“Pappona”, l’epiteto è offensivo anche in un contesto televisivo satirico

Confermato il risarcimento, quantificato in 30mila euro, in favore di una donna, additata come “pappona” in due trasmissioni di un programma televisivo satirico. Evidente il carattere dispregiativo del termine. Evidenti i danni arrecati alla donna.

Definire “pappona” una persona vale una condanna per diffamazione. Irrilevante il contesto satirico in cui la frase incriminata è stata pronunciata. Evidente il danno, soprattutto in ambito lavorativo, arrecato alla donna, che ora vede sancito in via definitiva il proprio diritto a vedersi risarcita con 30mila euro. Cassazione, ordinanza numero 23980/19, sez. III Civile, depositata il 26 settembre . Volgarità. Riflettori puntati su ben due trasmissioni di un programma televisivo satirico. In entrambi i casi una giornalista viene definita “pappona”. Inevitabile lo strascico giudiziario, con la società che realizza il programma sotto accusa per «il reato di diffamazione». Prima in Tribunale e poi in appello i Giudici ritengono evidente che la donna sia stata «vittima di diffamazione» e ne riconoscono il diritto ad ottenere un «risarcimento» su quest’ultimo fronte lei ha chiesto 300mila euro e i giudici le riconoscono 30mila euro. In particolare, i giudici di secondo grado respingono l’ipotesi difensiva finalizzata a catalogare gli episodi come esercizio del «diritto di satira». Ciò perché «l’impiego di espressioni gratuite e volgari “pappona” , non necessarie al contesto polemico-satirico in cui erano usate, si è tradotta in una forma di inaccettabile dileggio». Offesa. Per i Giudici della Corte d’Appello vi è una «enorme differenza tra ironia e insulto libero», e in questo caso additare una donna come “pappona” non ha nulla di ironico. Identica posizione assume la Cassazione, che osserva come la società non abbia portato alcun elemento per dimostrare che «l’espressione» incriminata «si collocasse in un contesto di inverosimiglianza, paradosso o metafora surreale, che valesse a sminuirne l’oggettiva portata offensiva». Confermata anche la cifra del risarcimento stabilita in appello. Per i Giudici della Cassazione, difatti, la parte offesa ha dato prova del «grave nocumento arrecatole dalla vicenda per essere stata esposta al pubblico ludibrio» e «per essere stata presentata come portatrice di una doppia morale, con conseguente imbarazzo tra i colleghi di lavoro che avevano manifestato stupore e chiesto chiarimenti».

Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 29 maggio – 26 settembre 2019, numero 23980 Presidente Amendola – Relatore Sestini Rilevato che il Tribunale di Roma condannò la R.T.I. s.p.a. al risarcimento dei danni liquidati in 30.000,00 Euro in favore della giornalista Ma. La. Ro., che ritenne vittima di diffamazione in relazione a due trasmissioni del programma televisivo Striscia la Notizia in cui la stessa era stata definita pappona la Corte di Appello ha rigettato sia il gravame principale della R.T.I. escludendo che ricorresse l'esimente del diritto critica o di satira che quello incidentale della Ro. ritenendo congrua la liquidazione del danno effettuata dal primo giudice ha proposto ricorso per cassazione la Reti Televisive Italiane s.p.a., affidandosi a due motivi ha resistito la Ro. con controricorso entrambe le parti hanno depositato memoria. Considerato che col primo motivo che denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli articolo 51 c.p., 2043 c.c. e 21 Cost , la ricorrente assume che la Corte d'Appello ha «adottato un erroneo parametro legale di giudizio per verificare il superamento o meno dei limiti del diritto di critica e di satira», non avendo considerato se le espressioni usate fossero «talmente assurde da apparire a chiunque come inverosimili, enormi e quindi spiritose», così da lasciare intendere la loro valenza satirica e da essere percepite dal telespettatore come tali la Corte di merito ha escluso la possibilità di applicare l'esimente del diritto di satira rilevando che «l'impiego di espressioni gratuite e volgari pappona non necessarie al contesto polemico-satirico in cui erano usate [ ] si è tradotta in una forma di inaccettabile dileggio » e rimarcando come esista una «enorme differenza tra ironia e insulto libero» la censura -già di per sé inammissibile per essere volta a sollecitare un diverso apprezzamento di merito sulla valenza satirica e non meramente offensiva dell'espressione pappona - è infondata, non emergendo dall'illustrazione del motivo che l'espressione si collocasse in un contesto di inverosimiglianza, paradosso o metafora surreale che valesse a sminuirne l'oggettiva portata offensiva il secondo motivo denuncia la nullità della sentenza per violazione dell'articolo 112 c.p.c. sul rilievo che i danni liquidati alla Ro. «non erano stati allegati e, dunque, non potevano esser riconosciuti nel corso del giudizio» il motivo è infondato, in quanto la ricorrente erra nel sovrapporre il profilo dell'esistenza della domanda -pacificamente proposta per l'importo di 300.000,00 Euro -con quello dell'allegazione del danno che, tuttavia, non rileva in relazione all'articolo 112 c.p.c, ma sotto il diverso profilo della possibilità della liquidazione del danno non patrimoniale che, per poter essere apprezzato in via equitativa, necessita di una preventiva allegazione/descrizione peraltro, neppure in relazione al dedotto difetto di allegazione la censura coglie nel segno infatti, per quanto emerge dagli stessi stralci dell'atto di citazione trascritti in ricorso, la Ro. aveva adeguatamente allegato il «grave nocumento» derivatole dalla vicenda per essere stata «additata al pubblico ludibrio sull'erroneo presupposto di avere espresso convinzioni del tutto contrastanti con quelle da lei a più riprese manifestate» e per essere stata presentata come «portatrice di una doppia morale con conseguente imbarazzo tra tutti i colleghi di lavoro oltre che tra tutti coloro che avevano avuto occasione di ascoltare una sua precedente intervista che nei giorni successivi avevano «manifestato stupore e chiesto chiarimenti» si tratta, all'evidenza, di allegazioni che descrivevano efficacemente i pregiudizi derivati dagli episodi diffamatori e che ne consentivano pertanto una liquidazione equitativa le spese di lite seguono la soccombenza sussistono le condizioni per l'applicazione dell'articolo 13, comma 1 quater del D.P.R. numero 115/2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1-quater del D.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma I-bis dello stesso articolo 13.