Il ricorso per cassazione deve essere autosufficiente gli atti o i verbali invocati devono essere specificamente allegati.
Il fatto. In vista di un’azione giudiziaria da incardinare presso il giudice amministrativo, il legale si fece rilasciare un foglio firmato che poi funse da procura ad litem, ben oltre la volontà espressa dal cliente. La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, condannò l’avvocato per «Falsità di foglio firmato in bianco» ex articolo 486 c.p. il cliente non avrebbe avuto intenzione di procedere a giudizio, l’avvocato avrebbe redatto l’atto al solo fine di lucrare una ricca parcella. Della questione fu invalso il locale Ordine degli avvocati, il quale trasmise gli atti alla Procura per l’accertamento. Ricorre il legale, l’apparato istruttorio sarebbe stato travisato e la motivazione illogica. La Cassazione, Quinta Sezione Penale, numero 24017/2014, depositata il 9 giugno, respinge il ricorso, avvalorando la tenuta logica giudiziale e motivando più specificamente in punto di regole processuali. Il ricorso per cassazione deve rispettare il principio di autosufficienza. Il ricorso per Cassazione deve essere atto completo degli elementi essenziali costituenti la materia devoluta al giudice d’appello, assieme alla moltitudine dei rilievi e delle critiche che l’impugnante aveva proposto avverso la decisione di primo grado. In ogni caso, l’atto di ricorso deve reggersi sulle proprie gambe. Quando un atto processuale è stato travisato o la valutazione omessa, va fedelmente riprodotto nel ricorso – mediante acquisizione al fascicolo in Cassazione o in copia durante il giudizio -, senza necessitare al giudice l’acquisizione in altre forme o mediante la richiesta di una percezione diretta dell’atto richiamato. Altrimenti, il motivo va tacciato di genericità. Nel caso, si trattava della comunicazione con cui il cliente avrebbe dichiarato di abbandonare ogni intento di incardinare la pratica presso il giudice amministrativo. La sentenza civile non vincola il giudice penale. Si tratta di mondi processuali distinti - che il codice di procedura penale si limita a regolare mediante le previsioni sull’accertamento penale dello stato di famiglia ex articolo 3 c.p.p. e della sospensione del giudizio penale ex articolo 479 c.p.p. -, siccome governati da regimi per la formazione della prova e per il libero convincimento giudiziale strutturalmente distanti, per i diversi interessi sottesi ai rispettivi accertamenti – patrimoniali nel caso del giudizio civile e relativi alla tutela dei beni giuridici costituzionali in caso di giudizio penale -. Ne segue che la sentenza civile non vincola il giudice penale, né in ordine alla prova né in ordine alle valutazioni giudiziali di merito. Invece, vale l’inverso delle sentenze penali possono usufruire i giudici civili, per fatti collimanti di cui dispongono la trattazione, ex articolo 651 e ss. c.p.p. Inoltre, altre sentenze penali possono rilevare nel processo penale ex articolo 238 bis c.p.p. ai fini della prova del fatto, quando riscontrate ex articolo 192, terzo comma, c.p.p.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 29 aprile – 9 giugno 2014, numero 24017 Presidente Marasca – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 31 gennaio 2013 la Corte d'appello di Milano, in riforma della pronunzia assolutoria di primo grado appellata dal Pubblico Ministero e dalle parti civili, condannava alla pena di giustizia e al risarcimento del danno P.D. per il reato di cui all'articolo 486 c.p. commesso in danno di U.A. , R.A. , R.D. e B.A.M. . La vicenda concerneva la presunta redazione da parte dell'avv. P. , al fine di ottenere successivamente il pagamento della parcella per l'opera prestata, di una bozza di ricorso al giudice amministrativo nell'interesse delle sunnominate persone offese utilizzando abusivamente una procura ad litem rilasciata in bianco dalle medesime al momento del conferimento all'imputato di mandato professionale finalizzato al promovimento delle procedure giurisdizionali ed amministrative necessarie per aggiungere al cognome dei figli della B. quello dell'U. e per l'adozione dei primi da parte di quest'ultimo. 2. Avverso la sentenza ricorre personalmente l'imputato articolando sei motivi. 2.1 Con il primo deduce vizi motivazionali del provvedimento impugnato, lamentando che la Corte distrettuale avrebbe omesso di considerare come la lettera del 16 luglio 2003 - con la quale l'U. avrebbe comunicato al P. la sua intenzione di abbandonare la pratica relativa alla modifica del cognome dei figli della convivente e che quest'ultimo ha sempre negato essergli mai stata consegnata - non era stata menzionata, nonostante la sua fondamentale valenza per le persone offese, nell'esposto proposto dalle medesime contro l'imputato al consiglio dell'ordine degli avvocati di Monza. Circostanza questa che sarebbe idonea a dimostrare logicamente come la missiva sia stata invero strumentalmente redatta solo in epoca più recente, al solo fine di resistere alle pretese economiche del ricorrente, e non possa dunque essere stata consegnata all'imputato all'epoca, circostanza per l'appunto sempre negata dallo stesso. Non di meno l'artificiosità della menzionata missiva emergerebbe altresì dal tenore della corrispondenza successiva alla sua presunta data intervenuta tra il P. e l'U. , dalla quale, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, si evincerebbe che fu il primo a decidere di abbandonare la pratica sulla modifica del cognome. Non di meno i giudici dell'appello avrebbero ingiustificatamente ignorato le argomentazioni attraverso cui il Tribunale civile di Monza - nel decidere il primo grado del giudizio sul mancato pagamento degli onorari professionali del P. - ha negato essersi raggiunta la prova della consegna della lettera a quest'ultimo. Ancora illogica sarebbe la motivazione della sentenza impugnata nella misura in cui avrebbe acriticamente recepito le dichiarazioni dell'U. in ordine all'attribuzione all'imputato della richiesta di spedirgli via fax il ritaglio di giornale contenente la notizia di un provvedimento del Consiglio di Stato su un caso analogo a quello oggetto della più volte citata pratica cognome . 2.2 Ulteriori vizi della motivazione vengono dedotti con il secondo motivo, nel quale si evidenzia come il ragionamento probatorio svolto in sentenza si fonderebbe su premesse illogiche e comunque errate. Sotto il primo profilo il ricorrente evidenzia che la Corte distrettuale avrebbe sostanzialmente dedotto il difetto del mandato dalla ritenuta insussistenza dei presupposti per presentare il ricorso cui si riferiva, trasformando in tal senso la valutazione sulle scelte professionali del P. nella prova del fatto costituente reato mediante un evidente salto logico. Quanto poi alla presunta insussistenza dei presupposti per presentare il suddetto ricorso, i giudici milanesi avrebbero erroneamente ritenuto che l'istanza proposta in precedenza ai sensi dell'ordinamento sullo stato civile fosse stata archiviata ed altrettanto erroneamente avrebbero ritenuto scaduti i termini per l'impugnazione in sede giurisdizionale dell'eventuale silenzio-rigetto intervenuto sulla medesima, ignorando che trattandosi di istanza concernente un diritto personalissimo, di per sé non soggetto a prescrizione o decadenza alcuna, in assenza di un provvedimento formale il ricorso sarebbe stato sempre proponibile. 2.3 Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la falsa applicazione dell'articolo 2957 c.c., evocato dalla sentenza per escludere la buona fede dell'imputato - il quale avrebbe dunque agito per ottenere il pagamento di prestazioni professionali il cui relativo diritto di liquidazione già si era prescritto - facendo però in tal modo confusione tra prescrizione presuntiva e prescrizione estintiva e dimenticando che entrambe non possono essere rilevate d'ufficio, ma devono essere eccepite dalla parte interessata. 2.4 Con il quarto motivo viene denunciata la violazione da parte della Corte distrettuale della regola di giudizio dettata dal primo comma dell'articolo 533 c.p.p., mentre con il quinto il ricorrente censura la mancata ammissione nel primo grado di giudizio della sentenza numero 780/2011 del Tribunale di Monza, resa in una delle cause civili instauratesi tra il P. e l'U. e dalla quale si evincerebbe come - contrariamente a quanto affermato dai giudici d'appello - l'imputato non abbia mai negato di aver ricevuto l'assegno menzionato nella già citata lettera del 16 luglio 2003, ma soltanto la consegna di quest'ultima. Con il sesto ed ultimo motivo, infine, viene contestata la credibilità dell'U. sulla base di atti provenienti da altri procedimenti ed allegati al ricorso, nonché dell'esame suppletivo del medesimo svolto nel corso del dibattimento di primo grado. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato e per certi versi anche inammissibile. 1.1 La Corte distrettuale ha affermato la penale responsabilità dell'imputato sulla base di una analitica disamina della sequenza logica e cronologica della corrispondenza intervenuta tra l'imputato e l'U. , nonché delle dichiarazioni di quest'ultimo. In particolare i giudici d'appello, procedendo ad un rigoroso vaglio critico dell'interpretazione del compendio probatorio svolta nella pronunzia di primo grado, hanno evidenziato non solo come i risultati dell'analisi di cui si è detto conforti la versione della persona offesa - e cioè che nessun mandato era stato rilasciato al P. per proporre ricorso al T.A.R. - ma altresì come questa trovi logica conferma anche in alcuni ulteriori fatti accertati nel dibattimento di primo grado e cioè che inspiegabilmente il ricorso, dopo essere stato predisposto, non venne mai presentato o come ha ritenuto necessario precisare il ricorrente non venne mai notificato alla pubblica amministrazione e iscritto a ruolo , senza che sia stata peraltro acquisita prova dell'intenzione dei clienti del P. di rinunciarvi che lo stato della procedura avviata per il mutamento del cognome dei figli della convivente dell'U. era tale da non rendere nemmeno prospettabile l'eventualità di rivolgersi utilmente al giudice amministrativo, tanto da far apparire come illogica anche solo l'idea di proporre il ricorso che nel primo atto di citazione presentato per il mancato pagamento delle sue spettanze l'imputato non menzionò la parcella relativa alla bozze del ricorso al T.A.R., oggetto di una seconda azione proposta solo tre mesi dopo. 1.2 La linea argomentativa così sviluppata dalla Corte milanese risulta immune da qualsiasi caduta di consequenzialità logica, evidenziabile dal testo del provvedimento, mentre, in larga misura, il tentativo del ricorrente di prospettare una diversa ricostruzione del fatto si risolve, per l'appunto, nella prospettazione di una lettura soggettivamente orientata del materiale probatorio alternativa a quella fatta motivatamente propria dal giudice di merito nel tentativo di sollecitare quello di legittimità ad una rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o all'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei medesimi, che invece gli sono precluse ai sensi della lett. e dell'articolo 606 c.p.p 2. Il ricorso ha in particolare molto insistito sul fatto che la tesi accusatoria si sarebbe fondata sulla missiva dei 16 luglio 2003 e sulla sua capacità di dimostrare che l'U. aveva revocato il mandato conferito al P. per la c.d. pratica cognome . Poiché la prova della sua consegna e della sua stessa esistenza alla data indicata non sarebbe stata raggiunta in maniera inequivocabile e poiché lo stesso significato attribuito al suo contenuto non corrisponderebbe a quello effettivamente ricavabile dal suo testo, la tenuta del ragionamento probatorio seguito dalla Corte distrettuale in adesione alla suddetta tesi sarebbe irrimediabilmente compromessa. 2.1 In proposito va osservato come la presunta illogicità della mancata menzione della lettera nell'esposto inviato dalla persona offesa al Consiglio dell'Ordine di Monza non prova - come invece pretenderebbe il ricorrente - che la stessa all'epoca non fosse nemmeno stata scritta, mentre le doglianze che riguardano l'interpretazione della missiva equivalgono sostanzialmente alla deduzione del vizio di travisamento di una prova, che, per poter effettivamente essere apprezzata da questa Corte, avrebbe dovuto essere sostenuta attraverso l'allegazione del contenuto integrale del documento al fine di consentire di comprendere il contesto complessivo da cui sono estate estrapolate le frasi incriminate. Ed infatti la sentenza dimostra di aver interpretato le stesse alla luce del tenore complessivo della missiva e dunque il ricorrente non poteva esimersi dall'onere di completa indicazione del suo contenuto, il cui difetto rende irrimediabilmente generico il ricorso sul punto. 2.2 Che il P. - come pure sostenuto nel ricorso - abbia sospeso la pratica in attesa del pagamento delle sue spettanze e che per tale ragione non abbia presentato il ricorso è invece obiezione totalmente assertiva e che non trova fondamento, come preteso dal ricorrente, nella lettera del 3 aprile 2003 in cui viene richiesto all'U. semplicemente se è intenzionato a sostenere i costi dell'ulteriore corso della pratica per come si evince dallo stesso ricorso. 2.3 Quanto poi alla mancata valutazione del contenuto della sentenza del Tribunale Civile di Monza la doglianza è manifestamente infondata, atteso che l'utilizzabilità della sentenza pronunziata in altri procedimenti è limitato alla prova dei fatti in esse accertati e non della valutazione che degli stessi ha compiuto il giudice che l'ha pronunciata e comunque riguarda esclusivamente le sentenze irrevocabili pronunziate in altro procedimento penale e non anche quelle pronunziate in un procedimento civile, attese le evidenti e sostanziali asimmetrie in ordine alla valutazione della prova che caratterizzano i due diversi ordinamenti processuali Sez. 5, numero 14042 del 4 marzo 2013, Simona ed altri, Rv. 254981 . In tal senso è appena il caso di evidenziare come ciò di cui il ricorrente avrebbe inteso servirsi a fini di prova è proprio la valutazione compiuta nell'occasione dal Tribunale, nel mentre la sentenza invocata non è né penale, né definitiva. 2.4 Per le stesse ragioni è altresì manifestamente infondato anche il quinto motivo con cui si lamenta la mancata acquisizione nel primo grado di giudizio della sentenza numero 780/2011 del Tribunale civile di Monza, la cui produzione a fini probatori era inammissibile. 2.6 Sull'esatto significato del termine abbandonata contenuta nella missiva del 27 marzo 2007, quella prospettata dal ricorso è invece una mera interpretazione soggettiva che non tiene conto di come la sentenza abbia logicamente giustificato quello criticato dal fatto che l'U. avesse contestualmente richiesto la restituzione del fascicolo, circostanza sulla quale il ricorrente sorvola, non confrontandosi in tal senso con l'effettivo contenuto del discorso giustificativo e rivelando così l'aspecificità della censura. 2.7 Quanto, infine, alla vicenda relativa all'invio via fax del ritaglio di giornale contenente la notizia della sentenza del Consiglio di Stato, la Corte distrettuale in maniera non manifestamente illogica ha ritenuto che la stessa non possa costituire la prova, nemmeno indiretta, dell'avvenuto rilascio di un nuovo mandato, né è intrinsecamente illogica la versione del fatto fornita in proposito dall'U. e cioè che fu lo stesso P. a sollecitargli l'invio e valorizzata in sentenza, come apoditticamente sostenuto dal ricorrente. 3. In realtà l'intera impostazione del primo motivo di ricorso rivela la sua intrinseca genericità e latente contraddittorietà nella misura in cui il ricorrente ha omesso di correlarsi con l'effettivo percorso argomentativo seguito dai giudici d'appello e con il fatto che la sentenza impugnata, in definitiva, non considera decisiva la prova dell'esistenza originaria o della effettiva consegna all'imputato della missiva del 16 luglio 2003. 3.1 Ed infatti la Corte distrettuale - che pure ha dimostrato di credere sul punto alle dichiarazioni dell'U. e come si è visto non senza ragione - ha fondato, come si è visto, la sua decisione su ben altre premesse probatorie, partendo proprio dalla tesi propugnata dal P. nei suoi atti di citazione e secondo cui, anche qualora la lettera fosse stata realmente consegnata, invero la stessa non avrebbe assunto rilievo dirimente, giacché l'incarico per procedere dinanzi al giudice amministrativo avrebbe avuto il suo fondamento non già nell'originario mandato conferito nel 1998, bensì nel rilascio di una nuova e specifica procura ad litem nell'autunno del 2004. 3.2 Di questo nuovo incarico i giudici d'appello non hanno trovato prova alcuna - se si eccettuano le indimostrate affermazioni dell'imputato - potendo invece valorizzare le dichiarazioni negative rese sul punto dalle persone offese ed i riscontri di carattere logico alle medesime di cui si è detto in precedenza. Interpretazione questa coerente non solo all'evidenza disponibile, ma altresì al contenuto dell'imputazione, con la quale non è stato contestato al P. di aver semplicemente ecceduto nel suo mandato professionale, ma di aver riempito una vecchia procura rilasciata in bianco, comportamento la cui penale rilevanza prescinde dalla revoca o meno del mandato originario. 3.3 Dunque il ricorso, per l'ennesima volta, rivela un difetto di correlazione con l'effettivo contenuto della motivazione della sentenza, la quale aveva spostato il fulcro della dimostrazione dalla presunta revoca del mandato nel luglio del 2003 all'assoluta insussistenza dei presupposti per redigere il ricorso quale riscontro all'inesistenza di un nuovo mandato a tal fine rilasciato. 4. Infondate sono anche le censure svolte con il secondo motivo con cui viene contestata la tenuta delle premesse fattuali e giuridiche del ragionamento svolto dalla Corte distrettuale a conferma della attendibilità della versione fornita dalle persone offese sul ricorso al T.A.R 4.1 In proposito la sentenza impugnata ha evidenziato come il prefetto avesse imposto nel termine perentorio di novanta giorni - con decorso dal 20 marzo 2003 - l'integrazione della documentazione presentata a sostegno dell'istanza finalizzata ad aggiungere al cognome dei R. quello dell'U. . Termine che l'autorità amministrativa aveva espressamente imposto a pena di improcedibilità della stessa istanza, come correttamente dedotto dalla lettera inviata dal P. al suo assistito il 3 aprile 2003 circostanza questa non contestata ed anzi ribadita dal ricorrente . 4.2 Non è dubbio - né il ricorrente lo nega - che tale documentazione non venne tempestivamente consegnata e che conseguentemente l'istanza fosse divenuta improcedibile, come ritenuto dalla Corte distrettuale, sebbene attraverso l'improprio riferimento all'istituto dell'archiviazione, evocato all'evidenza al fine di cogliere l'essenza dell'effetto prodottosi più che per qualificare formalmente il comportamento dell'amministrazione talché le obiezioni sollevate sul punto dal ricorrente risultano del tutto irrilevanti ai fini della valutazione della tenuta dell'apparato giustificativo della sentenza . 4.3 A questo punto i giudici d'appello hanno tratto la conclusione che fosse manifestamente illogico anche solo ipotizzare la possibilità di un ricorso giurisdizionale nell'autunno del 2004, perfino qualora si fosse voluto qualificare il comportamento della pubblica amministrazione come silenzio-diniego. Conclusione questa che appare corretta nelle sue premesse giuridiche e che resiste alle obiezioni svolte dal ricorrente. Ed infatti va premesso che in realtà alcun silenzio-diniego si era formato, vuoi perché nella materia oggetto dell'istanza espressamente non è prevista l'operatività dell'istituto come invece necessario ai sensi dell'articolo 20 I. numero 241/1990 nel testo vigente all'epoca dei fatti , vuoi perché, come illustrato, in realtà l'istanza era divenuta improcedibile per la mancata integrazione della documentazione richiesta dalla prefettura. Situazione quest'ultima alla quale l'interessato poteva reagire interloquendo con l'amministrazione, ma per la quale non aveva certo accesso al rimedio giurisdizionale asseritamente concordato con il P. , tanto che il ricorso predisposto da quest'ultimo era espressamente rivolto ad impugnare proprio il silenzio-diniego. 4.4 Non di meno, anche a prescindere dall'oggetto dell'impugnazione e alle possibilità che questa venisse accolta nel merito, correttamente la sentenza ha ritenuto che, nel momento in cui l'imputato ha sostenuto gli sarebbe stato rilasciato il nuovo e specifico mandato, fossero abbondantemente e irrimediabilmente trascorsi i termini per la sua proposizione, talché è impensabile che il legale avesse effettivamente prospettato tale soluzione ai suoi clienti, a meno di non ipotizzare che egli avesse voluto frodarli al fine di lucrare il compenso per il suo invero inutile operato. Anche questa conclusione appare del tutto logica e coerente all'evidenza disponibile, né viene contraddetta dall'obiezione del ricorrente per cui in tal modo si sarebbe surrettiziamente dedotta la prova del fatto criminale imputato dall'irrilevante valutazione della validità tecnica della strategia con cui il P. ha eseguito il suo mandato professionale. Obiezione che invero dimentica come la valutazione sulle scelte del legale costituisce mero riscontro logico delle dichiarazioni delle persone offese e non prova diretta del fatto contestato. 4.5 La tenuta argomentativa della sentenza non viene compromessa nemmeno dall'ulteriore censura del ricorrente per cui in realtà i termini per l'esperimento del rimedio giurisdizionale non sarebbero invero già spirati al momento del rilascio della fantomatica procura ad litem, in quanto il ricorso verteva in tema di diritti personalissimi e dunque imperscrittibili. Sul punto basti evidenziare come il ricorso confonda l'imprescrittibilità del diritto con il rispetto dei termini processuali, categorie del tutto distinte ed autonome, giacché anche la tutela giurisdizionale del diritto imprescrittibile deve essere attivata, a pena di inammissibilità, nei tempi imposti dalla legge. 5. Alla luce di quanto osservato sino ad ora è dunque agevole rilevare l'infondatezza anche del quarto motivo di ricorso, atteso che la dedotta violazione del canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio poggia su premesse la cui erroneità o manifesta infondatezza già è stata evidenziata. Quanto invece alla questione eccepita con il terzo motivo della già intervenuta prescrizione del diritto al pagamento delle sue prestazioni professionali al momento in cui il P. agì nei confronti delle persone offese, deve concordarsi con il ricorrente circa l'inappropriata evocazione in sentenza degli articolo 2956 e 2957 c.c., senza che si sia tenuto conto delle differenze intercorrenti tra presunzione presuntiva e presunzione estintiva e comunque del fatto che alcuna delle due sia stata eccepita nel procedimento civile dalla parte convenuta. Ciò non toglie che la doglianza sia però inammissibile, atteso che il ricorso non è stato in grado di spiegare la decisività dell'argomentazione nell'economia del discorso giustificativo elaborato dalla Corte distrettuale e dunque per quale ragione la sua erroneità ne sovvertirebbe la tenuta, mentre appare evidente come il riferimento alla presunta prescrizione delle pretese sia stato effettuato meramente ad colorandum posto che il ragionamento probatorio svolto dai giudici d'appello fino a quel punto era di per sé sufficiente a sostenere le conclusioni assunte. 6. Infine del tutto inammissibile è il sesto ed ultimo motivo del ricorso, con il quale sostanzialmente si chiede di valutare per la prima volta in sede di legittimità prove dichiarative asseritamente provenienti da altri procedimenti se si eccettua l'interrogatorio dell'imputato e non già acquisite nei gradi di merito e pervero solo sommariamente indicate nell'atto di impugnazione, ma non allegate nella loro integralità allo stesso. 7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e l'imputato condannato al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili che liquida, per l'U. in Euro 1.500,00 e per le altre in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili nel grado, che liquida per l'U. in Euro 1.500,00 e per le altre parti civili in complessivi Euro 2.000,00, oltre accessori come per legge.