La casalinga non è una “parassita”, nemmeno se straniera

Ma per il giudice, ogni donna straniera, senza reddito, che richiede la cittadinanza italiana, deve dimostrare di essere ben mantenuta. Perché il «dovere di solidarietà», previsto per i cittadini italiani, impone che non ha diritto ad ottenere la cittadinanza italiana colui il quale non riesce a dimostrare di possedere un reddito.

Il «dovere di solidarietà» si manifesta essenzialmente mediante l’assolvimento degli obblighi fiscali e, pertanto, una persona che non dispone di redditi propri soggetti ad imposizione fiscale non è oggettivamente in grado di dare il suo contributo di solidarietà alla vita collettiva e non può, quindi, conseguire la cittadinanza. La casalinga è comunque una lavoratrice. Il Giudice di primo grado ha sostanzialmente condiviso le motivazioni del diniego del Ministero dell'Interno a concedere la cittadinanza italiana ma l’interessata ha proposto appello davanti al Consiglio, ribadendo che ella è inserita in un contesto familiare stabile e di condizioni economiche più che buone, dimostrando anche la documentazione fiscale relativa al marito. Inoltre, ella risulta proprietaria di un appartamento diverso dalla casa coniugale avuto in donazione dal coniuge. Nell'appello, l'interessata sostiene che la donna coniugata, che svolge attività di casalinga, è comunque una lavoratrice che in tal modo dà il suo contributo alla famiglia ed alla comunità nazionale pertanto, il fatto che non percepisca un reddito autonomo rispetto a quello del marito convivente non la caratterizza come una “parassita” e non giustifica di per sé il diniego della cittadinanza italiana. L'ampissima discrezionalità. La Sezione condivide le affermazioni della difesa dell’Amministrazione riguardo alla latissima discrezionalità inerente alla concessione della cittadinanza, ma ciò non toglie - afferma la decisione - che, nella misura in cui sia data una motivazione che del resto non può non essere data essa sia sindacabile con riferimento ai vizi della violazione di legge o dell’eccesso di potere, quanto meno con riferimento alle figure sintomatiche di maggior rilevanza quali l’errore sui fatti o la manifesta incongruità o illogicità. Nel caso in esame, la motivazione del diniego alla concessione della cittadinanza è chiara ed univoca in quanto basata sulla premessa condivisibile che lo straniero richiedente la cittadinanza deve dimostrare di possedere un reddito sufficiente e di assolvere i connessi obblighi fiscali e previdenziali e sull’ulteriore assunto che costituisce il punto controverso che a questi fini la donna straniera, coniugata con altro straniero, debba risultare provvista di un reddito proprio, non potendosi prendere in considerazione il reddito del marito e le condizioni economiche complessive della famiglia. La casalinga non è una parassita. La questione del reddito familiare è stata già affrontata dal Consiglio con la decisione numero 5207/2005 della Sezione Quinta. In tale occasione si era affermato che nei confronti della donna straniera coniugata la valutazione necessaria della capacità economica deve tener conto delle condizioni reddituali e patrimoniali dell’intera famiglia. A questo proposito la sentenza aveva messo in risalto, oltre alla «pari dignità» del lavoro domestico della casalinga, anche il diritto di famiglia che garantisce alla donna coniugata pur quando sia sprovvista di un reddito proprio un adeguato sostentamento economico, vuoi in costanza di matrimonio, vuoi in caso di scioglimento dello stesso. Nello specifico, il provvedimento impugnato in primo grado appare, dunque, erroneamente motivato nella parte in cui presuppone che si debba tener conto esclusivamente del reddito personale in senso stretto e non anche delle condizioni economiche della famiglia nel suo complesso. L’interessata gode di un sostegno economico adeguato? Il Collegio sottolinea che, nell'esaminare l'appello, non si può andare al di là di questo resta nella discrezionalità dell’amministrazione valutare se, in concreto, le condizioni della famiglia siano tali da far ritenere che l’interessata goda non solo nell’attualità, ma anche come ragionevole previsione per il futuro, di un sostegno economico adeguato. L’amministrazione potrà dunque valutare discrezionalmente se il reddito familiare sia, in particolare, quantitativamente sufficiente, prevedibilmente stabile, di provenienza lecita, regolarmente dichiarato ai fini fiscali.

Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 1° – 5 giugno 2012, numero 3306 Presidente/Relatore Lignani Fatto e diritto 1. L’appellante, già ricorrente in primo grado, cittadina russa residente in Italia unitamente al coniuge cittadino iraniano e due figli minori nati in Italia, nell’anno 2002 ha chiesto la concessione della cittadinanza italiana. Con decreto 13 giugno 2005 il Ministro dell’Interno ha rigettato l’istanza, con la motivazione che l’interessata «non ha percepito redditi personali e non è stata esibita alcuna dichiarazione dei redditi, né evidenziati gli eventuali motivi di esonero». La motivazione prosegue con alcuni richiami al «dovere di solidarietà che il richiedente la cittadinanza deve dare, al pari di tutti i componenti della comunità nazionale, alla vita collettiva». Il provvedimento dunque presuppone, per implicito, che il “dovere di solidarietà” si manifesti essenzialmente mediante l’assolvimento degli obblighi fiscali e che pertanto una persona che non disponga di redditi propri soggetti ad imposizione fiscale sia oggettivamente non in grado di dare il suo contributo di solidarietà alla vita collettiva e non possa conseguire la cittadinanza. 2. L’interessata ha proposto ricorso al T.A.R. Lombardia, poi trasposto per competenza al T.A.R. Lazio. Quest’ultimo ha respinto il ricorso con sentenza numero 12555/2007. La decisione è basata su considerazioni sostanzialmente coincidenti con la linea di pensiero espressa nella motivazione del decreto ministeriale. 3. L’interessata propone appello davanti a questo Consiglio, ribadendo, in punto di fatto, che ella è inserita un contesto familiare stabile e di condizioni economiche più che buone, come dimostrato dalla documentazione fiscale relativa al marito. Inoltre ella risulta proprietaria di un appartamento diverso dalla casa coniugale avuto in donazione dal coniuge. Sostiene che la donna coniugata, che svolge attività di casalinga, è comunque una lavoratrice che in tal modo dà il suo contributo alla famiglia ed alla comunità nazionale pertanto, il fatto che non percepisca un reddito autonomo rispetto a quello del marito convivente non la caratterizza come una “parassita” e non giustifica di per sé il diniego della cittadinanza italiana. L’appellante ripropone altresì la tesi che il decreto ministeriale impugnato sia intervenuto quando si era già formato il silenzio-assenso, essendo scaduto il termine per la definizione del procedimento 730 giorni . 4. Resiste all’appello l’Avvocatura dello Stato, la quale sottolinea l’amplissima discrezionalità inerente alla concessione della cittadinanza italiana e contesta argomentatamente che in questa materia sia applicabile l’istituto del silenzio-assenso. 5. Il Collegio ritiene opportuno innanzi tutto sgomberare il campo dalla questione del silenzio-assenso, trattandosi di questione logicamente prioritaria ed invero, se il silenzio-assenso si fosse formato, non vi sarebbe luogo a discutere del resto . A questo proposito sono condivisibili le deduzioni dell’Avvocatura dello Stato, la quale osserva che la concessione della cittadinanza italiana è un atto “di alta amministrazione” e di natura concessoria, come tale incompatibile con il silenzio-assenso. Correttamente la difesa dell’Amministrazione mette in evidenza che la legge numero 91/1992 contiene bensì la previsione di un termine scaduto il quale la richiesta di cittadinanza non può essere più respinta, ma si tratta di una previsione eccezionale dettata con riferimento alla fattispecie della cittadinanza richiesta dal coniuge straniero di un cittadino italiano fattispecie che ragionevolmente merita un trattamento di favore considerato che prima della legge numero 91/1992 la donna straniera che si coniugasse con un cittadino italiano conseguiva la cittadinanza immediatamente ed ope legis . Argomentando a contrario, si dimostra quindi che in via generale la libertà dello Stato di concedere o negare la cittadinanza allo straniero non soggiace a termini procedimentali. Il termine per la conclusione del procedimento, pure dettato dalla normativa, rileva ad altri fini, ma non comporta il silenzio-assenso o comunque la decadenza del potere di diniego. 6. Quanto al merito della controversia, si può sostanzialmente condividere quanto dedotto dalla difesa dell’Amministrazione riguardo alla latissima discrezionalità inerente alla concessione della cittadinanza. Ma ciò non toglie che, nella misura in cui sia data una motivazione che del resto non può non essere data essa sia sindacabile con riferimento ai vizi della violazione di legge o dell’eccesso di potere, quanto meno con riferimento alle figure sintomatiche di maggior rilevanza quali l’errore sui fatti o la manifesta incongruità o illogicità. Nel caso in esame, la motivazione è chiara ed univoca in quanto basata sulla premessa condivisibile che lo straniero richiedente la cittadinanza deve dimostrare di possedere un reddito sufficiente e di assolvere i connessi obblighi fiscali e previdenziali e sull’ulteriore assunto che costituisce il punto controverso che a questi fini la donna straniera, coniugata con altro straniero, debba risultare provvista di un reddito proprio, non potendosi prendere in considerazione il reddito del marito e le condizioni economiche complessive della famiglia. 7. Tale ultima questione peraltro risulta già affrontata da questo Consiglio con la decisione numero 5207 del 30 novembre 2005 della Sezione Quinta, che l’ha risolta in senso favorevole alla persona allora aspirante alla cittadinanza. La decisione in parola afferma, in sostanza, che nei confronti della donna straniera coniugata la valutazione necessaria della capacità economica deve tener conto delle condizioni reddituali e patrimoniali dell’intera famiglia. A questo proposito la sentenza mette in risalto, oltre alla “pari dignità” del lavoro domestico della casalinga, anche il diritto di famiglia che garantisce alla donna coniugata pur quando sia sprovvista di un reddito proprio un adeguato sostentamento economico, vuoi in costanza di matrimonio, vuoi in caso di scioglimento dello stesso. 8. Questo Collegio ritiene di aderire al precedente invocato dall’appellante. Il provvedimento impugnato in primo grado appare, dunque, erroneamente motivato nella parte in cui presuppone che si debba tener conto esclusivamente del reddito personale in senso stretto e non anche delle condizioni economiche della famiglia nel suo complesso. Beninteso, in questa sede non si può andare al di là di questo resta nella discrezionalità dell’amministrazione valutare se, in concreto, le condizioni della famiglia siano tali da far ritenere che l’interessata goda non solo nell’attualità, ma anche come ragionevole previsione per il futuro, di un sostegno economico adeguato. L’amministrazione potrà dunque valutare discrezionalmente se il reddito familiare sia quantitativamente sufficiente, prevedibilmente stabile, di provenienza lecita, regolarmente dichiarato ai fini fiscali, etc. S’intende che per effetto dell’annullamento del decreto ministeriale il procedimento dovrà essere parzialmente rinnovato, facendosi tuttavia riferimento alla situazione di fatto e di diritto quali risulti al momento della nuova pronuncia dell’autorità competente, non essendo concepibile una pronuncia “ora per allora” in considerazione della natura concessoria e costitutiva non dichiarativa del provvedimento. 9. In conclusione, l’appello va accolto e per l’effetto, annullata la sentenza del T.A.R., va accolto il ricorso di primo grado con annullamento del provvedimento impugnato in quella sede. Le spese possono essere compensate per l’intero giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza accoglie l’appello nei sensi di cui in motivazione. Spese compensate per l’intero giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.