pertanto, si sacrifica il limite della distanza previsto dall’articolo 907 c.c Qualora, però, la costruzione veranda in oggetto si trovi su una parte privata e non condominiale, non vi è alcuna ragione di applicare il contemperamento di cui all’articolo 1192 e quindi si dovrà applicare il limite previsto dall’articolo 907 c.c In altre parole, poiché la distanza era inferiore al limite ed il manufatto si trovava su parte privata e non comune, lo stesso andrà abbattuto in quanto irregolare.

Corte di Cassazione, sez. II Civile, ordinanza 3 ottobre 2018 – 27 febbraio 2019, numero 5732 Presidente Oricchio – Relatore Criscuolo Ragioni in fatto ed in diritto 1. S.L. e F.P. , poi deceduto in corso di causa, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Modena M.G. , M.O. e P.A. ai quali ultimi due, deceduti in corso di causa, succedeva a titolo universale il primo perché, in quanto proprietari di unità immobiliare posta nello stesso edificio condominiale, fossero condannati alla rimozione di una costruzione eseguita nell’area scoperta di loro proprietà esclusiva in violazione delle distanze di cui all’articolo 907 c.c., rispetto alla soprastante veduta esercitata dall’appartamento di proprietà esclusiva degli attori, oltre al risarcimento del danno. Si costitutiva il convenuto il quale deduceva l’infondatezza dell’avversa domanda, in quanto entrambe le unità immobiliari erano collocate nello stesso edificio, dovendosi quindi escludere l’applicazione dell’articolo 907 c.c., essendo prevalente la disposizione di cui all’articolo 1102 c.c Il Tribunale adito con la sentenza del 16 maggio 2012 rigettava la domanda, ma la Corte d’Appello di Bologna con la sentenza numero 185 del 30 gennaio 2015 accoglieva l’appello del S. , condannando il M. a rimuovere la tettoia ed i pali di sostegno sino al rispetto della distanza legale di cui all’articolo 907 c.c., con la condanna altresì al risarcimento del danno quantificato nella cifra di Euro 5.000,00. La Corte distrettuale in primo luogo riteneva che non vi fosse la dedotta violazione dell’articolo 345 c.p.c., in quanto già con l’atto introduttivo del giudizio il S. aveva lamentato la violazione dell’articolo 907 c.c., evidenziando anche quale era l’effettivo intento della parte convenuta, e cioè di realizzare una copertura per la struttura costituita ab origine da travi installate e radicate nel suolo, copertura che poi era stata effettivamente posta in essere. In tal senso doveva escludersi che la domanda di rimozione della copertura costituisse una domanda nuova. Quanto alla violazione dell’articolo 907 c.c., la sentenza d’appello rilevava che, esclusa la novità della deduzione secondo cui la previsione di cui all’articolo 907 c.c. dovesse prevalere anche in ambito condominiale, posto che il tema era stato già posto in primo grado, entrambi gli appartamenti facevano parte di un edificio condominiale, ma che il manufatto di cui si chiedeva l’arretramento era stato collocato su di una porzione di proprietà esclusiva dell’appellato ed in pregiudizio di due vedute esercitate dall’appartamento in proprietà esclusiva dell’attore. Nella vicenda quindi l’ambito condominiale rimaneva sullo sfondo, e quindi non appariva pertinente il richiamo alla previsione di cui all’articolo 1102 c.c., atteso che la costruzione non era avvenuta su suolo comune, ma su terreno di proprietà esclusiva del convenuto. Risultava quindi pienamente applicabile l’articolo 907 c.c., sicché avendo l’attore acquisito, per l’originaria conformazione dello stabile condominiale, un diritto di veduta in appiombo sul terreno del convenuto, quest’ultimo nel costruire la copertura avrebbe dovuto assicurare il rispetto della distanza di cui all’articolo 907 c.c., a nulla rilevando che la costruzione stessa fosse stata autorizzata da parte del Comune. La copertura andava quindi fatta arretrare sino alla distanza di tre metri spettando all’attore anche il diritto al risarcimento del danno, quantificato in via equitativa nell’importo di Euro 5.000,00. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso M.G. sulla base di quattro motivi. S.L. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex articolo 378 c.p.c 3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 345 c.p.c. in quanto per la prima volta in appello la controparte avrebbe dedotto l’inapplicabilità dell’articolo 1102 c.c., ritenendo, in contrasto con quanto invece sostenuto in prime cure, che dovesse trovare applicazione la sola disposizione di cui all’articolo 907 c.c Inoltre vi sarebbe del pari la violazione dell’articolo 345 c.p.c. nella parte in cui si è ritenuta ammissibile la richiesta di arretramento della copertura posta in essere in corso di causa in sostituzione dell’originario pergolato di cui era stata però richiesta la demolizione. Le censure sono infondate. Ed, invero va sicuramente ravvisata l’ammissibilità della richiesta di arretramento, in sostituzione del manufatto esistente alla data di introduzione del giudizio, della diversa copertura poi posta in essere dal convenuto nel corso del giudizio atteso che, come si ricava dalla stessa lettura del ricorso, già con l’atto introduttivo del giudizio, pur dandosi atto della natura ancora embrionale delle opere a quella data poste in essere, si prospettava come le stesse fossero alla lunga finalizzate alla realizzazione di una stabile copertura, tale da assicurare la costruzione di un portico di ampie dimensioni, al fine di riparare dalle intemperie l’area di proprietà esclusiva del convenuto, originariamente priva di riparo. I giudici di appello hanno correttamente richiamato la prospettazione evolutiva dell’opera come compiuta dall’attore in citazione, sottolineando come, trattandosi di modifica avvenuta in corso di causa, occorreva adeguare la statuizione giudiziale al mutamento intervenuto nelle more, specialmente in quanto idoneo a porre in essere una più intensa violazione delle norme di cui si denunciava il mancato rispetto, rispondendo la soluzione del giudice di appello anche al principio di economia processuale. Ed, infatti, a voler seguire la tesi di parte ricorrente, a fronte di una modifica dello stato dei luoghi intervenuta in corso di causa, che però non determini l’applicazione di una norma diversa da quella invocata con la proposizione della domanda introduttiva del giudizio, l’attore sarebbe costretto a dover introdurre un nuovo giudizio e ciò in evidente dispregio del principio di economia processuale , legittimando peraltro l’abusiva condotta del convenuto che, tramite continue modificazioni della condizione dei luoghi, potrebbe sottrarsi alle conseguenze del proprio agire illegittimo, ed in presenza di un adeguamento della domanda che sia conseguenza proprio dell’operato del convenuto. Quanto invece alla dedotta novità della domanda per essersi sostenuta l’inapplicabilità dell’articolo 1102 c.c., va rilevato che in appello è rimasta del tutto immutata la prospettazione dei fatti costituenti la causa petendi posta a sostegno della domanda attorea, e rappresentati appunto dalla asserita illegittimità della costruzione posta in essere nell’area di proprietà esclusiva del convenuto in pregiudizio del diritto di veduta esercitabile dai balconi e dalle finestre di proprietà esclusiva dell’attore, ancorché entrambe le unità immobiliari siano poste nel medesimo edificio condominiale. Deve pertanto ritenersi che l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto a sostegno della domanda attorea sia rimasta del tutto immutata, essendosi unicamente contestato con la formulazione dei motivi di appello il corretto inquadramento giuridico dei fatti addotti, assumendosi, in contrasto con quanto invece ritenuto dal Tribunale, la prevalenza della disposizione di cui all’articolo 907 c.c., e ciò sul presupposto che la collocazione di entrambe le unità immobiliari nello stesso stabile condominiale, non potesse giocare a favore della prevalenza della diversa previsione di cui all’articolo 1102 c.c Ne consegue che sia il petitum che la causa petendi sono restati identici nei due gradi di giudizio, e che i motivi, lungi dall’introdurre una domanda o eccezioni nuove e sul punto va evidenziato che alla fattispecie troverebbe applicazione la previsione di cui all’articolo 345 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma di cui alla L. numero 353 del 1990, che invece consente la possibilità di proporre eccezioni nuove in appello , atteso che le censure dell’appellante si sono limitate semplicemente a sollecitare una diversa qualificazione giuridica dei fatti addotti, si sono limitati a richiedere la soluzione della controversia sulla base della norma invece ritenuta applicabile. 4. Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli articolo 907 e 1102 c.c Infatti, poiché gli immobili sono collocati all’interno di un condominio, come peraltro già sostenuto dal giudice di primo grado, dovrebbe prevalere la previsione di cui all’articolo 1102 c.c. che giustifica anche una deroga alla comune disciplina in materia di distanze, dovendosi assicurare prevalenza, in un’ottica di contemperamento tra contrapposte esigenze, all’interesse al concorrente godimento della cosa comune, e ciò soprattutto laddove le opere che asseritamente violino le distanze legali siano indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile. Il motivo è infondato. In tal senso risulta accertato in fatto che, come peraltro ammesso dallo stesso ricorrente, sebbene le due unità immobiliari dei contendenti siano ubicate in un condominio, il manufatto di cui si denuncia l’illegittimità è stato posto non su di un’area comune, ma a copertura di un’area scoperta annessa alla proprietà esclusiva del ricorrente ed a sua volta appartenente a quest’ultimo in regime di proprietà esclusiva. Quanto al diritto di veduta di cui si lamenta la violazione, lo stesso pertiene all’appartamento in proprietà esclusiva dell’attore, il che rende evidente l’inconferenza ai fini della decisione della controversia, del richiamo a quei precedenti, fatto da parte ricorrente a pag. 15 del ricorso, che invece attengono ad ipotesi in cui le opere asseritamente lesive del diritto di veduta erano state realizzate su di un’area comune. Atteso che, come rilevato dalla Corte d’Appello il conflitto si pone tra diritti spettanti alle proprietà esclusive dei contendenti, risulta non invocabile la diversa previsione di cui all’articolo 1102 c.c., che attiene al concorrente godimento della cosa comune, la controversia deve avere la sua soluzione in base alla sola applicazione dell’articolo 907 c.c., e ciò in conformità della giurisprudenza più recente di questa Corte, puntualmente richiamata anche dalla sentenza gravata. Ed, infatti, si è affermato che Cass. numero 955/2013 il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino nella specie, un pergolato realizzato a copertura del terrazzo del rispettivo appartamento , che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l’esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l’articolo 907 c.c. il bilanciamento tra l’interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita conf. ex multis Cass. numero 7269/2014 Cass. numero 1261/1997 . 5. Il terzo motivo lamenta la violazione e falsa applicazione degli articolo 1226 ed 872 c.c., laddove è stato liquidato in via equitativa il danno derivante dalla violazione delle distanze dalla veduta dell’attore in maniera abnorme, senza che l’attore avesse dimostrato alcuna limitazione del godimento del proprio bene. Anche tale motivo deve essere disatteso. Al riguardo va richiamato il pacifico orientamento di questa Corte per il quale in caso di violazione delle distanze tra costruzioni si determina l’asservimento di fatto del fondo del vicino o la limitazione di una servitù a suo favore, sicché il danno deve ritenersi in re ipsa , senza necessità di una specifica attività probatoria Cass. numero 7972/2008 Cass. numero 16916/2015 Cass. numero 11382/2011 , risultando peraltro incensurabile in sede di legittimità cfr. Cass. numero 16222/2015 il concreto esercizio di valutazione equitativa del danno stesso, che il giudice di merito ha ancorato da un lato alla modesta incidenza delle limitazioni subite, e dall’altro, alla lunghezza dell’iter giudiziario, durante il quale si è protratta la lesione del diritto dell’attore. 6. Il quarto motivo lamenta poi la violazione e falsa applicazione dell’articolo 91 c.p.c. nella parte in cui il ricorrente è stato condannato al rimborso delle spese del doppio grado di giudizio, ma trattasi di censura che non investe direttamente la correttezza in sé della decisione gravata, ma piuttosto pretende di ricavare l’illegittimità della condanna alle spese dalla stessa assunta fondatezza delle censure di cui ai precedenti motivi di ricorso. Viceversa il riscontro dell’infondatezza delle doglianze del ricorrente, rende evidente l’inconsistenza anche del motivo in esame. Il ricorso deve pertanto essere rigettato. 7. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. 8. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi della L. 24 dicembre 2012, numero 228, articolo 1, comma 17, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013 , che ha aggiunto il comma 1-quater dell’articolo 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, numero 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.100,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. numero 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma dell’articolo 1 bis dello stesso articolo 13.