La Corte Costituzionale con la sentenza numero 98 del 16 aprile 2014, decidendo delle questioni sollevate da 6 ordinanze di alcune Commissioni tributarie provinciali, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 17-bis del d.lgs. 31 dicembre 1992, numero 546 e, cioè, delle norme del processo tributario con il quale il legislatore aveva introdotto nella disciplina del processo tributario gli istituti del reclamo e della mediazione nella parte in cui prevede l’inammissibilità del ricorso alle commissioni tributarie non preceduto dalla presentazione del reclamo all’Agenzia delle entrate.
Con questa sentenza la Corte conferma ancora una volta i più che consolidati principi secondo i quali il legislatore può prevedere meccanismi condizionanti l’accesso alla giustizia laddove questi realizzino finalità di interesse generale come, ad esempio, la deflazione del contenzioso. Per realizzare l’obiettivo, però, il legislatore – oltre a rispettare alcune limitazioni – non può prevedere che la mancata attivazione del meccanismo deflattivo abbia come effetto quello di determinare l’improcedibilità della domanda giudiziaria. Al vaglio della Consulta solo la versione originaria. Ma vediamo qual è stata l’occasione che ha portato la Corte Costituzionale ad emettere la pronuncia in esame. Orbene, l’oggetto del giudizio di costituzionalità è stata la versione originaria dell’articolo 17 bis secondo il quale, con riferimento agli atti suscettibili di reclamo notificati a decorrere dal 1° aprile 2012, per le controversie «relative ad atti emessi dall’Agenzia delle entrate» e «di valore non superiore a ventimila euro», chi intende proporre ricorso alla commissione tributaria provinciale «è tenuto preliminarmente a presentare reclamo» alla Direzione provinciale o alla Direzione regionale che ha emanato l’atto, «le quali provvedono attraverso apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili» a pena di inammissibilità del ricorso rilevabile in ogni stato e grado del giudizio. La parte reclamante, inoltre, deve inserire nell’atto di reclamo una “proposta di mediazione” e, cioè, prospettare quali sarebbero le condizioni alle quali raggiungerebbe un accordo con l’Agenzia delle entrate. Ed infatti, come la stessa Corte ha avuto modo di precisare, la norma impugnata è stata successivamente modificata dalla legge 27 dicembre 2013, numero 147 che ha previsto, con riferimento agli atti notificati a decorrere dal 2 marzo 2014, che a la presentazione del reclamo non è più, come nel testo previgente, una condizione di ammissibilità del ricorso, ma costituisce una condizione di procedibilità dello stesso b l’improcedibilità del ricorso depositato prima del decorso del termine di novanta giorni previsto dal comma 9 è rilevabile solo su eccezione dell’Agenzia delle entrate in sede di rituale costituzione in giudizio c la sospensione della riscossione e dell’obbligo di pagamento delle somme dovute in base all’atto oggetto di reclamo in pendenza della relativa procedura. Una modifica che, da un lato, non si applica ratione temporis alle situazioni oggetto delle varie questioni di costituzionalità e, dall’altro lato, incide profondamente sulla normativa precedente poiché appare chiaramente diretta a elidere o, comunque, ad attenuare, gli indicati profili di censura prospettati nelle ordinanze di rimessione. Le censura di costituzionalità. Orbene, secondo i giudici a quibus la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli articolo 3, 24 e 25 Cost., perché a utilizza l’«istituto della mediazione in modo erroneo ed illogico» o «controvertibile» in quanto a.1. in contrasto con l’articolo 3, lettera a , della direttiva 21 maggio 2008, numero 2008/52/CE il quanto affiderebbe il ruolo di mediatore, «in sostanza», a una delle parti della controversia la Direzione provinciale o la Direzione regionale che ha emanato l’atto a.2. configura la mediazione «di fatto, [] obbligatoria e come tale, in materia civile, già dichiarata incostituzionale, anche se per diversa ragione eccesso di delega », dalla Corte costituzionale, con la sentenza numero 272 del 2012 b comporta una incongruenza tra termini previsti per il reclamo e la mediazione e l’esecutività degli atti oggetto di reclamo e mediazione perché durante la fase amministrativa il contribuente non può chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto risultando così costretto a pagare gli importi indicati nell’avviso di accertamento, divenuto, nel frattempo, esecutivo. Inoltre, secondo le Commissioni tributarie provinciali di Perugia e di Ravenna, l’articolo 17-bis violerebbe l’articolo 3 Cost. anche perché, irragionevolmente, assicurerebbe una maggiore tutela giurisdizionale consistente, in particolare, nella possibilità di adire immediatamente il giudice tributario e di chiedere la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato a ai contribuenti che sono parti di controversie relative a tributi di pertinenza di soggetti impositori diversi dall’Agenzia delle entrate rispetto a quelli che sono parti di controversie relative a tributi di pertinenza di tale Agenzia b ai contribuenti che potrebbero essere debitori dell’Agenzia delle entrate per un importo superiore a ventimila euro rispetto a quelli che potrebbero esserlo per un importo non superiore a tale cifra. Ed ancora, secondo la Commissione tributaria provinciale di Campobasso l’articolo 17-bis, stabilendo, quale conseguenza dell’inosservanza dell’obbligo della previa presentazione del reclamo da esso previsto, l’inammissibilità del ricorso, violerebbe sia l’articolo 24 Cost. perché tale conseguenza diversamente dall’improcedibilità del ricorso sacrifica eccessivamente il diritto di agire in giudizio, comportandone la perdita definitiva, sia l’articolo 3 Cost. e l’articolo 113 Cost. in relazione al divieto di limitare la tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione per determinate categorie di atti , perché esistono già altri «preventivi istituti deflattivi quali l’autotutela, l’obbligo del preventivo contraddittorio, l’accertamento con adesione », non sono ravvisabili quelle «esigenze di ordine generale e superiori finalità di giustizia» idonee a giustificare, in base alla giurisprudenza costituzionale, l’imposizione dell’obbligo preliminare di presentazione del reclamo, il quale costituisce, perciò, «solo un rilevante aggravio del procedimento». Legittimità dei condizionamenti alla giustizia Orbene, secondo la Corte Costituzionale il reclamo e la mediazione tributaria favoriscono la definizione delle controversie nella fase pregiurisdizionale introdotta con il reclamo e, quindi, «tendono a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice aspetto da un lato, assicurando un più pronto e meno dispendioso rispetto alla durata e ai costi della procedura giurisdizionale soddisfacimento delle situazioni sostanziali oggetto di dette controversie, con vantaggio sia per il contribuente che per l’amministrazione finanziaria dall’altro, riducendo il numero dei processi di cui sono investite le commissioni tributarie e, conseguentemente, assicurando il contenimento dei tempi e un più attento esame di quelli residui che, nell’àmbito di quelli promossi nei confronti dell’Agenzia delle entrate, comportano le più rilevanti conseguenze finanziarie per le parti ». Ne deriva che gli istituti introdotti dal legislatore, lungi dall’essere un inutile aggravio di tempo e denaro, si pongono perfettamente in linea con la consolidata giurisprudenza costituzionale in materia di condizionamento dell’accesso alla giustizia e poco importa che esistono altri istituti deflattivi del contenzioso. e il divieto dell’inammissibilità dell’azione. Senonché, secondo la Corte Costituzionale vi è rectius vi era prima della modifica prima ricordata un aspetto della normativa che si pone in contrasto con la Costituzione e, cioè, la sanzione dell’inammissibilità del ricorso per la mancata presentazione del reclamo, nonché la rilevabilità d’ufficio di tale inammissibilità in ogni stato e grado del giudizio prevista dal comma 2 dell’articolo 17-bis. Ed infatti, secondo la giurisprudenza pacifica della Consulta il legislatore «è sempre tenuto ad osservare il limite imposto dall’esigenza di non rendere la tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa» e «deve contenere l’onere nella misura meno gravosa possibile» operando un «congruo bilanciamento» tra l’esigenza di assicurare la tutela dei diritti e le altre esigenze che il differimento dell’accesso alla stessa intende perseguire è quindi, illegittima, per violazione dell’articolo 24 Cost., ogni disposizione come quella in esame che commina la sanzione della decadenza dall’azione giudiziaria in conseguenza del mancato previo esperimento di rimedi di carattere amministrativo come il reclamo . La mediazione tributaria non è la mediazione civile. Vi è poi un importante passaggio della sentenza che deve essere segnalato. Ed infatti, poiché alcune ordinanze avevano ritenuto che la disciplina della mediazione tributaria si ponesse in contrasto con la disciplina della mediazione civile sic! , la Corte Costituzionale elimina, correttamente ed opportunamente, ogni dubbio la mediazione tributaria – a dispetto del nome – non è una forma di mediazione. Del resto, osserva la Consulta, la mediazione disciplinata dall’articolo 17-bis, sia che venga proposta nel reclamo sia che venga proposta d’ufficio, si svolge solo tra il contribuente e l’Agenzia delle entrate, cioè tra le parti del rapporto d’imposta, senza l’intervento di alcun terzo nel ruolo di mediatore rendendo impossibile ricondurre l’istituto all’àmbito mediatorio propriamente inteso. La mediazione tributaria, quindi, “costituisce una forma di composizione pregiurisdizionale delle controversie basata sull’intesa raggiunta, fuori e prima del processo, dalle stesse parti senza l’ausilio di terzi , che agiscono, quindi, su un piano di parità” ne deriva che non è possibile che “tale procedimento conciliativo preprocessuale, il cui esito positivo è rimesso anche al consenso dello stesso contribuente, possa violare il suo diritto di difesa o il principio di ragionevolezza o, tanto meno, il diritto a non essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Né, del resto, viola il diritto di difesa del contribuente la previsione secondo la quale il ricorrente deve indicare nel reclamo i «motivi» e l’«oggetto della domanda» senza che possa, poi, modificarli in sede di eventuale successivo ricorso giurisdizionale. Ed infatti, non è soltanto il contribuente che non può mutare la propria difesa con l’ovvia eccezione di ogni integrazione «resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti a opera delle altre parti o per ordine della commissione» ma anche l’Agenzia non può poi avanzare una pretesa che, ancorché inferiore rispetto a quella iniziale, sia diversamente motivata o fondata su nuovi presupposti. Illegittimo non consentire ricorsi cumulativi. Da ultimo, la Corte censura la disciplina impugnata nella parte in cui, nel caso in cui debbano essere impugnati, entro lo stesso termine, più provvedimenti tra loro connessi, imponendo il reclamo con riferimento soltanto ad alcuni di essi avrebbe come effetto una “evidente complicazione processuale” la diversità del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente, con conseguente rischio di inammissibilità del ricorso, avrebbe indotto il contribuente a presentare distinti ricorsi con conseguente vanificazione dei benefici processuali derivanti dalla presentazione di un ricorso cumulativo. Effetti della decisione sulla mediazione civile. A scanso di possibili equivoci è bene sottolineare ancora una volta che l’oggetto della sentenza della Corte Costituzionale ha avuto ad oggetto il reclamo e la mediazione tributaria ove il termine mediazione tributaria nulla ha a che vedere con la mediazione civile dal momento che, a tacere d’altro, manca un terzo che facilita il dialogo tra le parti. Ciò nonostante la sentenza della Corte Costituzionale contiene, ancora una volta, l’indicazione della necessità di rispettare un principio che la disciplina della mediazione civile come istituto condizionante l’accesso alla giustizia rispetta pianamente ed infatti, il mancato espletamento del tentativo di mediazione non comporta l’inammissibilità della domanda, ma soltanto l’improcedibilità della stessa, peraltro, dopo che il giudice ha invitato le parti a sanare l’omissione come previsto dall’articolo 5 d.lgs. numero 28/2010.