Seppure assolto, niente riparazione per l’ingiusta detenzione

La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo per l’ingiusta detenzione, rappresentata dall’aver dato causa, da parte del richiedente, all’ingiusta detenzione stessa, deve concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della cognizione e che possono essere di tipo extra-processuale o di tipo processuale. Sugli elementi della colpa grave così determinati il giudice è tenuto sia ad indicare gli specifici comportamenti addebitabili all’interessato, sia a motivare in che modo tali comportamenti abbiano inciso sull’evento detenzione. Una condotta sinergica all’evento detenzione ben può essere desunta, altresì, da dichiarazioni testimoniali o fonti di altro tipo descrittive di tale condotta, purché ritualmente acquisite e ritenute attendibili in relazione alla condotta descritta, a prescindere poi dall’esito del vaglio del giudice della cognizione ai fini della idoneità della condotta dell’imputato, così accertata, a legittimare una sentenza di condanna.

É quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza numero 1921 del 17 gennaio 2014. Il caso. L’imputato, onorevole Calogero Mannino, indagato ed imputato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, definitivamente assolto dai reati allo stesso ascritti con doppia conforme del Tribunale e della Corte di Appello di Palermo, proponeva istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione subita nell’ambito di detto procedimento. La domanda, tuttavia, veniva rigettata dalla Corte territoriale che, dopo una disamina di tutti i comportamenti processuali ed extraprocessuali dell’imputato, giungeva alla conclusione della inesistenza di condotte di questo, colpose o dolose, sinergiche rispetto all’evento detenzione, salvo i rapporti consapevolmente tenuti da quest’ultimo con il mafioso Antonio Vella. La motivazione della ordinanza della Corte di Appello di Palermo sulla istanza di riparazione. Nella ordinanza impugnata i giudici affermavano l’utilizzabilità, ai fini della decisione sull’istanza riparatoria, delle considerazioni svolte nella sentenza di primo grado in punto di rapporti tra il Mannino ed il Vella. Le stesse, sebbene non riprese nella sentenza di secondo grado, in quanto elemento ultroneo, stante la accertata insussistenza di un patto politico elettorale e conseguentemente la insussistenza del concorso esterno in associazione mafiosa tra l’onorevole ed il mafioso agrigentino Pennino nel cui rapporto il Vella si era posto quale intermediario , evidenziavano, a prescindere dalle dichiarazioni rese da quest’ultimo, che il Mannino fosse a conoscenza della caratura mafiosa del Vella, e che il rapporto tra i due fosse tutt’altro che di natura professionale, dato che il Vella era a conoscenza di tutti i contatti telefonici, compresi quelli più privati dell’onorevole. D’altra parte, lo stesso Vella, nel corso del procedimento aveva inizialmente affermato che i loro occasionali rapporti erano legati alla vendita di materiale librario, mentre poi aveva dichiarato di avere sostenuto, politicamente parlando, il Mannino, contraddicendosi, tuttavia, in un secondo momento. Tali emergenze, secondo la Corte, giustificavano il convincimento che il Mannino avesse consapevolmente intrattenuto rapporti con il Vella per motivi elettorali e avesse, dunque, accettato che questi divenisse un suo procacciatore di voti. In tal senso, la condotta dell’onorevole, integrando gli estremi della colpa grave, costituiva certamente elemento sinergico rispetto all’evento detenzione. Circostanze ostative non vagliate dal giudice di merito. Il ricorso del Mannino evidenziava due doglianze. La prima deduceva erronea applicazione dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità in materia, avendo attribuito rilievo ostativo a comportamenti nemmeno considerati dal giudice di secondo grado, ovvero i rapporti tra il Mannino e il Vella che si sarebbero tradotti in una presunta promessa di favori di fatto esclusa. Comportamenti incidenti. Sotto altro profilo, l’ordinanza avrebbe omesso di motivare sulla incidenza del comportamento dell’imputato sulla determinazione della detenzione. Ed invero, l’ordinanza custodiale era stata determinata principalmente dalle dichiarazioni del Pennino, mentre il rapporto con il Vella, già analizzato nel maxiprocesso alla mafia agrigentina, la cui sentenza era stata acquisita agli atti, non era stato invece considerato in secondo grado. Emissione del provvedimento di diniego sulla scorta di circostanze non analizzate dal giudice di secondo grado. La Corte ha concluso per il rigetto del ricorso, affermando una corretta applicazione dei principi di diritto in materia di riparazione per ingiusta detenzione da parte della corte territoriale. Ed invero, rammenta la Corte, come, preliminarmente, i giudici della riparazione hanno l’obbligo di verificare se chi ha patito la detenzione vi abbia dato o concorso a darvi causa, con dolo o colpa grave, e per effettuare tale verifica è necessaria un’autonoma valutazione delle risultanze processuali che può portare tali giudici a conclusioni differenti e, persino, opposte a quelle del giudice di merito. Le circostanze fattuali valutate dal giudice penale ed insufficienti a comportare una condanna per l’imputato, possono, di contro, essere considerate idonee ad integrare la colpa grave ostativa al diritto alla riparazione, con esclusione di quelle che non siano state accertate in sede penale o siano relative ad una condotta per la quale sia stata riconosciuta l’estraneità all’imputato stesso. Su tali elementi costitutivi della colpa grave il giudice ha l’obbligo di motivare in che modo tali comportamenti abbiano inciso sull’evento detenzione. Dunque, poiché il provvedimento del giudice della riparazione deve dare conto della sussistenza di un rapporto eziologico tra le condotte e il provvedimento restrittivo, il giudice deve, al fine di un tale giudizio, valutare elementi accertati e non negati in sede di giudizio di merito che si pongano come comportamenti specifici che abbiano “dato causa” o “concorso a dare causa” all’instaurazione dello stato privativo della libertà personale del soggetto indagato, e ciò anche quando tali elementi siano provati da acquisizioni processuali nell’ambito del giudizio penale. Nel caso di specie, afferma la Corte, correttamente i giudici hanno tenuto conto, per la propria decisione, dei rapporti sussistenti tra il Mannino ed il Vella, accertati dalla sentenza del maxiprocesso acquisita in atti, e ciò a prescindere dalla effettiva stipula di un patto elettorale con il mafioso Pennino che ha solo escluso la configurabilità del reato attribuito , stante che l’accettazione consapevole dell’appoggio elettorale di un esponente della mafia agrigentina, al quale erano stati forniti «tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento» integra, senza dubbio, la colpa grave ostativa alla riparazione.

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 20 dicembre 2013 – 17 gennaio 2014, numero 1921 Presidente Zecca – Relatore Iannello Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza del 17 maggio 2012 la Corte d'appello di Palermo rigettava l'istanza di riparazione proposta da M.C. per l'ingiusta detenzione sofferta dal 13/2/1995 al 14/11/1995, in regime di custodia cautelare in carcere, e poi dal 15/11/1995 al 3/1/1997, agli arresti domiciliari, nell'ambito del procedimento numero 1440/94 R.G. N.R. nel quale era indagato per i delitti di cui agli articolo 110, 416 e 416 bis cod. penumero con l'accusa di concorso esterno prima in una associazione per delinquere e, poi, dopo l'entrata in vigore della legge Rognoni La Torre, nella associazione di stampo mafioso denominata Cosa Nostra procedimento conclusosi con sentenza di assoluzione perché i fatti non sussistono resa dal Tribunale di Palermo il 5/7/2001, confermata dopo l'annullamento con rinvio della sentenza della Corte d'appello di Palermo dell'11/5/2004 che, in riforma della sentenza di primo grado, lo aveva invece riconosciuto colpevole e condannato con sentenza della corte territoriale in data 22/10/2008, divenuta irrevocabile il 14/1/2010 a seguito della decisione della sesta sezione di questa Corte che dichiarava inammissibile il ricorso del Procuratore Generale. Secondo l'impostazione chiaramente esplicitata nell'ordinanza impugnata, alla luce dei principi che regolano la materia pur essi compiutamente richiamati in premessa, allo scopo di verificare se dagli atti emergano comportamenti processuali o extraprocessuali dolosi o colposi, non esclusi dal giudice penale, che possono essere posti in rapporto di causa-effetto con l'applicazione del provvedimento custodiale, la corte d'appello passava in rassegna “tutte le condotte che nell'originaria impostazione accusatoria erano state ritenute probanti sotto il profilo indiziario”, giungendo ad una conclusione negativa nel senso cioè della impossibilità di desumere comportamenti dolosi o colposi sinergici rispetto all'evento detenzione, in ragione delle considerazioni contenute nelle sentenze di merito che quelle condotte portavano a ritenere in radice insussistenti o non sufficientemente provate per tutte tranne che per i rapporti consapevolmente intrattenuti dal M. con il mafioso V. . Di questi traeva prova dalle considerazioni svolte al riguardo nella sentenza di primo grado che aveva infatti espresso il convincimento che il M. fosse pienamente cosciente della caratura mafiosa del V. e che nondimeno, per fini elettorali, non ne disdegnasse la frequentazione considerazioni che riteneva pienamente utilizzabili ai fini della verifica predetta in quanto non contrastate dalla sentenza d'appello, per essersi questa limitata ad esaminare altro e più pregnante aspetto del tema d'accusa. Posto invero che quest'ultimo era rappresentato dall'esistenza di un presunto patto politico elettorale risalente al 1980/81 che il M. avrebbe stipulato, tramite l'intermediazione di V.A. , con P.G. , esponente di spicco della mafia agrigentina, ed era basato sulle propalazioni del predetto P. , successivamente divenuto collaboratore di giustizia - dichiarazioni cui il tribunale aveva attribuito piena attendibilità, escludendo però che la condotta del M. risultante dal compendio di tutti tali elementi conoscenza e frequentazione del V. , incontro con il P. per la stipula del patto rientrasse nel paradigma criminoso del concorso esterno in associazione mafiosa per mancanza di prova sia in ordine alla concretezza della promessa di una controprestazione, sia in ordine all'effettivo verificarsi di condotte dell'imputato attuative di tale promessa - si osserva nell'ordinanza impugnata che la sentenza assolutoria di secondo grado si è limitata ad esaminare il racconto del P. con esclusivo riferimento al narrato del collaborante in sé e per sé escludendone l'intrinseca attendibilità, ma ha omesso invece “ogni considerazione e valutazione del materiale probatorio riguardante i rapporti M. - V. “. Recependo pertanto le indicazioni al riguardo traibili della sentenza di primo grado, che postulava coperte da giudicato, evidenziava sulla scorta di queste che il V. aveva inizialmente dichiarato di non conoscere l'onorevole M. ma soltanto qualche esponente della sua segreteria vi era prova documentale dei rapporti personali tra il mafioso e il M. , costituita dal possesso in capo al V. di dieci numeri telefonici del politico ritrovati a seguito di perquisizione domiciliare e relativi ad utenze, alcune delle quali riservate, delle sue segreterie politiche in Agrigento, Sciacca e Palermo , degli uffici del ministero del Tesoro a Roma, delle abitazioni dei suoceri di Palermo e Sciacca e delle abitazioni dei suoceri in Porto Empedocle anche di quella stagionale contestate tali emergenze, il V. aveva quindi ammesso di conoscere l'onorevole M. , di averlo incontrato, sia a Palermo che a Roma, di aver avuto i numeri di telefono da un certo A. , addetto a qualcuna delle segreterie, e che, tuttavia, gli incontri con il M. erano stati sempre occasionali mentre lo stesso V. si trovava in compagnia del suddetto A. e che, forse, aveva venduto al M. qualche libro tramite la sua segreteria di Palermo. Il giudice della riparazione affermava quindi - con piena adesione alle valutazioni al riguardo già espresse dal tribunale - che tali emergenze giustificavano da sole, anche a prescindere dalle propalazioni del P. , il convincimento che il M. fosse a conoscenza della caratura mafiosa del V. e avesse con lui intrattenuto “un rapporto di natura elettorale nulla di più e nulla di meno”, rilevando in particolare e tra l'altro che “il possesso da parte del V. di tutti i numeri di telefono del M. , persino di quelli più riservati o legati alla più intima sfera personale e familiare, è dato già di per sé sufficiente a dimostrare che i rapporti tra i due erano talmente intimi da permettere al mafioso di rintracciare in qualsiasi momento il politico, ovunque egli si trovasse” non era credibile la tesi, sostenuta sia dal V. che dal M. , che si trattasse di rapporti occasionali legati alla vendita di materiale librario, atteso che “se così fosse stato non si vede perché V. , soggetto non proprio sprovveduto, avrebbe dovuto negare di conoscere M. , giungendo, infine, a ripescare l'argomento libri solo alla fine dell'interrogatorio e per di più in forma dubitativa, quando ciò si sarebbe dovuto subito evidenziare nella sua mente come commodus discessus di portata scriminante” del resto, “se la vendita di libri fosse stata l'unica causale giustificativa dei rapporti tra i due il possesso di dieci numeri di telefono avrebbe dovuto significare ed esprimere una tale continua attività in detta relazione commerciale da non poter essere dimenticata dal diretto interessato alla vendita, ove si consideri anche lo spessore della personalità del M. , già deputato nazionale rispetto a quella di un oscuro ed onesto venditore di enciclopedie in Agrigento” “appare del tutto inverosimile, proprio nell'indicata ultima prospettiva, che M. o qualcuno della sua segreteria avesse potuto fornire all'oscuro libraio siciliano finanche il numero telefonico della casa di abitazione dei suoceri in Porto Empedocle e, addirittura, quello della villa al mare” “il mafioso aveva dichiarato di essersi occupato di politica e di avere sostenuto M. , circostanza candidamente ammessa solo fino a quando si è trattato di enunciarla senza implicare un rapporto di natura personale”, ma una volta contestategli le emergenze sopra ricordate “V. , contraddicendo se stesso, si è guardato bene dal ribadire la causale elettorale come motivo del possesso dei numeri telefonici dell'onorevole, sostenendo, prima, la natura occasionale degli incontri avuti con il politico e, poi, l'ulteriore ragione lecita attinente ai libri che occasionale non era ” “non si vede come l'oscuro libraio si fosse addirittura avventurato, per sua stessa ammissione, fino a Roma per incontrare M. al fine di vendergli qualche pubblicazione enciclopedica nel palazzo sede della Democrazia Cristiana, quando avrebbe potuto attendere più comodamente il suo illustre cliente in Sicilia, facultato com'era a raggiungerlo, almeno telefonicamente, ovunque egli dimorasse nell'isola” lo stesso V. , alla fine, è stato costretto ad ammettere, a fronte delle dette specifiche contestazioni, che quei recapiti gli furono dati per ragioni di natura elettorale ed in occasione di contatti dovuti a siffatte ragioni per contro, il M. “non ha saputo fornire una qualsivoglia plausibile giustificazione del possesso da parte del V. di tanti numeri di telefono, se non ipotizzare che la ragione potesse risiedere nell'acquisto di qualche libro, giustificazione del tutto incredibile, ove si tenga conto che riesce difficile credere che possono essere forniti anche i numeri telefonici di Roma e che un politico così impegnato potesse occuparsi, in quella sede, dell'acquisto di enciclopedie”. Tutti tali elementi giustificavano, in conclusione, secondo la corte territoriale, il convincimento che il M. avesse consapevolmente intrattenuto rapporti con il mafioso V. per motivi elettorali e avesse, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, “con l'effetto di ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell'organizzazione, tanto che numerosi collaboratori di giustizia, in sede penale, hanno riferito di avere appreso, nell'ambito del contesto associativo all'interno del quale si era diffusa la voce che costui fosse un politico disponibile per gli interessi dell'organizzazione mafiosa, pur non riferendo alcunché di specifico sull'argomento”. Donde la valutazione che “per un uomo politico di primo piano accettare consapevolmente l'appoggio elettorale di un esponente di vertice dell'associazione mafiosa e, a tal fine, dargli tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento, integra gli estremi della colpa grave e costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all'evento detenzione”. 2. Avverso questa decisione il M. propone, per mezzo del proprio difensore, ricorso per cassazione, denunciando vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento a due distinti profili. 2.1. Sotto il primo profilo censura l'ordinanza impugnata perché, in contrasto con i principi consolidati nella giurisprudenza, pur assertivamente rispettati, attribuirebbe rilievo ostativo a comportamenti esclusi dal giudice della cognizione. Rileva in tal senso che l'ordinanza compie una torsione del ragionamento contenuto nella sentenza del giudice di secondo grado, giungendo ad una conclusione che contrasta con l'accertamento in essa operato. Secondo il ricorrente, infatti, la corte territoriale incorre in una incongruenza logica laddove, “nello stesso momento in cui prende atto che il capitolo dei presunti rapporti con la mafia agrigentina non consente di individuare comportamenti colposi rilevanti ex articolo 314 c.p.p., valorizza antagonisticamente un singolo tassello del tema complessivo per riesumarne l'intera valenza probatoria e dedurne [l'esistenza di] rapporti, tramite V. , con l'associazione criminale, promettendo alla stessa favori non meglio specificati in cambio di appoggio elettorale il che equivale ad affermare né più e né meno che esiste un patto elettorale, anche se non se ne conoscono i contenuti ovvero una circostanza che è stata categoricamente esclusa dal giudice del merito ”. Assume che tale operazione è viziata in quanto erroneamente postula che la sentenza assolutoria di secondo grado abbia omesso di valutare il materiale probatorio relativo ai presunti rapporti fra esso ricorrente e V.A. , laddove in realtà essa ha semplicemente inglobato, del tutto ragionevolmente, il tema nel più ampio e determinante contesto della verifica in ordine alla sussistenza o meno del preteso patto elettorale. Argomenta al riguardo che, posto che i presunti rapporti con V. , anche nella prospettiva della sentenza del tribunale di Palermo, assumono valenza non in sé ma in quanto costituiscono la chiave di lettura dell'incontro con P. e “il suggello dell'aura mafiosa” dell'ipotizzato accordo, e se dunque il ruolo di V. era solo quello di garante del patto, la necessità di sottoporre a verifica da parte della corte d'appello in sede di cognizione penale tale ipotizzato rapporto non aveva ragione di esistere una volta che l'ipotizzato patto, e l'incontro nel quale esso sarebbe stato concluso, erano stati radicalmente esclusi. 2.2. Sotto altro profilo lamenta che l'ordinanza ha omesso di motivare specificamente in ordine all'incidenza del comportamento gravemente colposo o doloso ritenuto sussistente sulla determinazione della detenzione. Rileva al riguardo che la decisione cautelare del G.I.P. poggiava su un quadro indiziario, principalmente rappresentato dalle propalazioni del P. , riguardante non i soli rapporti, comunque connotati, ma l'esistenza di un patto che prevedeva da parte del politico un impegno preciso, che sarebbe stato oggetto di verifica puntuale in dibattimento. Gli altri elementi erano stati già oggetto di scrutinio in precedenti processi in particolare il presunto rapporto con V.A. era stato analizzato nella sentenza del c.d. maxiprocesso alla mafia agrigentina interamente acquisita infatti al dibattimento del processo in questione l'ordinanza del G.I.P. non fa che rivalutarli alla luce delle dichiarazioni del P. , costituenti la chiave di lettura dell'intero processo a carico del ricorrente. 3. Il Ministero si è costituito chiedendo il rigetto del ricorso. Il P.G. ha concluso per il rigetto. Considerato in diritto 4. Il ricorso è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, del resto ampiamente e correttamente richiamata nell'ordinanza impugnata, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, al giudice del merito spetta, anzitutto, di verificare se chi l'ha patita vi abbia dato causa, ovvero vi abbia concorso, con dolo o colpa grave. Tale condizione, ostativa al riconoscimento del diritto all'indennizzo, deve manifestarsi attraverso comportamenti concreti, precisamente individuati, che il giudice di merito è tenuto ad apprezzare, in modo autonomo e completo, al fine di stabilire, con valutazione ex ante, non se essi abbiano rilevanza penale, ma solo se si siano posti come fattore condizionante rispetto all'emissione del provvedimento di custodia cautelare. A tal fine, egli deve prendere in esame tutti gli elementi probatori disponibili, relativi alla condotta del soggetto, sia precedente che successiva alla perdita della libertà, allo scopo di stabilire se tale condotta abbia determinato, ovvero anche solo contribuito a determinare, la formazione di un quadro indiziario che ha indotto all'adozione o alla conferma del provvedimento restrittivo. In tale operazione il giudice della riparazione, come ripetutamente precisato da questa Corte, ha certamente il potere/dovere di procedere ad autonoma valutazione delle risultanze e di pervenire, eventualmente, a conclusioni divergenti da quelle assunte dal giudice penale, nel senso che circostanze oggettive accertate in sede penale, o le stesse dichiarazioni difensive dell'imputato, valutate dal giudice della cognizione come semplici elementi di sospetto, ed in quanto tali insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna, ben potrebbero essere considerate dal giudice della riparazione idonee ad integrare la colpa grave ostativa al diritto all'equa riparazione. Ciò con l'unico limite per cui, in sede di riparazione per ingiusta detenzione, giammai può essere attribuita decisiva importanza, considerandole ostative al diritto all'indennizzo, a condotte escluse dal giudice penale o a circostanze relative alla condotta addebitata all'imputato con il capo di imputazione in ordine -. alle quali sia stata riconosciuta l'estraneità dell'imputato stesso con la sentenza di assoluzione senza che possa avere rilievo se dalla sentenza emerga la prova positiva di non colpevolezza o piuttosto soltanto l'insufficienza o la contraddittorietà della prova sul punto, Sez. 4, numero 1573 del 18/12/1993 - dep. 19/05/1994, Tinacci, Rv. 198491 . La condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'indennizzo per l'ingiusta detenzione rappresentata dall'aver dato causa, da parte del richiedente, all'ingiusta detenzione, deve dunque concretarsi in comportamenti che non siano stati esclusi dal giudice della cognizione e che possono essere di tipo extra-processuale comportamenti caratterizzati da spiccata leggerezza o macroscopica trascuratezza tali da porre in essere un meccanismo di imputazione o di tipo processuale come un'autoincolpazione, un silenzio cosciente su di un alibi, età e sugli elementi costitutivi della colpa grave così determinati, il giudice è tenuto sia ad indicare gli specifici comportamenti addebitabili all'interessato, sia a motivare in che modo tali comportamenti abbiano inciso sull'evento detenzione. Peraltro, mette conto anche sottolineare che una condotta sinergica all'evento detenzione ben può essere desunta, in via di principio generale, anche da dichiarazioni testimoniali o fonti di altro tipo descrittive di tale condotta, purché ritualmente acquisite e ritenute attendibili in relazione alla condotta descritta, a prescindere poi dall'esito del vaglio del giudice della cognizione ai fini della idoneità della condotta dell'imputato, così accertata, a legittimare una sentenza di condanna. Posto, dunque, che il dolo o la colpa grave idonei ad escludere l'indennizzo per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano dato causa all'instaurazione dello stato privativo della libertà o abbiano concorso a darvi causa - sicché è ineludibile l'accertamento del rapporto causale, eziologico, tra tali condotte ed il provvedimento restrittivo della libertà personale - si deve innanzitutto rilevare che è sempre necessario che il giudice della riparazione pervenga alla sua decisione di escludere il diritto in questione in base a dati di fatto certi, cioè ad elementi accertati o non negati Sez. U numero 43 del 13/12/1995 - dep. 09/02/1996, Sarnataro, Rv. 203636 tale valutazione, quindi, non può essere operata sulla scorta di dati congetturali, non definitivamente comprovati non solo nella loro ontologica esistenza, ma anche nel rapporto eziologico tra la condotta tenuta e la sua idoneità a porsi come elemento determinativo dello stato di privazione della libertà, in riferimento alla fattispecie di reato per la quale il provvedimento restrittivo venne adottato v. anche, in motivazione, Sez. 4, numero 10684 del 26/01/2010, Morrà, non mass. . 5. L'ordinanza impugnata si conforma ai suesposti criteri di giudizio, dando ampia ed esauriente giustificazione dell'espresso convincimento circa la sussistenza di una condotta gravemente colposa del richiedente causalmente efficiente rispetto alla detenzione subita, anche e soprattutto in relazione ad entrambi i profili in questa sede attenzionati dal ricorrente, ai quali dedica ampi e stringenti argomenti che resistono alle censure mosse. 5.1. Con riferimento al primo profilo di doglianza, deve, invero, anzitutto escludersi che possa ravvisarsi alcun vizio di contraddittorietà o manifesta illogicità nel ragionamento della corte territoriale nella parte in cui rileva che le emergenze processuali valorizzate dal tribunale dichiarazioni del V. raccolte in altro procedimento e ritualmente acquisite al dibattimento, prova rappresentata dall'annotazione, su documenti in possesso del predetto, di dieci numeri telefonici del politico, relativi anche a utenze riservate , e i rapporti tra il M. e il V. da essi desunti, non sono stati in sé in alcun modo esaminati dal giudice di secondo grado. Non vi è in effetti nella sentenza di secondo grado - e ciò è pacificamente ammesso anche dal ricorrente - alcuna confutazione relativa alla sussistenza, validità e utilizzabilità di quelle emergenze, né tanto meno del loro significato o conducenza probatoria. Si trattava del resto di questioni che, nella prospettiva argomentativa del giudice di secondo grado, non avevano alcun rilievo dal momento che già il tribunale, pur dedicando ampio spazio a quelle emergenze e traendone il convincimento dell'esistenza di rapporti tra il M. e il V. non altrimenti giustificabili se non per motivi elettorali, aveva tuttavia escluso che ciò fosse sufficiente a configurare concorso esterno in associazione mafiosa. La corte d'appello, in sede penale, invece - evidentemente in rapporto ai motivi di gravame - ha esclusivamente concentrato la propria attenzione sulla credibilità ed efficacia probatoria delle dichiarazioni del pentito P. , giungendo per tale strada ad escludere l'esistenza dell'ipotizzato patto politico elettorale e, a maggior ragione, a confermare la sentenza di primo grado assolutoria dall'accusa di concorso esterno. Che si tratti però di un accertamento per nulla contrastante con quello operato dal tribunale e adesivamente dal giudice della riparazione ai fini della propria valutazione circa l'esistenza e la natura dei rapporti tra il M. e il V. è reso evidente dalla semplice considerazione che anche in questo ossia, nell'accertamento contenuto nella sentenza di primo grado il tema di tali rapporti è tenuto ben distinto, sia da quello dell'esistenza di un vero e proprio patto politico elettorale con l'organizzazione criminale tema per il quale rilievo probatorio principale si assegnava alle dichiarazioni del pentito P. , sia a fortiori da quello della sussistenza della ipotizzata fattispecie criminosa del concorso esterno in associazione mafiosa rispetto al quale neppure la pur ritenuta prova del patto fu reputata sufficiente in mancanza della prova della promessa controprestazione da parte del politico e della sua effettiva attuazione . A difettare pertanto di coerenza logica è la tesi che sul punto sostiene il ricorrente il quale all'esclusione dell'esistenza di prova del patto politico elettorale - che secondo l'ipotesi d'accusa ruotava intorno alla figura e alle dichiarazioni del pentito P. - intende ricondurre per implicito anche l'esclusione dei rapporti tra V. e M. , omettendo di considerare che i due aspetti rimanevano distinti e non sovrapponibili nell'ipotesi accusatoria e nella sentenza di primo grado, dal momento che la pregressa conoscenza ed i rapporti con il mafioso V. , lungi dal bastare essi stessi a comprovare l'esistenza del patto, servivano solo a dare riscontro al principale elemento di prova e a corroborarne la valenza probatoria, fornendogli un'univoca chiave di lettura. È vero pertanto che, una volta esclusa l'esistenza di una prova adeguata dell'ipotizzato incontro tra il P. e il M. e con esso della stipula del patto, veniva meno l'esigenza di esaminare anche l'accessoria questione dei rapporti tra il M. e il V. , ma ciò solo perché tale tema risultava ultroneo rispetto al giudizio proprio della cognizione penale del giudice d'appello e non anche perché esso potesse considerarsi compreso nello stesso accertamento negativo dedicato al tema principale. L'aver dunque il giudice della riparazione ripreso ai propri fini tali elementi probatori e il significato ad essi attribuito dal giudice di primo grado sulla base di argomenti logici pure condivisi e compiutamente illustrati nell'ordinanza impugnata costituisce operazione perfettamente legittima e anzi doverosa, ben potendo/dovendo il giudice di merito, nella detta sede, procedere ad autonoma valutazione delle risultanze e - data la diversità dei temi d'indagine -considerare idonee ad integrare la colpa grave ostativa al diritto all'equa riparazione circostanze oggettive accertate in sede penale sebbene dal giudice della cognizione valutate come semplici elementi di sospetto, ed in quanto tali insufficienti a legittimare una pronuncia di condanna. 5.2. Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso si rivela infondato anche in ordine al secondo profilo di doglianza. Sul punto invero l'ordinanza impugnata, ancorché sintetica, non pare tacciabile di aver omesso di considerare l'incidenza causale dei descritti rapporti sulla determinazione cautelare, atteso che - come rileva il P.G. - “l'analitica disamina, esitata nella enucleazione delle suddette condotte tenute dal M. nei confronti del V. , è stata dalla corte dichiaratamente compiuta ripercorrendo tutte le condotte ritenute probanti a carico del M. nella originaria impostazione accusatoria f. 8 , all'evidenza, come tale, costituente anche il fondamento della misura cautelare”. Né è in proposito rilevabile vizio di manifesta illogicità. Ribadito infatti che, come s'è evidenziato in premessa, condotta colposa ostativa alla riparazione può essere quella che, pur non sufficiente da sola a determinare la decisione cautelare, abbia comunque concorso a dar causa all'instaurazione dello stato privativo della libertà, non pare dubitabile che, pur escludendo che le dette condotte potessero di per sé rappresentare grave indizio dell'ipotesi delittuosa posta a fondamento dell'ordinanza custodiale, non può per ciò solo escludersi anche una loro incidenza causale nella determinazione predetta, non potendo certamente negarsi una loro rilevanza concorrente e rafforzativa del quadro indiziario integrato dagli altri elementi. Come rileva infatti del tutto plausibilmente la corte territoriale, l'aver accettato consapevolmente l'appoggio elettorale di un esponente di vertice dell'associazione mafiosa e, a tal fine, dargli tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento, integra gli estremi della colpa grave e costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all'evento detenzione. 6. Il ricorso va pertanto rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione, in favore del Ministero resistente, delle spese dallo stesso sostenute, liquidate in Euro 750,00. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione dal Ministero dell'Economia liquidate in Euro 750,00.