La CEDU censura il divieto di diagnosi preimpianto

I giudici di Strasburgo hanno sancito, nel caso Costa e Pavan c. Italia, la violazione dell’articolo 8 della Convenzione da parte del divieto di diagnosi preimpianto stabilito dalla legge numero 40/2004, rilevando inoltre l’incoerenza interna della legislazione italiana in tema di diritto al rispetto della vita privata e familiare.

Il caso. Il ricorso deciso dalla Corte di Strasburgo con la sentenza in commento è stato promosso da due genitori che, con la nascita della primogenita, hanno scoperto di essere portatori sani di fibrosi cistica mucoviscidosi , malattia genetica che colpisce le vie respiratorie e può avere evoluzione fatale. La coppia, in vista di una nuova gravidanza e desiderando ricorrere alla fecondazione assistita con diagnosi pre-impianto per evitare di trasmettere la malattia al figlio, ha dovuto infine rivolgersi alla CEDU. Infatti, la legge italiana l. numero 40/04, articolo 4 e 13 consente di ricorrere alla procreazione assistita solo alle coppie sterili o nel caso in cui uno dei due genitori sia affetto da una malattia sessualmente trasmissibile. Alle coppie feconde, invece, è precluso il ricorso ad esami preimpianto. Legge italiana contrasto con la ConvenzioneLa legge italiana sulla fecondazione assistita non ha retto al vaglio CEDU. La sentenza sottolinea come essa non solo violi l’articolo 8 della Convenzione, ma risulti anche incoerente rispetto ad altre disposizioni del sistema legislativo italiano. La violazione dell’articolo 8 della Convenzione, in materia di diritto al rispetto della vita privata e familiare, viene unanimemente ravvisata dalla Corte, che sottolinea come il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita cui aspirano i ricorrenti rappresenti l’unica via per evitare la trasmissione della malattia genetica ai figli. Tale scelta, considerata come una forma di espressione riconducibile alla sfera della vita privata e familiare, rientra nell’ambito di applicazione e ‘protezione’ dell’articolo 8. Dal contrasto con la citata norma della Convenzione deriva la condanna per lo Stato italiano al pagamento della somma di 15.000 € in favore dei ricorrenti per danni morali, oltre a 2.500 € per le spese legali sostenute. La sentenza, tuttavia, non è ancora definitiva ai sensi degli articolo 43 e 44 della Convenzione le parti possono, entro tre mesi, chiedere un nuovo esame del ricorso davanti alla Grande Chambre. e incoerenza nell’ordinamento nazionale. La Seconda sezione della Corte europea rileva anche l’esistenza di una contraddizione interna al sistema legislativo italiano, sotto il profilo dell’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare dei richiedenti, garantita dall’articolo 8. Invero se, da un lato, le norme interne consentono l’interruzione di gravidanza attraverso l’aborto terapeutico per fibrosi cistica proprio a tale misura avevano in effetti già fatto ricorso i genitori richiedenti , dall’altro vietano l’accesso alla diagnosi preimpianto volta a verificare l’esistenza della medesima patologia. Alla luce di questa considerazione, prosegue la Corte, l’argomentazione con cui il governo ha sostenuto la necessità di una simile interferenza - ossia la tutela della salute dei bambini e delle donne unita alla salvaguardia della libertà di coscienza degli operatori sanitari - mal si concilia con una diversa legge, la numero 194/78, che consente invece il ricorso all’aborto terapeutico, senza considerare che i concetti di ‘embrione’ e ‘bambino’ sono giuridicamente ben distinti.

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