Liquidazione equitativa: integrativa, non sostitutiva di un danno non provato

Il giudice non può procedere alla liquidazione equitativa del danno ex articolo 1226 c.c. se la parte che vuole far valere il suo diritto in giudizio non provi la concreta esistenza del danno stesso, dimostrando il nesso causale tra la perdita subita ed il danno lamentato, anche se di impossibile o difficile quantificazione.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, con la sentenza numero 15478, depositata l’8 luglio 2014. Il caso. La parte attrice conveniva dinanzi al Tribunale il soggetto al quale aveva conferito l’incarico di prendere in locazione, in nome e per conto della mandante, alcuni locali che essa intendeva adibire ad esercizio commerciale. Il mandatario non solo non aveva adempiuto al mandato, ma anzi aveva stipulato contratto di locazione nel proprio interesse, destinando l’immobile preso in locazione ad un’attività commerciale del tutto identica a quella che avrebbe voluto esercitare la mandataria. La parte attrice chiedeva, pertanto, al Tribunale la condanna del convenuto al risarcimento del danno, consistito nella perdita dei proventi dell’attività commerciale che non poté avviare. Sia in primo grado che in appello, i giudici ritenevano sussistente la responsabilità del convenuto, ma non provato il danno lamentato dall’attrice. Avverso la sentenza della Corte d’appello la mandante proponeva ricorso in Cassazione. Valutazione equitativa del danno. Nell’analizzare la domanda, la Cassazione realizza un’esegesi storico-normativa dell’articolo 1226 c.c. e del concetto di liquidazione equitativa del danno. Ai sensi dell’articolo 1226 c.c. valutazione equitativa del danno «se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa». La liquidazione equitativa del danno ha natura sussidiaria, integrativa, non sostitutiva, poiché presuppone comunque l’esistenza di un danno oggettivamente accertato. Danni comuni e danni propri. Il problema dei danni di impossibile o difficile stima veniva, in passato, risolto dalla prassi attraverso la distinzione tra danni comuni e danni propri. Si definiva «danno comune» quello ordinariamente derivante da un fatto illecito o da un inadempimento di un certo tipo, secondo l’id quod plerumque accidit il «danno proprio» era invece definito come quel pregiudizio non generalizzabile, patito da quel singolo danneggiato in conseguenza di quel singolo fatto illecito. Da questa distinzione era derivata, tuttavia, la cattiva abitudine del giudice di merito che, qualificando come «danno comune» un determinato pregiudizio, liquidava in assenza di prova danni la cui esistenza stessa, e non solo il cui ammontare, era eventuale, ipotetica e supposta. Per ovviare a questo inconveniente, il legislatore del ’42 ha introdotto nel nostro ordinamneto l’attuale articolo 1226 c.c Danno certo. Primo e indefettibile presupposto per il ricorso alla liquidazione equitativa è la dimostrata esistenza di un danno certo, e non soltanto eventuale o ipotetico. E’ dunque evidente che è consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, di un effettivo pregiudizio Cass., Sez. I, numero 7896/02 Cass., Sez. III, numero 3977/82 Cass., Sez., numero 1536/62 . Equità integrativa. Il secondo presupposto per l’applicazione dell’articolo 1226 c.c. è dato dall’impossibilità o rilevante difficoltà nella stima esatta del danno, che deve essere oggettiva, cioè positivamente riscontrata e non meramente supposta, e incolpevole, ossia non dipendente dall’inerzia della parte gravata dall’onere della prova. La liquidazione equitativa del danno costituisce infatti un rimedio fondato sull’equità cd. «integrativa» o «suppletiva», che non si sostituisce alla norma di diritto nel caso concreto, ma che completa la norma giuridica. L’equità integrativa costituisce uno strumento di equo contemperamento degli interessi delle parti nei casi dubbi. Danno non provato nel caso di specie. Seguendo il ragionamento della Cassazione, affinché fosse rispettato il principio di sussidiarietà della liquidazione equitativa, l’attrice nei gradi di merito avrebbe dovuto provare in primo luogo l’esistenza oggettiva di un danno risarcibile. Nel caso di specie non era possibile per il giudice di merito procedere alla liquidazione equitativa ex articolo 1226 c.c., posto che dal fatto noto della perduta possibilità di avviare un esercizio commerciale non può risalirsi ex se al fatto ignorato dell’esistenza di un danno da lucro cessante coincidente, come voleva dimostrare la ricorrente, con il volume di affari dell’esercizio commerciale gestito dal mandatario. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 18 marzo – 8 luglio 2014, numero 15478 Presidente Chiarini – Relatore Rossetti Svolgimento del processo 1. Nel 1993 la sig.a M.L. convenne dinanzi al Tribunale di Modena il sig. R.C. , esponendo che - aveva conferito al convenuto l'incarico di prendere in locazione, in nome e per conto della mandante, alcuni locali che essa intendeva adibire ad esercizio commerciale - il mandatario non solo non aveva adempiuto il mandato, ma anzi aveva stipulato il contratto di locazione nel proprio interesse, destinando l'immobile preso in locazione ad un'attività commerciale del tutto identica a quella che avrebbe voluto esercitare la mandataria. Concluse pertanto chiedendo la condanna del convenuto al risarcimento del danno, consistito nella perdita dei proventi dell'attività commerciale che non poté avviare. 2. Il Tribunale di Modena con sentenza 17.1.2002 numero 50 ritenne sussistente la responsabilità del convenuto, ma non provato il danno lamentato dall'attrice. La sentenza, impugnata dalla soccombente, venne confermata dalla Corte d'appello di Bologna con sentenza 17.4.2007 numero 545. La Corte d'appello ritenne non provata l'esistenza d'un nesso di causalità diretta tra il mancato presumibile aumento del volume d'affari dell'appellante, quale conseguenza dell'ampliamento dell'attività, ed il volume di affari della nuova ditta, influenzato da molteplici fattori forza lavoro, pubblicità, capitale impiegato sganciata dalla violazione del dovere di diligenza del mandatario. 3. Tale sentenza è stata impugnata per cassazione dalla sig.a M.L. , sulla base di tre motivi. Il sig. R.C. non si è difeso in questa sede. Motivi della decisione 1. Questione preliminare. 1.1. Deve preliminarmente rilevarsi come il ricorso, dopo avere indicato nell'epigrafe il giudice adito e le generalità delle parti, prosegue esponendo direttamente i motivi di doglianza, senza nessuna parte preliminare dedicata alla illustrazione dei fatti di causa. Questi, ultimi, tuttavia, sono chiaramente desumibili dalla illustrazione dei motivi stessi e tanto basta per escludere l'inammissibilità del ricorso per violazione dell'articolo 366. numero 3, c.p.c., in base al risalente principio secondo cui ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione non occorre che l'esposizione sommaria dei fatti di causa costituisca parte a sé stante del ricorso, essendo sufficiente che essa risulti, in maniera chiara dal contesto dell'atto, attraverso lo svolgimento dei motivi Sez. 3, Sentenza numero 3087 del 08/11/1962, Rv. 254561 Sez. 1, Sentenza numero 1526 del 16/06/1962, Rv. 252436 Sez. 3, Sentenza numero 16315 del 24/07/2007, Rv. 598452 Sez. U, Sentenza numero 11653 del 18/05/2006, Rv. 588770 Sez. 1, Sentenza numero 4403 del 28/02/2006, Rv. 587592 Sez. 1, Sentenza numero 16360 del 20/08/2004, Rv. 577244 Sez. L, Sentenza numero 7392 del 19/04/2004, Rv. 572162 . 2. Il primo motivo di ricorso. 2.1. Col primo motivo di ricorso la sig.a M.L. lamenta formalmente che la sentenza sia affetta da vizio di motivazione, ai sensi dell'articolo 360, numero 5, c.p.c Nella illustrazione del motivo, tuttavia, si formulano due distinte doglianze. Con una prima doglianza pp. 2-6 del ricorso si assume che la Corte d'appello avrebbe rigettato la domanda della sig.a M.L. con motivazione a omessa, perché il giudice d'appello si è limitato a rinviare alla motivazione insufficiente e contraddittoria adottata sul punto dal giudice di secondo grado b contraddittoria, perché il giudice d'appello ha da un lato rigettato le istanze istruttorie formulate dalla danneggiata ordine di esibizione ex articolo 210 c.p.c. delle scritture contabili dell'attività commerciale avviata dal convenuto nei locali che l'attrice intendeva, al suo posto, acquisire, e consulenza tecnica d'ufficio , e dall'altro ritenuto la domanda non provata. Con una seconda doglianza p. 6-7 del ricorso la sig.a M.L. assume che la Corte d'appello, pur in assenza di prova del danno, avrebbe comunque potuto procedere alla liquidazione equitativa ex articolo 1226 c.c. del lucro cessante. 2.2. Il motivo è inammissibile per la totale omissione sia della chiara indicazione del fatto controverso con riferimento al profilo sub a e b , sia del quesito di diritto con riferimento alla seconda doglianza , l'una e l'altro prescritti dall'articolo 366 bis c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis al presente giudizio. 3. Il secondo motivo di ricorso. 3.1. Col secondo motivo di ricorso la sig.a M.L. lamenta che la sentenza impugnata è affetta da violazione di legge, ai sensi dell'articolo 360, numero 3, c.p.c Espone, al riguardo, che la Corte d'appello avrebbe errato nel ritenere non provata la domanda, senza però ammettere le prove richieste all'uopo dall'appellante comunque senza ricorrere alla liquidazione equitativa ex articolo 1226 c.c Si tratta, in sostanza, delle medesime doglianze contenute nel primo motivo di ricorso, ma questa volta prospettate sotto il profilo della violazione di legge. 3.2. Il primo profilo del secondo motivo di ricorso è palesemente inammissibile, per due ragioni a sia perché propone un tipico caso di motivazione contraddittoria rigettare le prove e ritenere la domanda non provata , senza che sia formulata la chiara indicazione del fatto controverso di cui all'articolo 366 bis c.p.c. b sia perché non vengono trascritte le istanze istruttorie della cui mancata ammissione la ricorrente si duole, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione in tal senso, ex multis, Sez. 6 - L, Ordinanza numero 17915 del 30/07/2010, Rv. 614538 Sez. 3, Sentenza numero 18506 del 25/08/2006, Rv. 591899 Sez. 3, Sentenza numero 13556 del 12/06/2006, Rv. 590656 . 3.2. Il secondo profilo del secondo motivo di ricorso è infondato. L'articolo 1226 c.c. rubricato Valutazione equitativa del danno stabilisce che se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa . È opinione costante, comune e risalente della giurisprudenza e della dottrina che questa previsione abbia natura sussidiaria e non sostitutiva. La liquidazione equitativa del danno ha natura sussidiaria, perché presuppone l'esistenza d'un danno oggettivamente accertato. Essa attribuisce al giudice di merito non già un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l'ammontare del danno. La liquidazione equitativa ha, poi, natura non sostitutiva, perché ad essa non può farsi ricorso per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse tanto colpevoli quanto incolpevoli, sopperendo in quest'ultimo caso il rimedio della rimessione in termini, e non della liquidazione equitativa . 3.2.1. La natura integrativa dell'articolo 1226 c.c. emerge dalla sua genesi storica. Il codice civile del 1865 non conteneva alcuna norma analoga al vigente articolo 1226 c.c Nondimeno anche nella vigenza del primo codice postunitario la dottrina e la giurisprudenza avevano dovuto affrontare il problema dei danni di impossibile o difficile stima. Questo problema era stato risolto dalla prassi attraverso con la distinzione tra danni comuni e danni propri. Si definiva danno comune quello ordinariamente derivante da un fatto illecito o da un inadempimento di un certo tipo, secondo l'id quod plerumque accidit ad esempio, l'indisponibilità dell'immobile nel caso di ritardata restituzione da parte del conduttore danno proprio era invece definito il pregiudizio non generalizzabile, patito da quel singolo danneggiato in conseguenza di quel singolo fatto illecito od inadempimento . Da tale distinzione si faceva discendere il corollario che il danno proprio dovesse essere sempre dimostrato in modo rigoroso sulla base di una prova piena il danno comune invece potesse essere liquidato sulla base anche solo di un principio di prova della sua esistenza, in deroga al tradizionale principio della certezza del danno a posse ad esse non valet consequentia . La distinzione con l'andar del tempo si trasformò in massima tralatizia e di applicazione automatica, finendo per produrre vari inconvenienti. Il più grave di questi era che il giudice di merito, qualificando come danno comune un determinato pregiudizio, liquidava in assenza di prova danni la cui esistenza stessa, e non solo il cui ammontare, erano eventuali, ipotetici, supposti, immaginati. La dottrina dell'epoca cita sovente, al riguardo, il caso del notaio condannato a risarcire il danno asseritamente patito dal creditore in conseguenza della mancata iscrizione d'un atto costitutivo dell'ipoteca sull'immobile del debitore, in un caso in cui quel bene era già gravato da iscrizioni ipotecarie tali da assorbirne l'intero valore. Per rimediare a questo stato di cose, il codice del 1942 introdusse l'attuale articolo 1226 c.c. corrispondente all'articolo 56 del progetto del Libro delle I obbligazioni , approvato con r.d. 30.1.1941-XIX , con il quale si volle a da un lato, accordare espressamente al giudice il potere di liquidazione equitativa del danno nel caso di impossibilità di una esatta stima di esso b dall'altro, consentire tale potere solo nei casi in cui l'esistenza del danno fosse indiscutibile, e discutibile fosse solo il suo ammontare. Questi principi sono chiaramente espressi nella relazione ministeriale al libro delle obbligazioni, ove sì afferma ore rotundo che la liquidazione equitativa è consentita dall'articolo 1226 c.c. solo per il danno di cui è sicura l'esistenza Relazione ministeriale alla maestà del Re Imperatore, Cap. XV, p. 38, in fine . La genesi dell'articolo 1226 e.e. svela dunque che primo ed indefettibile presupposto per il ricorso alla liquidazione equitativa è la dimostrata esistenza d'un danno certo, e non soltanto eventuale od ipotetico. La conclusione appena esposta è confermata dalla sintassi dell'articolo 1226 c.c La norma è infatti costruita come un periodo ipotetico dell'eventualità, nel quale la protasi è l'impossibilità di provare il danno, e l'apodosi il ricorso al potere equitativo del giudice. È dunque evidente che in tanto è consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l'esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d'un effettivo pregiudizio. È l'impossibilità di quantificare un danno certamente esistente che rende possibile il ricorso alla stima equitativa. Se, invece, è l'esistenza stessa d'un pregiudizio economico ad essere incerta, eventuale, possibile ma non probabile, spazio non v'è alcuno per l'invocabilità dell'articolo 1226 c.c Questo principio costituisce da oltre cinquant'anni jus receptum nella giurisprudenza di legittimità a partire da, Sez. 3, Sentenza numero 1536 del 19/06/1962, secondo cui la valutazione equitativa del danno presuppone che questo, pur non potendo essere provato nel suo preciso ammontare, sia certo nella sua esistenza ontologica nello stesso senso, ex plurimis, Sez. 2, Sentenza numero 838 del 03/04/1963 Sez. 3, Sentenza numero 1327 del 22/05/1963 Sez. 2, Sentenza numero 2125 del 16/10/1965 Sez. 3, Sentenza numero 1964 del 25/07/1967 Sez. 2, Sentenza numero 181 del 22/01/1974 Sez. 1, Sentenza numero 3418 del 23/10/1968 Sez. 3, Sentenza numero 3977 del 03/07/1982 Sez. 1, Sentenza numero 7896 del 30/05/2002 . Ne consegue che in tanto il giudice di merito può avvalersi del potere equitativo di liquidazione del danno, in quanto abbia previamente accertato che un danno esista, indicando le ragioni del proprio convincimento. 3.2.2. Il secondo presupposto per l'applicazione dell'articolo 1226 c.c. è che l'impossibilità o la rilevante difficoltà nella stima esatta del danno sia a oggettiva, cioè positivamente riscontrata e non meramente supposta b incolpevole, cioè non dipendente dall'inerzia della parte gravata dall'onere della prova. La liquidazione equitativa del danno costituisce infatti un rimedio fondato sull'equità c.d. integrativa o suppletiva l'equità, cioè, intesa non quale principio che si sostituisce alla norma di diritto nel caso concreto, ma quale principio che completa la norma giuridica. L'equità integrativa costituisce, per l'opinione unanime della dottrina, uno strumento di equo contemperamento degli interessi delle parti, nei casi dubbi. Se dunque l'equità integrativa ha lo scopo di contemperare i contrapposti interessi, è evidente che essa fallirebbe del tutto il suo scopo, se vi si potesse fare ricorso anche quando la stima del danno sia non impossibile, ma soltanto difficile ovvero quando la stima del danno non siasi potuta compiere per la pigrizia od il mal talento delle parti o dei loro procuratori. In simili casi, infatti, non vi sono contrapposti interessi da contemperare, tutti egualmente meritevoli di tutela al contemperamento degli interessi si sostituisce qui l'applicazione rigorosa del principio di autoresponsabilità, in virtù del quale ciascuno deve subire le conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni. Qualsiasi diversa interpretazione dell'articolo 1226 c.c. si porrebbe, a tacer d'altro, in contrasto col precetto costituzionale che garantisce la parità delle parti e la terzietà del giudice articolo 111 cost. sulla impossibilità che la liquidazione equitativa possa essere utilizzata per colmare lacune istruttorie imputabili alle parti si vedano, ex permultis, Sez. 1, Sentenza numero 10850 del 10/07/2003 Sez. 3, Sentenza numero 6056 del 16/06/1990 Sez. 3, Sentenza numero 3176 del 16/12/1963 . 3.3. Questi principi sono stati correttamente applicati nel caso di specie. Affinché fosse rispettato il principio di sussidiarietà della liquidazione equitativa, l'attrice nei gradi di merito avrebbe dovuto provare in primo luogo l'esistenza oggettiva d'un danno risarcibile. Il danno risarcibile, secondo la sentenza impugnata, applicativa dei suesposti principi, non si identifica con la perdita d'un bene o d'una attività, ma richiede la dimostrazione del nesso causale tra la perdita ed il danno lamentato, anche se di impossibile o difficile quantificazione. Nel caso di specie non era dunque consentito al giudice di merito procedere alla liquidazione equitativa ex articolo 1226 c.c., posto che dal fatto noto della perduta possibilità di avviare un esercizio commerciale non può risalirsi ex se al fatto ignorato dell'esistenza d'un danno da lucro cessante coincidente, come voleva dimostrare la ricorrente, con il volume di affari dell'esercizio commerciale gestito dal R. , per le ragioni esposte dalla Corte di merito, e neppure impugnate. Affinché, poi, fosse rispettato il principio di non sostitutività della liquidazione equitativa è necessario che l'impossibilità di liquidazione del danno nel suo esatto ammontare dipenda da impossibilità oggettiva e non da negligenza della parte. Nel caso di specie tuttavia la ricorrente lamenta la mancata ammissione di due sole istanze istruttorie a l'ordine di esibizione delle scritture contabili del convenuto, ex articolo 210 c.p.c. b l'istanza di consulenza tecnica d'ufficio. E tuttavia quanto alla prima istanza v'è da osservare che l’actio ad exhibendum di cui all'articolo 210 c.p.c. è ammessa solo con riferimento ai documenti che abbiano una originaria destinazione probatoria comune alle j parti, e tali non sono le scritture contabili del convenuto, le quali – al massimo - potevano formare oggetto di istanza ex articolo 2711 c.c. e peraltro, per le ragioni espresse nella sentenza di appello e non impugnate, inidonee a dimostrare il lucro cessante della danneggiata . Quanto all'istanza di c.t.u., v'è invece da osservare che tale strumento non può essere mai utilizzato per finalità esplorative, quando cioè la parte interessata non abbia allegato nessun elemento suscettivo di valutazione tecnica volume di affari di esercizi commerciali similari da raffrontare con l’esercizio commerciale gestito e che avrebbe potuto gestire, etc. . Il secondo motivo di ricorso deve pertanto essere rigettato. 4. Il terzo motivo di ricorso. 4.1. Col terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione dell'articolo 91 c.p.c Si duole, al riguardo, del fatto che la Corte d'appello abbia posto a suo carico le spese del secondo grado di giudizio, nonostante abbia rigettato anche l'appello incidentale. 4.2. Il motivo è manifestamente infondato. A prescindere dal rilievo che la scelta di compensare o non compensare le spese di lite è frutto di una vantazione riservata al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, nel caso di specie la soccombenza dell'appellante principale è stata comunque prevalente. 5. Le spese. Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio dell'intimato. P.Q.M. la Corte di cassazione rigetta il ricorso.