Andrea nome ‘neutro’, e applicabile anche alle bambine in Italia. Decisiva la miscellanea culturale europea

Azzerata la questione, e definita legittima, ab origine, la scelta di due genitori, che hanno chiamato Andrea la loro bambina. Completamente cancellata la rettifica dello stato civile, che aveva modificato il nome in Giulia Andrea per problemi di identità sessuale. Questo nodo, però, è superato, secondo i giudici del ‘Palazzaccio’, alla luce dei riferimenti normativi europei e delle mescolanze culturali comunitarie.

Barriere nazionali abbattute, innanzitutto a livello europeo, e poi a livello globale. Con ripercussioni anche culturali oltre che commerciali . Esemplare è la diffusione, sempre maggiore, in Italia di nomi stranieri, tanto da spingere lo Stato a riconoscere ufficialmente – con provvedimento ad hoc , il decreto del presidente della Repubblica numero 396 del 2000 – tale tendenza. Ebbene, tale onda non è più arrestabile, ed è così prepotente da avere effetti notevoli anche sulla qualificazione di un nome come prettamente maschile o prettamente femminile casus belli , in questa vicenda, è l’utilizzo del nome Andrea per una bambina. Assolutamente impensabile in Italia, almeno fino a qualche anno fa Cassazione, sentenza numero 20385, prima sezione civile, depositata oggi . Old style. A proporre una visione ‘all’antica’ è la giustizia italiana, più precisamente Tribunale e Corte d’Appello, che, accogliendo il ricorso di un Pubblico Ministero, configurano come illegittima la scelta di due genitori di attribuire alla loro bambina il nome Andrea. Per quale ragione? Perché esso «ha, nella tradizione culturale italiana, una valenza esclusivamente maschile». Di conseguenza, poiché, come prevede la norma, «il nome, imposto al bambino, deve corrispondere al sesso», è da confermare la «rettificazione dell’atto dello stato civile», in cui, per la cronaca, il nome Andrea è sostituito col doppio nome Giulia Andrea. Multiculturale. Per i due genitori della bambina – Andrea o Giulia Andrea? – la battaglia è oramai di principio. Così si spiega la decisione di proporre ricorso in Cassazione, contestando l’ottica proposta dai giudici di primo e di secondo grado e catalogandola, seppur indirettamente, come retrodatata e oramai superata. A sostegno di questa tesi, comunque, i due genitori portano elementi concreti primo, «numerose istanze» per utilizzare il nome Andrea al femminile secondo, la possibilità, riconosciuta dalla norma, della «attribuzione di nomi stranieri ai bambini aventi la cittadinanza italiana» terzo, «le trasformazioni del contesto linguistico» in Italia alla luce delle «ingerenze straniere». E quest’ultimo punto è legato direttamente all’uso del nome Andrea, che «proprio in virtù della valenza assunta in molti Paesi europei, dovrebbe essere ritenuto sessualmente neutro e, conseguentemente, attribuibile anche ad una persona di sesso femminile» più precisamente, sostengono i genitori, «negare il diritto all’attribuzione del nome Andrea al femminile significa vanificare la portata effettiva della norma che facoltizza l’attribuzione di nomi stranieri», e, peraltro, «la valenza sessuale neutra del nome Andrea lo rende assimilabile alla maggioranza dei nomi stranieri che l’ordinamento dello stato civile autorizza ad assegnare» ai bambini e alle bambine italiani. Ebbene, di fronte a tali osservazioni, anche i giudici della Cassazione scelgono di seguire il percorso della multiculturalità, guardando non più solo l’Italia ma anche l’Europa Così, affrontando il tema del «diritto al nome» come diritto fondamentale della persona umana, è inevitabile il richiamo al panorama normativo comunitario e mondiale, anche per valutare la «libertà assoluta di scelta» dei genitori, con l’unico limite dei «nomi inusitati», chiaramente con l’obiettivo della «tutela della dignità del minore». Entrando poi nella vicenda, i giudici richiamano una pronuncia della Corte europea dei diritti umani, con cui si è stabilito che «il nome scelto, in quanto non eccentrico né ridicolo, non pone il problema della tutela degli interessi del minore, con la conseguenza che il rifiuto integra un’illegittima ingerenza nella sfera della vita privata e familiare». Alla luce di questo riferimento, anche il quadro normativo nazionale deve essere riletto e meglio interpretato Non a caso, la norma italiana «vieta l’imposizione di nomi ridicoli o vergognosi», in piena coerenza con quanto stabilito a livello comunitario, e, allo stesso tempo, essa tiene conto del «fenomeno di contaminazione ed integrazione di culture», testimoniato proprio dall’uso di nomi stranieri. Ebbene, tale ‘rilettura’ perfettamente si attaglia alla questione relativa alle ‘caratteristiche’ del nome Andrea, che, sottolineano i giudici, «in numerosi contesti nazionali stranieri, europei ed extraeuropei, ha una valenza biunivoca, potendo indifferentemente essere utilizzato per soggetti femminili e maschili». Per questo, è illegittima, perché superata dai tempi, la valutazione compiuta in questa vicenda – in Tribunale prima e in Corte d’Appello poi – «esclusivamente nel solco della tradizione italiana», senza tener conto di «fattori d’incidenza provenienti da culture straniere». Ancora più esplicitamente, non si può ignorare «la natura sessualmente neutra del nome Andrea nella maggior parte dei Paesi europei». Ciò significa che tale nome «non può definirsi né ridicolo né vergognoso, se attribuito ad una persona di sesso femminile, né potenzialmente produttivo di un’ambiguità nel riconoscimento del genere della persona cui sia stato imposto, non essendo più riconoscibile, in un contesto culturale ormai non più rigidamente nazionalistico, esclusivamente al genere maschile». Chiara la linea di pensiero seguita dai giudici della Cassazione, chiare anche le conseguenze questione chiusa ab origine , con la cancellazione della rettifica allo stato civile e con la conferma del solo nome Andrea scelto dai genitori per la loro bambina.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 8 – 20 novembre 2012, numero 20385 Presidente Luccioli – Relatore Acierno Svolgimento del processo In accoglimento del ricorso del pubblico ministero, il Tribunale di Pistoia aveva disposto la rettificazione dell’atto dello stato civile nel quale risultava imposto alla figlia dei signori G.M. e P.Z. il prenome “Andrea”, ordinandone la sostituzione con “Giulia Andrea”, in modo che il nome completo fosse G.A.Z. Avverso tale provvedimento hanno proposto reclamo i genitori della minore, deducendo che il nome “Andrea”, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di primo grado, avrebbe assunto, anche in Italia, una valenza anche femminile, oltre che maschile, con la conseguenza che nessun impedimento si sarebbe dovuto frapporre all’imposizione del nome stesso ad una persona di sesso femminile. La Corte d’Appello di Firenze ha rigettato il proposto reclamo affermando che il nome “Andrea” ha nella tradizione culturale italiana una valenza esclusivamente maschile, con le conseguenza che, nella situazione attuale e salvo modifiche future, l’imposizione di questo nome in via esclusiva viola l’articolo 35 del d.p.r. numero 396 del 2000, ai sensi del quale il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso. Avverso tale decreto hanno proposto ricorso per cassazione G.M. e P.Z. affidandosi a due motivi. Motivi della decisione Nel primo motivo viene censurata, ai sensi dell’articolo 350, comma primo, numero 5 cod. proc. civ., l’omessa motivazione del provvedimento impugnato sotto diversi profili. In primo luogo viene lamentato che il rigetto del reclamo sia stato fondato esclusivamente sull’origine etimologica e la tradizione culturale formatasi in Italia in ordine all’elemento onomastico del nome Andrea. In secondo luogo, viene censurato che non si sia tenuto conto dell’intervenuta circolare interpretativa numero 27 del 2007 del Ministero degli Interni nella quale, per chiarire la portata del divieto di assegnare alla prole nomi non corrispondenti al sesso, è stata utilizzata come ipotesi esplicativa proprio l’imposizione del nome Andrea, a comprova del carattere esclusivamente maschile del nome usato come esempio. Questa necessità secondo la parte ricorrente dimostra, al contrario, che numerose sono state le istanze di questo tenore a conferma di un nuovo maturato sentire collettivo, che si palesa diametralmente opposto a quello posto a fondamento del provvedimento impugnato. In terzo luogo viene censurato che si sia omesso di motivare in ordine alle deduzioni difensive relative all’interpretazione coordinata dell’articolo 34, comma quarto e comma secondo, del citato d.p.r. Il comma quarto, a tenore del quale l’Ufficiale di stato civile chiamato a registrare una femmina di nome Andrea deve informare i genitori della possibilità che da questa loro scelta discenda a loro carica un procedimento di rettifica davanti ad un Tribunale su istanza della competente Procura della Repubblica, ingenera nei destinatari dell’avviso un timore reverenziale tale da produrre nella maggior parte dei casi una desistenza dall’istanza. Il comma secondo, consentendo l’attribuzione di nomi stranieri a bambini aventi la cittadinanza italiana, con espressa possibilità di estensione alle lettere J, K, Y, X, W, anche con facoltà d’impiegare segni diacritici propri dell’alfabeto della lingua di origine del nome prescelto, introduce un principio pregevole e condivisibile perché tiene nel debito conto le trasformazioni del contesto linguistico prodottesi nel tempo dietro le spinte delle ingerenze straniere. Il nome Andrea, proprio in virtù della valenza assunta in molti paesi europei, dovrebbe essere ritenuto sessualmente neutro, secondo la lingua italiana, e, conseguentemente attribuibile anche ad una persona di sesso femminile, come dimostra l’attuale diffusione di questo prenome tra le donne straniere che vivono nel nostro paese. Peraltro, il giudice di secondo grado trascura di considerare che si determinerebbe un’ingiustificata discriminazione a carico dei cittadini italiani anche di nascita, rispetto agli stranieri, naturalizzati italiani, che possono preservare il loro nome originario. Nel secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 35 del d.p.r. 396 del 2000 in relazione all’articolo 3 della Costituzione e 34 del medesimo decreto. Una lettura costituzionalmente orientata del predetto articolo 35 dovrebbe condurre alla legittimità dell’imposizione del nome Andrea ad una persona di sesso femminile, se non si vogliono ignorare i significativi cambiamenti nel sentire sociale e le nuove tendenze linguistiche dovute al processo d’integrazione in atto nel nostro paese. L’articolo 34, secondo comma, consente la scelta di nomi stranieri mutuati da vocabolari onomastici del tutto estranei alla nostra tradizione che presentano una formulazione letterale tale da non consentire un’agevole collocazione nel genere maschile o femminile o da avere un carattere sessualmente neutro. Il nome Andrea è usato al femminile in molti Stati membri dell’Unione Slovacchia, Inghilterra, Spagna, Germania, Olanda, Danimarca ed Ungheria , così da doverlo annoverare senz’altro tra gli elementi onomastici di cui al citato articolo 34. In conclusione, negare il diritto all’attribuzione del nome Andrea al femminile significa vanificare la portata effettiva della norma che facoltizza l’attribuzione di nomi stranieri, con conseguente insanabile contrasto con il successivo articolo 35. La valenza sessuale neutra del nome lo rende assimilabile alla maggioranza dei nomi stranieri che l’ordinamento dello stato civile autorizza ad assegnare. Ne consegue che l’unica lettura corretta e costituzionalmente orientata degli articolo 34 e 35 induce a ritenere legittima l’imposizione del nome Andrea a una persona di sesso femminile, anche perché assimilabile ai nomi stranieri ex articolo 34. I due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi. Il diritto al nome costituisce una componente essenziale dei diritti fondamentali della persona umana perché rappresenta un elemento costitutivo dell’identità individuale, consentendo un’identificazione immediata e riconoscibile del soggetto che lo parta, da ritenersi un attributo necessario ed ineludibile per lo sviluppo soggettivo e relazionale della personalità articolo 2 Cost., articolo 8 CEDU, articolo 7 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea . Il diritto alla scelta del nome inteso come comprensivo del prenome e del cognome diversamente dagli altri diritti fondamentali, caratterizzati dal minimo comune denominatore dell’autodeterminazione, non viene esercitato dal soggetto cui il nome è imposto al momento della nascita o nella sua immediatezza, ma dal genitore o dai genitori che lo riconoscono. In tutti gli ordinamenti si pone, conseguentemente, il problema, di un adeguato bilanciamento del diritto dei genitori alla scelta del nome secondo preferenze, modelli, o tradizioni costituenti il bagaglio culturale familiare di riferimento, ed il rispetto della dignità personale che costituisce il criterio conformativo immanente ad ogni diritto fondamentale dell’individuo. Proprio in virtù della primaria rilevanza dell’elemento distintivo costituito dal nome nel catalogo dei diritti fondamentali della persona umana, esso è oggetto di protezione nei più significativi strumenti internazionali convenzionali dei diritti della persona, oltre ad essere costituzionalmente garantito attraverso l’articolo 2 e, attraverso un’interpretazione sistematica e coordinata della norma, anche dall’articolo 30 Cost. L’articolo 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, del 16/12/1966, entrato in vigore il 23/3/1976, prescrive che tutti i bambini debbano portare un nome, mentre la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20/11/1989, ratificata con la l. 25/7/1991 numero 176, con gli articolo 7 ed 8 impegna gli Stati membri a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità, compreso il suo nome, senza ingerenze illegali. Già dall’esame delle fonti convenzionali sopra evidenziate, costituenti parte integrante dello statuto costituzionale dei diritti umani della persona, ormai non più declinabile soltanto alla luce del sistema costituzionale interno dei singoli ordinamenti S.U. numero 19393 del 2009 , emerge la dimensione relazionale del diritto, in quanto strumento di collegamento con il gruppo familiare od il singolo genitore cui spetta concretamente la scelta. Il riconoscimento di questa peculiarità, in stretta connessione con la funzione di definizione dell’identità personale, ha determinato nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti umani, l’inclusione del diritto al nome nell’alveo del diritto alla vita privata e familiare articolo 8 CEDU . Pur in mancanza di un’espressa previsione, contenuta nella Convenzione al pari della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea , la Corte Edu ha riconosciuto che il nome ed il prenome sono “strumenti d’identificazione personale e di collegamento alla famiglia” Sentenza 22/2/1994 numero 16213/90 caso Burghartz contro Svizzera . La scelta del prenome rientra nella sfera della vita privata dei genitori Sentenza 24/10/96 numero 22500/93 caso Guillot contro Francia e sentenza 6/9/97 numero 10163/95 Salonen contro Finlandia . La Corte, peraltro, nelle medesime pronunce, non ritiene che tale diritto conferisca ai genitori una libertà assoluta di scelta del nome e del prenome, riconoscendo un interesse pubblico e sociale alla regolamentazione del suo uso che può realizzarsi mediante il rifiuto delle Autorità nazionali a consentire l’imposizione di nomi “inusitati”. La sfera della vita privata dei genitori incontra il limite della tutela della dignità del minore. Il bilanciamento d’interessi tra il diritto alla non ingerenza nelle scelte personali familiari e l’intervento delle autorità nazionali dei singoli Stati, deve avvenire mediante l’assunzione del criterio della proporzionalità e della adeguatezza rispetto al fine il diritto del minore a non subire conseguenze negative nella sfera della dignità personale a causa di un nome inusitato che s’intende realizzare. Nella più recente sentenza Johansoon contro Finlandia numero 10163/02 del 6/9/2007 , la Corta EDU, in applicazione dei principi sopraesposti, ha ravvisato la violazione dell’articolo 8 nel rifiuto delle autorità finlandesi d’imporre un nome solo perché non di origine finlandese. Il nome scelto, in quanto non eccentrico né ridicolo, non pone, secondo la Corte, il problema della tutela degli interessi del minore, con la conseguenza che il rifiuto integra un’illegittima ingerenza nella sfera della vita privata e familiare di esso e dei suoi genitori. Peraltro, il cambiamento del prenome o del cognome da parte delle autorità nazionali determina di per sé un’illegittima ingerenza, dovendo l’intervento statuale, quando giustificato dalla lesione della dignità del minore, sotto il profilo dell’identità personale, limitarsi al rifiuto. Il quadro normativo interno che regola l’ambito della scelta dei genitori nell’imposizione del prenome al proprio figlio minore deve, conseguentemente, essere interpretato alla luce della qualificazione del diritto al nome come diritto fondamentale della persona umana e dell’inclusione da parte della giurisprudenza EDU, della sua tutela, nell’ambito del diritto alla vita privata e familiare. Gli articolo 34 e 35 del d.p.r. numero 396 del 2000 dettano una disciplina del diritto alla scelta del nome del tutto coerente con l’accertata collocazione ed ampiezza del diritto. L’intervento correttivo dell’autorità statuale è correlato esclusivamente alla tutela effettiva della dignità personale, in quanto direttamente e continuativamente condizionata dall’elemento dell’identità personale costituito dal nome. L’articolo 34 vieta l’imposizione di nomi ridicoli o vergognosi, del tutto coerentemente con il limite della Corte EDU dei nomi “inusitati”. L’articolo 35, introduce un ulteriore limite all’esercizio della scelta, costituito dalla corrispondenza del nome al sesso, al fine di escludere che un profilo d’indubbio rilievo della propria identità come il genere possa essere posto in dubbio e ingenerare ambiguità incidenti sul rispetto della dignità personale. In questa cornice che delimita i confini della libertà di scelta del nome, il legislatore, nell’articolo 34, secondo comma, riconosce il diritto di imporre ai minori, cittadini italiani, nomi stranieri “espressi in lettere dell’alfabeto italiano, con la estensione alle lettere J, K, X, Y, W, e, dove passibile anche con i segni diacritici propri dell’alfabeto della lingua di origine del nome”. Da questa previsione riemerge la duplice dimensione, individuale e relazionale, della funzione identificativa e distintiva del nome, attraverso il riconoscimento dell’importanza, nella definizione dell’identità personale, del collegamento con il proprio nucleo familiare e il bagaglio culturale, nazionale e geografico che lo determinano. Il legislatore italiano, anche in considerazione del crescente fenomeno di contaminazione ed integrazione di culture, determinato dalla libera circolazione nei paesi UE e dell’intensità del fenomeno migratorio, ha escluso di poter limitare il diritto alla scelta del nome mediante parametri di natura nazionalistica, peraltro censurati dalla Corte EDU, ed ha aperto la possibilità di scelta a tutti i nomi di origine straniera, salvi i limiti, strumentali al rispetto della dignità personale, costituiti dai divieti contenuti nel primo comma dell’articolo 34 e nell’articolo 35. Pertanto, alla luce della lettura coordinata delle due disposizioni sopra citate, risulta agevole la soluzione dei quesiti posti dai due motivi del ricorso. Il nome Andrea, in numerosi contesti nazionali stranieri europei Slovacchia, Inghilterra, Spagna, Germania, Olanda, Danimarca ed Ungheria ed extraeuropei in particolare gli Stati Uniti ha una valenza biunivoca, potendo essere indifferentemente utilizzato per soggetti femminili e maschili. Anche nel nostro paese non è infrequente imbattersi in persone di sesso femminile, di nazionalità o provenienza estera, che abbiano questo prenome. Il provvedimento impugnato, ritenendo riferibile il prenome “Andrea”, esclusivamente ad una persona di sesso maschile, ha, invece, collocato la valutazione della legittimità della scelta operata dai ricorrenti, esclusivamente nel solco della tradizione italiana, senza tenere conto dell’attuale incidenza di fattori d’interferenza, provenienti da culture straniere, cui viene riconosciuta diretta dignità e tutela dalla disciplina normativa italiana, mediante il citato articolo 34, secondo comma, favorita, nella specie, dalla formulazione letterale del nome stesso. In questa accezione rigidamente nazionalistica il prenome “Andrea” è stato anche considerato nella circolare esplicativa numero 27 del 1/6/2007 del Ministero degli Interni, ma, deve essere precisato, che tale atto non ha efficacia normativa, ma esclusivamente esemplificativa, non determinando alcun vincolo in sede di accertamento giurisdizionale. Pertanto, la natura sessualmente neutra del nome Andrea, nella maggior parte dei paesi europei, nonché in molti paesi extraeuropei, tra i quali gli Stati Uniti, per limitarsi ad un ambiente culturale non privo d’influenze nel nostro paese, unita al riconoscimento del diritto d’imporre un nome di provenienza straniera al proprio figlio minore nei limiti del rispetto della dignità personale, così come definita nell’articolo 34, primo comma, e 35 d.p.r. numero 396 del 2000, non può che condurre a una soluzione opposta a quella fornita dalla sentenza di secondo grado. Il nome Andrea, anche per le sua peculiarità lessicale, non può definirsi né ridicolo né vergognoso se attribuito ad una persona di sesso femminile, né potenzialmente produttivo di un’ambiguità nel riconoscimento del genere della persona cui sia stato imposto, non essendo più riconducibile, in un contesto culturale ormai non più rigidamente nazionalistico, esclusivamente al genere maschile. La ratio del divieto di attribuire un nome non corrispondente al sesso del minore, è sempre quella fondata sul massimo rispetto della dignità personale. Un segno distintivo così rilevante come il nome non può avere un contenuto di evidente confusione su un carattere, quale il genere, di primario rilievo. Ma, quando la caratterizzazione di genere, come nel caso del nome Andrea, ha perso la sua valenza distintiva esclusiva a causa dell’uso indifferenziato per entrambi i generi, in molti paesi stranieri, del nome in questione, la scelta dei genitori, alla luce dell’articolo 34, secondo comma, è del tutto legittima perché non determina alcuno sconfinamento nella lesione della dignità personale. Il ricorso deve, in conclusione, essere accolto. Il provvedimento della Corte d’Appello di Firenze deve essere cassato e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ai sensi dell’articolo 384, secondo comma, cod. proc. civ. Ne consegue il rigetto del ricorso proposto dal pubblico ministero avverso l’imposizione del prenome “Andrea” alla figlia minore dei ricorrenti e la cancellazione della rettifica dell’atto dello stato civile disposta all’esito del giudizio di primo grado con la quale il prenome della minore è stato sostituito con “Giulia Andrea”. Non vi è luogo ad una statuizione sulle spese in ragione della qualità della parte soccombente. P.Q.M. La Corte, accoglie il ricorso. Cassa il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso del pubblico ministero disponendo la cancellazione della rettifica dell’atto della stato civile con la quale il prenome “Andrea” della figlia minore dei ricorrenti G.M. e P.Z., era stato sostituito con “Giulia Andrea”. Nulla per le spese.