Una sola pianta di marijuana coltivata in casa non è sufficiente a ledere la salute pubblica

Ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta ma è necessario verificare se tale attività sia idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione di droga sul mercato.

Sul tema la Corte di Cassazione con sentenza numero 23787/19, depositata il 29 maggio. Il caso. Il Tribunale condannava l’imputata alla pena di giustizia per aver coltivato sul balcone della propria abitazione alcune piante di marijuana, la cui sostanza sembrava destinata ad uso esclusivamente personale. Anche in secondo grado veniva confermata la condanna dell’imputata, così quest’ultima ricorre in Cassazione, sostenendo in particolare che, essendo affetta da una grave patologia, su indicazione medica, utilizzava la sostanza stupefacente per scopi terapeutici e che la sostanza rinvenuta nella sua abitazione, al momento del sequestro, era solo quella proveniente da un’unica piantina. La lesione della salute pubblica. Partendo dal presupposto che all’imputata sono contestate due condotte sia la coltivazione che detenzione a fini di spaccio della droga, iniziando dalla prima contestazione occorre ribadire che la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta ma è necessario verificare se tale attività sia idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione di droga sul mercato. E siccome, nel caso in esame, la coltivazione è riferibile ad una sola piantina, di dimensioni contenute, l’attività di coltivazione è risultata abbastanza circoscritta. Quanto invece alla contestazione relativa all’illecita detenzione, dalle risultanze probatorie si evince che effettivamente la sostanza era finalizzata ad uso per scopo terapeutico. Da ciò deriva l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’Appello, in diversa composizione.

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 29 febbraio – 29 maggio 2019, numero 23787 Presidente Rosi – Relatore Zunica Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 20 dicembre 2011, il Tribunale di Roma, all’esito di rito abbreviato, condannava G.A. alla pena di anni 1 di reclusione ed Euro 3.000 di multa, in quanto ritenuta colpevole di due episodi relativi al reato di cui al D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 73, a lei contestato per aver coltivato una pianta di marijuana contenente gr. 0,098 di THC puro trovata sul balcone della sua abitazione capo A , oltre a numerose altre piante di marijuana contenenti gr. 29,537 di THC pari a 1.181 dosi singole medie e, comunque, per aver detenuto la predetta sostanza che appariva destinata a un uso non esclusivamente personale capo B , fatti accertati in omissis . Con la medesima sentenza, inoltre, il Tribunale disponeva la confisca delle cose in sequestro, ovvero sia dello stupefacente, di cui veniva disposta anche la distruzione, sia anche del denaro rinvenuto, per l’importo di 1.230 Euro. Con sentenza del 22 febbraio 2017, la Corte di appello di Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, revocava la confisca del denaro in sequestro, confermando nel resto. 2. Avverso la sentenza della Corte di appello romana, la G. , tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando otto motivi. Con il primo, la difesa eccepisce l’erronea applicazione dell’articolo 49 c.p., comma 2, in relazione all’articolo 25 Cost., comma 2 e articolo 27 Cost., comma 3, e dunque la violazione del principio di offensività, osservando che una coltivazione di una sola piantina contenente 0,098 gr. di principio attivo non poteva ritenersi idonea a pregiudicare gli interessi della sicurezza e della salute pubblica, per cui la condotta doveva essere qualificata come un fatto solo apparentemente tipico o comunque inoffensivo e, quindi, giuridicamente insussistente come reato. Con il secondo motivo, viene lamentata la mancata applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio di un diritto di cui all’articolo 51 c.p., osservando che la G. , affetta da una sindrome neuropatica degenerativa che le causa frequenti crampi dolorosi e in ragione della quale era stata dichiarata invalida al 100%, aveva cominciato ad assumere marijuana in funzione di analgesico, stante il mancato effetto positivo dei farmaci antinfiammatori comuni e sulla base di un programma terapeutico concordato con il proprio medico curante, Dott.ssa F.A. , per cui la condotta dell’imputata doveva ritenersi scriminata dall’esercizio del diritto alla salute ex articolo 32 Cost. e D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 72. Con il terzo motivo, la ricorrente si duole della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, nella misura in cui la Corte di appello non avrebbe analizzato tutti gli elementi emersi durante il dibattimento di primo grado, idonei a comprovare la destinazione all’uso personale della sostanza stupefacente, avendo il medico curante della G. , Dott.ssa F. , spiegato chiaramente le ragioni per cui l’imputata è stata indotta a coltivare una piantina di marijuana, essendo la stessa affetta da una grave patologia, per la quale si era rivelata scarsamente efficace la terapia analgesica antinfiammatoria, per cui ella aveva preferito adottare una soluzione domestica, piuttosto che rivolgersi al mercato illegale per procurarsi gli oppiacei prescritti. Con il quarto motivo, la difesa contesta di nuovo il giudizio di colpevolezza dell’imputata, evidenziando che lo stesso era stato fondato sulla base di una erronea valutazione del compendio probatorio, non potendosi ritenere un singolo elemento sintomatico della destinazione a terzi, come ad esempio il dato ponderale, sufficiente a integrare la fattispecie di cui al D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 73, tanto più ove si consideri che, nel caso di specie, la Corte di appello ha revocato la confisca del denaro ritenendo la disponibilità della somma sequestrata coerente con la posizione sociale e reddituale della ricorrente, il che valeva a indebolire la tesi accusatoria della finalità di spaccio della coltivazione. Con il quinto motivo, oggetto di doglianza è la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, non avendo la Corte di appello considerato che la quantità di droga sequestrata doveva essere rapportata all’arco di un intero anno, avendo la G. conservato la marijuana in eccesso rispetto alla prescrizione medica al solo fine di evitare i rischi di un’eventuale sospensione della terapia analgesica, ciò per evitare il cd. effetto rebound, che, come chiarito dalla Dott.ssa F. , per il timore di un peggioramento delle condizioni di salute, induce il malato a tenere costantemente un’adeguata scorta di medicinali. Con il sesto motivo, la ricorrente deduce la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale, rispetto al ritrovamento dei barattoli presenti nell’appartamento dell’imputata, ha affermato che i nomi apposti sugli stessi fossero riferibili a potenziali clienti, mentre era evidente che si trattasse di nomi di fantasia, come del resto dichiarato in dibattimento dalla G. , la quale ha altresì precisato che le modalità di conservazione della sostanza stupefacente erano frutto di una mera attività finalizzata ad evitarne la dispersione, risultando priva di riscontro probatorio la presunzione della destinazione a terzi ipotizzata nella sentenza impugnata. Con il settimo motivo, viene censurata l’applicazione della continuazione, rilevandosi che le condotte addebitate alla G. non erano distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico, costituendo la detenzione della sostanza stupefacente trovata in casa il frutto della coltivazione dell’unica piantina utilizzata per uso personale e a scopo terapeutico, per cui la duplicazione della qualificazione penale delle fattispecie di coltivazione e detenzione si poneva in evidente contrasto con il principio del ne bis in idem sostanziale, che vieta di attribuire due volte a un medesimo autore un accadimento unitariamente valutabile dal punto vista normativo, ponendosi i fatti previsti dal D.P.R. numero 309 del 1990, articolo 73 nello schema di una progressione criminosa nel caso in cui esse, come nella vicenda in esame, riguardino la medesima sostanza. Con l’ottavo motivo, infine, la difesa contesta la mancanza di motivazione in relazione ai motivi aggiunti presentati nell’interesse della G. , con i quali, a sostegno della prospettazione difensiva, erano stati richiamati i decreti del Ministero della Salute del 23 gennaio 2013 e del 9 novembre 2015, che hanno ricompreso i medicinali di origine vegetale a base di cannabis nella tabella II, Sezione B, allegata al D.P.R. numero 309 del 1990, riconoscendone cioè le finalità terapeutiche e stabilendo altresì che la marijuana può essere usata come analgesico per alcune patologie che provocano spasticità e dolore cronico, laddove un trattamento con antinfiammatori non sortisca gli effetti sperati. Considerato in diritto Il ricorso è fondato. 1. In via preliminare, occorre premettere che la ricostruzione storica dei fatti non è contestata, essendo controversa solo la loro qualificazione giuridica. Appare tuttavia utile ripercorrere, in sintesi, i tratti essenziali della vicenda veicolata nel presente giudizio, la cui oggettiva peculiarità appare invero destinata ad avere ripercussioni anche ai fini del suo inquadramento normativo. Orbene, dalle due sentenze di merito emerge che, in data 8 settembre 2011, personale del Commissariato di P.S. di Roma San Lorenzo eseguiva una perquisizione presso l’abitazione di G.A. , all’esito della quale veniva rinvenuta, sul terrazzo di pertinenza, una pianta di marijuana alta un metro e mezzo, mentre in uno sgabuzzino presente nello stesso terrazzino venivano trovate altre piantine di marijuana in fase di essicazione, per un quantitativo di 57,91 grammi all’interno dell’appartamento, invece, la P.G. scopriva, in diversi punti della casa, una busta di cellophane contenente 33,90 gr. di marijuana e alcuni barattoli di vetro, dentro i quali venivano trovati altri quantitativi di droga. Nello studio, inoltre, veniva rinvenuta una somma di denaro pari a 1.230 Euro. Il quantitativo complessivo di marijuana risultava pari a 841,12 grammi, con gr. 29,53 di THC, utile al confezionamento di 1.181 dosi medie singole, mentre veniva trovato altresì un ulteriore quantitativo di grammi 7,27 di hashish, con contenuto di THC puro a grammi 00,98, da cui erano ricavabili 3-4 dosi medie. Alla stregua di tali elementi, la G. veniva tratta in arresto e la P.G. procedeva altresì al sequestro sia dello stupefacente, sia della somma di denaro. Sin dall’interrogatorio di garanzia e poi nel corso nell’intero procedimento penale, l’imputata ha sempre negato gli addebiti, sostenendo che la droga rinvenuta nella sua abitazione era destinata esclusivamente a finalità terapeutiche. Dopo aver premesso di essere dirigente sanitario, oltre che professoressa di medicina e psicologia, la G. ha dichiarato di soffrire dei postumi di una poliomelite che l’aveva colpita sin dall’infanzia e che le provocava crampi dolorosi, non più allievabili con i tradizionali farmaci antiinfiammatori. Pertanto, su indicazione del suo medico curante, Dott.ssa F.A. , ella aveva iniziato la coltivazione domestica di marijuana, utilizzata a scopo terapeutico, avendo l’imputata precisato inoltre che quella trovata nella sua abitazione era il prodotto dell’unica piantina che aveva cominciato a coltivare da circa tre anni. Così ricostruita la vicenda, i giudici di merito sono pervenuti alla conclusione della penale responsabilità dell’imputata, valorizzando sia il dato ponderale complessivo dello stupefacente sequestrato, ritenuto incompatibile con la destinazione esclusivamente personale e terapeutico, sia la circostanza che la droga era distribuita in vari ambienti dell’appartamento, essendo ben occultata. 2. Orbene, l’apparato motivazionale delle due sentenze di merito, tra loro conformi, presenta talune criticità che, in relazione alla indubbia particolarità del caso concreto, minano la coerenza dell’intero impianto argomentativo. Premesso che all’imputata sono contestate sia la coltivazione che la detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente rinvenuta nella sua abitazione, occorre premettere, iniziando dalla prima contestazione, che al riguardo la giurisprudenza di legittimità, con orientamento condiviso dal Collegio, ha più volte affermato cfr. Sez. 3, numero 36037 del 22/02/2017, Rv. 271805, Sez. 6, numero 5254 del 10/11/2015, dep. 2016, Rv. 265641 e Sez. 6, numero 8058 del 17/02/2016, Rv. 266168 che, ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica e a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato, essendo stata ad esempio esclusa la sussistenza del reato per la minima estensione della coltivazione e per il conclamato uso personale di quanto prodotto sentenza numero 36037/2017 cit. . Ciò posto, non può sottacersi che, nel caso di specie, la coltivazione è riferibile a una sola piantina, peraltro di dimensioni contenute, rispetto alla quale è mancata un’approfondita verifica circa le concrete potenzialità espansive, dovendosi rilevare che la maggior parte della sostanza sequestrata era quella detenuta in casa e non quella proveniente dall’unica piantina presente sul terrazzo, per cui, in sé considerata, l’attività di coltivazione è risultata abbastanza circoscritta. Quanto all’ulteriore contestazione concernente l’illecita detenzione, riferibile a un quantitativo di droga ben più elevato, è mancato, in entrambe le sentenze di merito, un adeguato confronto con le articolate censure difensive, volte a rimarcare la destinazione all’uso personale dello stupefacente, costituendo circostanza pacifica, anche alla luce del contributo probatorio fornito dal medico curante dell’imputato, l’utilizzo per finalità terapeutiche, da parte della Dott.ssa G. , affetta da serie patologie, della droga trovata nella sua abitazione. Ora, pur potendo coesistere la destinazione all’uso personale con la finalità di spaccio, deve tuttavia rilevarsi che, nel caso di specie, le argomentazioni dei giudici di merito volte a sostenere la tesi dell’uso non esclusivamente personale delle sostanze stupefacenti non risultano immuni da profili di incoerenza, non assumendo carattere decisivo la distribuzione della droga nei barattoli, che peraltro, al di là della natura ambigua delle scritte presenti sulle etichette che vi erano apposte, sono risultati facilmente visibili all’interno dell’abitazione. Nè il ritrovamento della non irrisoria somma di denaro trovata nello studio della G. può essere ritenuto un elemento a sostegno della tesi accusatoria, posto che è stata la stessa Corte di appello a revocare la confisca del denaro, non ravvisando un nesso di pertinenzialità tra i reati contestati e la somma in sequestro, del resto compatibile con la posizione reddituale della ricorrente. In tale contesto probatorio, non può assumere valore dirimente neanche il mero dato ponderale, in quanto quest’ultimo, per quanto di per sé indubbiamente non trascurabile, va comunque rapportato alla peculiare condizione patologica dell’imputata, che costituisce una ineludibile chiave di lettura della vicenda. In definitiva, con riferimento sia alla condotta di coltivazione, sia a quella di detenzione con finalità di spaccio, sono configurabili lacune argomentative che impongono l’annullamento della sentenza impugnata con riferimento alla formulazione del giudizio di colpevolezza per entrambi i reati, imponendosi un nuovo giudizio, dinanzi ad altra Sezione della Corte di appello di Roma, al fine di approfondire, da un lato, in ordine alla coltivazione, il tema posto dalla difesa dell’offensività in concreto della condotta, e, dall’altro lato, con riferimento alla detenzione illecita su cui la sentenza impugnata si è rivelata silente, nonostante le censure sollevate , le circostanze che si assumono rivelatrici della destinazione anche a terzi della droga rinvenuta, pur a fronte del conclamato uso personale della stessa da parte dell’imputata per le accertate finalità terapeutiche. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma.