Le garanzie procedurali imposte dall’articolo 4 Stat. Lav. trovano applicazione ai controlli c.d. difensivi, diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando però tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso. Ne consegue che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio aziendale.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 26682/2017 depositata il 10 novembre 2017. Il caso. La Corte di Appello di Ancona, riformando la pronuncia di primo grado, rigettava il ricorso di un lavoratore subordinato diretto ad ottenere per quanto qui interessa la declaratoria di illegittimità del recesso per giusta causa a lui comunicato per l’invio di 11 e-mail, nelle quali reiterava espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della società e di altri suoi colleghi qualificandoli di inettitudine e scorrettezza «e con l’uso di espressioni inurbane, e si qualifica va negativamente l’azienda come tale» . Contro tale sentenza il lavoratore proponeva ricorso alla Corte di Cassazione articolando vari motivi. La Cassazione non è giudice del fatto. Con un primo motivo il ricorrente si doleva della tardività del procedimento disciplinare, avviato più di 4 mesi dopo il momento in cui la società aveva avuto conoscenza dell’invio e dei contenuti delle e-mail oggetto di contestazione. Doglianza ritenuta inammissibile dalla Cassazione la quale, richiamando il proprio consolidato orientamento, ribadisce come «la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato» nello stesso senso Cass. nnumero 1247/2015 5546/2010 29480/2008 . Non sempre è necessaria l’affissione del codice disciplinare. Con un altro motivo, il ricorrente si doleva dell’illegittimità del recesso in virtù della mancata affissione del codice disciplinare nonché dell’assenza di un regolamento aziendale relativo all’utilizzo dei sistemi di posta elettronica. Motivo che ancora una volta non viene condiviso dalla Cassazione la quale, coerente con il proprio granitico orientamento, non ritiene necessaria la previa affissione del codice disciplinare per quegli inadempimenti che costituiscano violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro. Nel caso di specie, prosegue la Corte, oggetto della contestazione era l’uso di espressioni offensive verso i suoi superiori e colleghi, non le modalità di utilizzo della posta elettronica. In altre parole, ad avviso della Corte, il dipendente «non è stato licenziato per aver utilizzato al di fuori delle esigenze lavorative la casella di posta avuta in dotazione dalla società, bensì per il contenuto offensivo delle e-mail riguardanti i vertici e collaboratori dell’azienda». E nemmeno è sempre necessario il regolamento aziendale sull’utilizzo delle e-mail. Con riferimento al secondo profilo oggetto di censura, la Cassazione prende atto del non contestato rilievo dei Giudici di merito per il quale era prassi nota, all’interno della società, la duplicazione di tutti i dati contenuti nei computer aziendali, oltre al fatto che la lettura dei file contenuti nel computer del ricorrente era stata «imposta dall’anomalia segnalata dall’amministratore di sistema, il quale l’aveva imputata proprio al tentativo di cancellazione dei file che il sistema conservava, inclusi i messaggi di posta elettronica». Sulla base di tali presupposti, ed affermando il principio esposto in massima, la Cassazione rigetta il ricorso, atteso che nella specie il datore di lavoro aveva compiuto i controlli ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addossato al dipendente, «quando erano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva, in quanto tale «estranea al campo di applicazione dell’articolo 4 Stat. Lav. poiché prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa ed era diretta invece ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti dagli stessi posti in essere». Del resto, conclude la Corte all’esito di un ragionamento arricchito da numerosi suoi precedenti, «non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa» così Cass. numero 10636/2017, in fattispecie in cui la condotta del lavoratore era stata accertata dal filmato di una telecamera installata nei locali dove si erano verificati furti di beni aziendali .
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 maggio – 10 novembre 2017, numero 26682 Presidente Nobile – Relatore Amendola Fatti di causa 1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 22 gennaio 2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto l’impugnativa della sanzione conservativa e del licenziamento disciplinare irrogati dalla Polo Elettroforniture Spa ad C.E. . Quanto alla sanzione della sospensione dal lavoro per cinque giorni inflitta perche’ durante il periodo di malattia dal omissis il ricorrente giocava regolarmente al calcio , la Corte territoriale, esaminato il materiale probatorio acquisito, ha ritenuto che da esso si traesse o la conferma della insussistenza di una condizione medica o della volontaria esposizione al rischio di aggravamenti della condizione patologica . Circa il licenziamento la Corte ha ritenuto incontestata la sussistenza materiale della condotta contestata, consistita nell’invio, dal computer aziendale, di una serie di undici e-mail nel periodo dal 22.6 al 4.8.2010 in esse si reiterano espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della societa’ e di altri collaboratori, qualificandoli di inettitudine e scorrettezza con l’uso di espressioni inurbane, e si qualifica negativamente l’azienda come tale . In ordine alle eccezioni formali sollevate dal lavoratore circa le modalita’ di acquisizione del testo dei messaggi di posta elettronica , la Corte ha escluso che detti dati fossero stati illegittimamente acquisiti. 2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso C.E. con tre motivi. Ha resistito la societa’ Elettroveneta Spa, incorporante per fusione Polo Elettroforniture Spa, con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia nullita’ della sentenza per motivazione apparente manifesta illogicita’ e contraddittorieta’ - Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che e’ stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’articolo 360, numero 5, c.p.c. si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto legittima la sanzione conservativa, evidenziando come l’attivita’ calcistica praticata dal ricorrente non era affatto di natura agonistica e lo stesso ricorrente non percepiva una retribuzione, ma bensi’ un semplice rimborso spese di circa 500 - 600 Euro al mese e sostenendo che la societa’ datrice non aveva contestato ne’ la presunta simulazione della malattia, ne’ il possibile aggravamento in previsione del pieno recupero delle energie psico-fisiche da parte del dipendente. Il motivo e’ inammissibile perche’ investe l’accertamento di fatto sostenuto da congrua motivazione della Corte del merito circa la ritenuta insussistenza della condizione patologica legittimante l’astensione dal servizio o comunque la volontaria esposizione al rischio di aggravamenti di detta condizione, con censure formulate da parte ricorrente ben oltre i limiti consentiti dal novellato articolo 360, comma 1, numero 5 c.p.c., come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nnumero 8053 e 8054 del 2014 successive conf. v. Cass. SS.UU. numero 19881 del 2014 numero 25008 del 2014 numero 417 del 2015 . Quanto alla pretesa omessa contestazione dell’addebito il motivo difettai di autosufficienza poiche’ non riporta in esso il contenuto specifico del documento rilevante, ne’ indica ove lo stesso sia reperibile ai fini del giudizio di legittimita’. 2. Con il secondo mezzo si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione al carattere dell’immediatezza della contestazione disciplinare di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 7 della . numero 300 del 1970. Si lamenta che detta contestazione sarebbe stata inviata ad oltre 4 mesi dalla commissione dei fatti e comunque ad oltre due mesi dalla loro conoscenza da parte del datore di lavoro, per di piu’ dopo aver proceduto all’archiviazione di altro procedimento disciplinare per i medesimi fatti. Anche tale doglianza non puo’ trovare accoglimento atteso che, circa la violazione del principio dell’immediatezza, occorre rammentare come la valutazione della tempestivita’ della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato Cass. numero 1247 del 2015 Cass. numero 5546 del 2010 Cass. numero 29480 del 2008 Cass. numero 14113 del 2006 , sicche’ il vizio attinente a tale apprezzamento di merito, riguardando la ricostruzione dei fatti e la loro valutazione, essendo tipicamente sussumibile nel paradigma dell’articolo 360, comma 1, numero 5, c.p.c., novellato, nonostante la veste solo formale di violazione di legge attribuita dalla parte al motivo in esame, incontra i medesimi limiti innanzi evidenziati richiamando le pronunce di questa S.C. nnumero 8053 e 8054 del 2014. 3. Con il terzo mezzo di impugnazione si deduce violazione e falsa applicazione degli articolo 7 l. numero 300 del 1970 ed 11, numero 2, del d. lgs. numero 193 del 2003. 3.1. Il motivo si articola in due censure la prima delle quali riferita alla norma statutaria, anche sotto il profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamentando la mancata affissione del codice disciplinare e, in particolare, che la societa’ non aveva adottato alcun regolamento disciplinare per l’utilizzo di sistemi informatici e di posta elettronica, sicche’ non era in alcun modo regolamentato l’utilizzo da parte del lavoratore degli indirizzi di posta elettronica assegnati . La doglianza, oltre ad essere inammissibile per come e’ formulata in quanto non specifica quale sarebbe il fatto decisivo di cui sarebbe stato omesso l’esame, e’ infondata, per il primo aspetto, in considerazione del costante insegnamento secondo cui in tema di sanzioni disciplinari, la garanzia di pubblicita’ del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro per tutte v. Cass. numero 20270 del 2009 , come accaduto nella specie. Quanto poi alla mancata predisposizione di un regolamento aziendale per l’utilizzo della posta elettronica, il rilievo sul punto appare inconferente visto che nella valutazione della Corte territoriale il venir meno del vincolo fiduciario con il dipendente e’ stato determinato dall’uso reiterato di espressioni scurrili nei confronti del legale rappresentante della societa’ e di altri collaboratori, qualificandoli di inettitudine e scorrettezza con l’uso di espressioni inurbane piuttosto che nell’uso della posta elettronica da postazione aziendale in altre parole il C. non e’ stato licenziato per aver utilizzato al di fuori delle esigenze lavorative la casella di posta avuta in dotazione dalla societa’, bensi’ per il contenuto offensivo delle e-mail riguardanti vertici e collaboratori dell’azienda. 3.2. Con la seconda censura del motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’articolo 11, numero 2, d. lgs. numero 193 del 2003, in base al quale i dati personali trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati , sostenendo che il licenziamento disciplinare comminato dalla Polo Elettroforniture Spa al ricorrente e’ censurabile in relazione alle modalita’ di assunzione e conoscenza dei fatti posti a fondamento della contestazione di addebito e del licenziamento disciplinare da parte del datore di lavoro . Si invoca a sostegno la delibera del Garante per la Privacy del l marzo 2007 concernente le linee guida per l’utilizzo della posta elettronica ed internet negli ambienti di lavoro. Si critica l’approssimazione e la carenza della motivazione sul punto della sentenza gravata, tra l’altro errata anche nella esposizione fattuale . La censura pregiudizialmente presenta, oltre i consueti profili di inammissibilita’ legati alla critica della ricostruzione fattuale operata dalla Corte del merito intangibile in questa sede di legittimita’ per quanto sopra reiteratamente detto ancor piu’ con un motivo formulato ai sensi dell’articolo 360, comma 1, numero 3, c.p.c. , anche irrituali aspetti connessi alla novita’ della questione - circa l’osservanza delle linee guida del Garante della privacy - non espressamente affrontata nella sentenza impugnata. Come noto, infatti, secondo giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimita’, al fine di evitare una statuizione di inammissibilita’, per novita’ della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicita’ di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa Cass. SS. UU. numero 2399 del 2014 Cass. numero 2730 del 2012 Cass. numero 20518 del 2008 Cass. numero 25546 del 2006 Cass. numero 3664 del 2006 Cass. numero 6542 del 2004 . Nella specie il corpo del motivo, nella sua illustrazione, non contiene tali indicazioni che dettaglino dove e come detta questione, con i connessi accertamenti fattuali, sia stata introdotta nel giudizio di primo grado e come sia stata coltivata in appello, con adeguata specificazione dei luoghi processuali e soprattutto degli esatti contenuti degli atti, si’ da consentire sulla base della sola lettura del ricorso per cassazione ogni necessaria verifica. Cio’ premesso in rito, per ogni ulteriore aspetto il motivo in esame non puo’ trovare accoglimento. In ordine alle eccezioni formali sollevate dal lavoratore circa le modalita’ di acquisizione del testo dei messaggi di posta elettronica la Corte di Appello ha infatti premesso come non sia contestato che fosse prassi nota la duplicazione periodica di tutti i dati contenuti nei computer aziendali e che la prova testimoniale conferma che la lettura di detti file e’ stata imposta dall’anomalia segnalata dall’amministratore di sistema, il quale l’aveva imputata proprio al tentativo di cancellazione dei file che il sistema conservava, inclusi i messaggi di posta elettronica . La Corte ne ha tratto il convincimento che non si era trattato dell’effettuazione di controlli finalizzati all’esatto adempimento dell’obbligazione lavorativa e, a rigore, nemmeno inizialmente destinati all’effettuazione di un controllo di tipo difensivo , bensi’ dell’acquisizione di un dato registrato dalle apparecchiature aziendali, della cui conservazione e duplicazione il lavoratore era al corrente, e la cui lettura era giustificata dall’emergenza di un comportamento inteso ad eludere tale nota prassi e tale da far ragionevolmente insorgere il sospetto dell’effettuazione di condotte lesive di beni sostanzialmente estranei all’adempimento delle obbligazioni lavorative, ma intesi alla difesa di altri beni in primo luogo l’immagine dell’impresa e la doverosa tutela della dignita’ di altri lavoratori . La decisione e’ conforme a precedente di questa Corte, peraltro espressamente citato dai giudici d’appello. Invero in Cass. numero 2722 del 2012 e’ stato affermato il principio per il quale -In tema di controllo del lavoratore, le garanzie procedurali imposte dalla L. numero 300 del 1970, articolo 4, comma 2, nella versione di testo antecedente la formulazione disposta dall’articolo 23 del d. lgs. numero 151 del 2015 ndr. , espressamente richiamato dall’articolo 114 del d.lgs. numero 196 del 2003, per l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, dai quali derivi la possibilita’ di verifica a distanza dell’attivita’ dei lavoratori, trovano applicazione ai controlli, c.d. difensivi, diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando, pero’, tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, e non, invece, quando riguardino la tutela di beni estranei al rapporto stesso. Ne consegue che esula dal campo di applicazione della norma il caso in cui il datore abbia posto in essere verifiche dirette ad accertare comportamenti del prestatore illeciti e lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale conf., in motivazione, Cass. numero 10955 del 2015 . In applicazione del suddetto principio, la pronuncia citata ha ritenuto legittimo il controllo effettuato da un istituto bancario sulla posta elettronica aziendale del dipendente accusato di aver divulgato notizie riservate concernenti un cliente, e di aver posto in essere, grazie a tali informazioni, operazioni finanziarie da cui aveva tratto vantaggi propri. Premesso che il giudice del merito aveva affermato che il datore aveva compiuto il suo accertamento ex post, ovvero dopo l’attuazione del comportamento addossato al dipendente, quando erano emersi elementi di fatto tali da raccomandare l’avvio di un’indagine retrospettiva, la Corte ha ritenuto tale fattispecie estranea al campo di applicazione dell’articolo 4 dello statuto dei lavoratori, essendo posta in essere una attivita’ di controllo sulle strutture informatiche aziendali che prescindeva dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa degli addetti ed era, invece, diretta ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti poi effettivamente riscontrati dagli stessi posti in essere. Il c.d. controllo difensivo, in altre parole, non riguardava l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma era destinato ad accertare un comportamento che poneva in pericolo la stessa immagine dell’Istituto bancario presso i terzi. In questo caso entrava in gioco il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, che era costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, cosi’ come accreditata presso il pubblico e questa forma di tutela egli poteva giuridicamente esercitare con gli strumenti derivanti dall’esercizio dei poteri derivanti dalla sua supremazia sulla struttura aziendale. In punto di controllo da parte del datore di lavoro sull’utilizzo dello strumento presente sul luogo di lavoro e in uso al lavoratore per lo svolgimento della prestazione poi questa Corte, premesso che la materia esula dai cd. controlli a distanza disciplinati dall’articolo 4 l. numero 300/70, ha precisato che il datore di lavoro puo’ effettuare dei controlli mirati direttamente o attraverso la propria struttura al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro cfr. articolo 2086, 2087 e 2104 cod. civ. , tra cui i p.c. aziendali, purche’ rispetti la liberta’ e la dignita’ dei lavoratori, nonche’, con specifico riferimento alla disciplina in materia di protezione dei dati personali dettata dal d. lgs. numero 196 del 2003, i principi di correttezza, di pertinenza e non eccedenza di cui all’articolo 11, comma 1, del Codice v. Cass. numero 22313 del 2016 con la giurisprudenza ivi citata . In analoga prospettiva tesa ad escludere la sussunzione nell’ambito dell’articolo 4 piu’ volte citato il controllo difensivo non attinente all’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro, ma destinato ad accertare un comportamento che ponga in pericolo la sicurezza dei lavoratori, oltre al patrimonio aziendale, si pone Cass. numero 22662 del 2016 che ha cosi’ cassato con rinvio la sentenza di appello, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice la cui condotta era stata accertata dal filmato di una telecamera posta a presidio della cassaforte aziendale, evidenziando il diritto del datore di lavoro di tutelare la propria azienda mediante gli strumenti connessi all’esercizio dei poteri derivanti dalla sua supremazia sulla struttura aziendale e che la condotta della lavoratrice oggetto della ripresa video non solo non atteneva alla prestazione lavorativa ma non differiva in alcun modo da quella illecita posta in essere da un qualsiasi soggetto estraneo all’organizzazione del lavoro . Allo stesso modo, ancor piu’ di recente, Cass. numero 10636 del 2017 ha rilevato che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all’impresa, cosi’ confermando la declaratoria di legittimita’ del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore la cui condotta era stata accertata dal filmato di una telecamera installata nei locali dove si erano verificati furti in danno del patrimonio aziendale in precedenza v. Cass. numero 2117 del 2011 sulla natura di controllo difensivo , sottratto alla norma statutaria, dell’indagine effettuata mediante agenzia investigativa privata in relazione a compiti esterni fuori sede del dipendente v., da ultimo, Cass. numero 17723 del 2017, che richiama Cass. numero 25162 del 2014 . Talune decisioni sottolineano poi come in nessun caso puo’ essere giustificato un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignita’ e riservatezza del lavoratore Cass. numero 15892 del 2007 Cass. numero 4375 del 2010 Cass. numero 16622 del 2012 Cass. numero 9904 del 2016 Cass. numero 18302 del 2016 . L’articolato panorama giurisprudenziale in materia, influenzato anche dal concorrere multilivello di fonti sovranazionali, evidenzia il non sempre agevole bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla liberta’ di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignita’ e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non puo’ prescindere dalle circostanze del caso concreto. Nella specie i giudici del gravame hanno accertato che l’attivita’ di controllo posta in essere da parte datoriale non aveva avuto ad oggetto l’attivita’ lavorativa ed il suo corretto adempimento che era preventivamente nota ai dipendenti la duplicazione periodica di tutti i dati contenuti nei computer aziendali e che della loro conservazione e duplicazione il lavoratore era al corrente che il controllo era stato occasionato da una anomalia segnalata dall’amministratore di sistema ed effettuato ex post in presenza di un ragionevole sospetto dell’esistenza di condotte lesive di beni estranei all’adempimento dell’obbligazione lavorativa, in primo luogo l’immagine dell’impresa e la doverosa tutela della dignita’ degli altri lavoratori che l’acquisizione del testo dei messaggi di cui era stata tentata la cancellazione non poteva considerarsi eccedente rispetto alle finalita’ del controllo. Tali accertamenti ed apprezzamenti di fatto, appartenenti al monopolio esclusivo del giudice del merito, non possono essere sindacati in questa sede di legittimita’, ove e’ preclusa una diversa ricostruzione della vicenda storica che ha dato origine alla controversia. Pertanto, considerato che, secondo la Corte territoriale, il C. era da ritenersi preventivamente informato dei controlli periodici svolti dalla societa’ sulle registrazioni contenute nei pc aziendali che nella specie, in particolare, il controllo era del tutto svincolato dall’attivita’ lavorativa ed era stato effettuato per verificare se la strumentazione aziendale in dotazione fosse stata utilizzata per la perpetrazione di illeciti che esso, al di fuori di una verifica preventiva a distanza dell’attivita’ dei lavoratori, era stato occasionato da una anomalia di sistema tale da ingenerare il ragionevole sospetto dell’esistenza di condotte vietate e, quindi, giustificato dal motivo legittimo di tutelare il buon funzionamento dell’impresa nonche’ i dipendenti che vi lavorano, anche al fine di evitare di esporre l’azienda a responsabilita’ derivanti da attivita’ illecite compiute in danno di terzi che l’acquisizione dei dati era stata effettuata con modalita’ non eccedenti rispetto alle finalita’ del controllo e, quindi, nell’osservanza dei criteri di proporzionalita’, correttezza e pertinenza che non sono stati rilevati elementi dai quali desumere che il datore di lavoro avrebbe potuto utilizzare misure e metodi meno invasivi per raggiungere l’obiettivo perseguito tutto cio’ considerato il Collegio reputa, in definitiva, alla stregua dei principi innanzi richiamati, che la sentenza impugnata non merita le censure cosi’ come sono state formulate da parte ricorrente. 4. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’articolo 13, co. 1 quater, d.P.R. numero 115 del 2002, come modificato dall’articolo 1, co. 17, l. numero 228 del 2012. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, che liquida in Euro 4.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’articolo 13, co. 1 quater, d.P.R. numero 115 del 2002, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.