Il delitto di violenza privata è un reato di danno, ben diverso dalla minaccia che ha natura formale. Ciò è provato dal fatto che «la condotta sanzionata si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita» e si realizzata ogni volta che l’agente leda il dritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente.
In questi termini si è espressa la Cassazione con sentenza numero 25239/18 depositata il 5 giugno. La vicenda. Con sentenza la Corte d’Appello di Bari, confermando la decisione di prime cure, condannava l’imputato per il reato di violenza privata aggravata dalla circostanza delle più persone riunite, ai sensi dell’articolo 339 c.p. Circostanze aggravanti . Avverso la pronuncia di merito ricorre per cassazione l’imputato lamentando, con la seconda doglianza, erronea qualificazione della condotta alla fattispecie di reato di violenza privata, sostenendo che il comportamento del ricorrente avrebbe dovuto essere ricondotto a generiche minacce. Nella specie il fatto poteva essere riassunto nelle continue irruzioni da parte dell’imputato e degli altri concorrenti nella pizzeria della persona offesa, i quali mangiavano senza permesso per poi pagare nei giorni successivi. La violenza privata è un reato di danno. La Suprema Corte ha rilevato l’inammissibilità del ricorso in quanto le censure mosse dal ricorrente si risolvono in una mera reiterazione di quelle già disattese in appello e sono, inoltre, prive di una argomentata critica. La Cassazione approfitta comunque della controversia per ribadire che il delitto di violenza privata si consuma ogni volta che l’agente «leda il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente» con violenza o con minaccia, costringendo la vittima «a fare, tollerare od omettere qualcosa». La violenza privata è un reato di danno, al contrario della minaccia che ha natura formale e, per questo, «la condotta sanzionata si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita». Da quanto ribadito consegne che, in ogni caso, la valutazione dei Giudici di merito è corretta e, inoltre, con congrua motivazione è stato dimostrato che la condotta dell’autore della violenza ha comportato l’intimidazione dell’offeso, proprietario dell’esercizio commerciale, che limitato della libertà di determinarsi tollerava i comportamenti dei clienti. In conclusione I Supremi Giudici dichiarano inammissibile il ricorso e condannano il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 22 marzo – 5 giugno 2018, numero 25239 Presidente Di Stefano – Relatore Scalia Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 9 marzo 2017, la Corte di appello di Bari ha confermato quella del Tribunale di Trani che aveva condannato, in concorso con altri, l’imputato, L.E.E. , per il reato di violenza privata continuata ed aggravata dalla circostanza delle più persone riunite, nei termini di cui all’articolo 339 cod. penumero , così riqualificati i fatti di estorsione in origine contestati. 2. Ricorre in cassazione nell’interesse dell’imputato il difensore di fiducia con due motivi di annullamento. 2.1. La Corte territoriale sarebbe incorsa in vizio di motivazione per mancanza o manifesta illogicità, tanto emergendo dal raffronto tra il testo della sentenza di appello e quella di primo in grado in ordine alla diversa e contrapposta valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, L.T. , apprezzate come inattendibili dal primo giudice e ritenute di sostegno al giudizio di penale responsabilità, dal giudice di appello. La Corte territoriale nella formulazione del giudizio di penale responsabilità avrebbe dovuto confrontarsi non solo con le deduzioni difensive, ma anche con la sentenza di primo grado e con il quadro probatorio ivi definito sì da saldarsi alla stessa nel dar conto un’unica entità logico-giuridica. 2.2. Erronea, e sostenuta da motivazione illogica, sarebbe poi stata la qualificazione dell’accertata condotta nei termini di cui all’articolo 610 cod. penumero , là dove nella fattispecie all’esame della Corte territoriale si sarebbero dovute invece individuare delle generiche minacce. Sarebbe invero mancata un’adeguata spiegazione sul perché il L. sopportasse l’irruzione nella sua pizzeria e le urla dell’imputato insieme a quelle degli altri concorrenti, che prendevano da mangiare e bere senza permesso per poi pagare nei giorni successivi, mancando la Corte di merito di indicare se l’imputato fosse intimidito dall’altrui condotta o se egli la tollerasse nella maturata convinzione che comunque i primi avrebbero pagato nei giorni successivi. Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile plurime ne sono le ragioni. 1.1. Il principio che vuole le motivazioni di primo e secondo grado far parte, nella capacità di saldarsi tra loro, di un unico complessivo corpo argomentativo ha la finalità conservativa dell’atto e come tale rinviene applicazione nel giudizio di legittimità per sostenere, nella registrata concordante analisi e valutazione degli elementi di prova operata dai giudici di primo e secondo grado, la struttura giustificativa della sentenza di appello. Nel caso in cui invece la motivazione della sentenza di secondo grado venga censurata in cassazione perché in logico contrasto con quella del giudice di primo grado, il profilo di illegittimità della motivazione rileva nel caso in cui la sentenza di appello addivenga ad un epilogo decisorio contrastante con quello di primo grado ed in tal caso il giudice di appello è chiamato ad una motivazione rafforzata ed ove non la osservi può essere censurato nel giudizio di cassazione. Là dove invece si registri nel passaggio tra il primo ed il secondo grado una uniformità di decisione, secondo lo schema della cd. doppia conforme, viene a mancare l’interesse stesso a dedurre la difforme valutazione di un singolo elemento di prova ove lo stesso non abbia inciso, con carattere di decisività, sulla sentenza, evidenza questa chiaramente contrastata dalla identità dell’epilogo in punto di penale responsabilità. La sentenza della Corte di appello di Bari ha confermato il giudizio di primo grado anche in punto di qualificazione della condotta e come tale, in applicazione dell’indicato principio, non si espone alle censure mosse in punto di manifesta illogicità. 1.2. In ogni caso la deduzione è inammissibile perché non si confronta con la motivazione impugnata. La sentenza d’appello compone infatti in modo convergente il quadro di prova non solo con riguardo alle dichiarazioni del teste, persona offesa, i cui diversi esiti registrati nei vari momenti del procedimento querela e sua rimessione dichiarazioni dibattimentali vengono giustificati dalla natura edulcorata delle più benevoli ricostruzioni dell’accaduto, ma anche con il riferimento a quanto coerentemente sempre dichiarato dal dipendente della pizzeria. 2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile perché le introdotte censure, che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelle già dedotte in appello, e puntualmente disattese dalla Corte di merito, rivelano una apparenza della funzione loro tipica omettendo le stesse di assolvere alla finalità di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso Sez. 6, numero 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838 . Il delitto di violenza privata si consuma invero ogni qual volta l’autore con la violenza o con la minaccia lede il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente, costringendolo a fare, tollerare od omettere qualcosa. Al contrario della minaccia, che ha natura formale, la violenza privata è un reato di danno, nel quale la condotta sanzionata si realizza con la coartazione della volontà altrui e l’evento lesivo si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita Sez. 5, numero 5593 del 10/03/2000, Famularo, Rv. 216111 . In applicazione dell’indicato principio la Corte di appello di Bari ha ritenuto che la persona offesa tollerasse l’irruzione all’interno del proprio esercizio commerciale dell’imputato che, con gli altri, urlando prendeva da mangiare e bere con fare prepotente, senza permesso, ubriaco ed infastidendo gli avventori, per poi pagare le consumazioni con comodo nei giorni successivi, in ragione di una obiettiva portata intimidatoria della condotta. Con motivazione corretta nelle premesse e congrua nelle conclusioni, la Corte di appello segnala la correlazione tra condotta ed offesa evidenziando come al comportamento osservato dall’imputato seguisse l’intimidazione dell’offeso che quindi, solo perché limitato nella propria libertà di determinarsi, tollerava l’altrui facere e non perché, dimensionando l’episodio, egli sapesse che alla fine sarebbe stato comunque pagato. 3. All’inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e dell’equa somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, in ragione della natura dei proposti motivi. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.