Il lavoratore attende a far valere la nullità del termine: non basta a configurare la risoluzione per mutuo consenso

Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell'illegittima apposizione del termine ad una serie di contratti intervallati da periodi di inattività, é necessario, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, che sia accertata una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo.

A tal fine, non è sufficiente la mera inerzia del lavoratore a far valere i propri diritti dopo la scadenza del contratto. Lo afferma la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 17784, pubblicata il 22 luglio 2013. La vicenda domanda di accertamento di rapporto di lavoro a tempo indeterminato quale conseguenza della nullità della clausola di apposizione del termine apposta ai contratti di lavoro. Un dipendente di Poste Italiane agiva in giudizio al fine di veder accertata la nullità della clausola di apposizione del termine ad una serie di contratti di lavoro, con conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza dal primo contratto. Il tribunale del lavoro accoglieva la domanda. Proponeva appello Poste Italiane, ma la Corte territoriale respingeva il gravame. Ricorrevano così in Cassazione Poste Italiane per la riforma della pronuncia d’appello ed il lavoratore con ricorso incidentale in punto liquidazione spese di giudizio del grado di appello. Attendere nel promuovere il giudizio non equivale a mutuo consenso La mera inerzia del lavoratore nel dar vita al giudizio di nullità del termine non costituisce elemento sufficiente a far propendere per una volontà delle parti a risolvere il rapporto di lavoro per mutuo consenso. Affinchè si possa configurare tale volontà risolutiva è necessario che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo tenendo conto sia del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, sia di ulteriori eventuali circostanze significative a tal proposito. Dunque la semplice inerzia del lavoratore dopo la scadenza dell’ultimo contratto è insufficiente a sostenere la risoluzione per mutuo consenso. è il datore di lavoro che deve dare la prova di tale volontà consensuale. Sarà inoltre il datore di lavoro, che eccepisca in giudizio la risoluzione consensuale del rapporto, a dover fornire la prova certa e rigorosa di tale comune volontà, dimostrando le circostanze idonee a far ricavare la volontà chiara e certa delle parti di porre termine ad ogni rapporto. Privo di pregio dunque il motivo di censura proposto dall’Ente ricorrente. Secondo la Corte di legittimità, la decisione impugnata si pone in assoluta conformità ai principi più volte affermati sul punto dalla Corte di Cassazione. Leciti i contratti a termine soltanto fino al 30 aprile 1998. Con altro motivo di doglianza Poste Italiane sostiene la legittimità dei contratti a termine, in quanto espressamente previsti dalla Contrattazione collettiva. Osserva tuttavia la Suprema Corte che, se è pur vero che con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL del 26 novembre 1994, le parti hanno inteso riconoscere la sussistenza di una situazione straordinaria, cui far fronte con riassetti organizzativi aziendali e occupazionali, legittimando consensualmente la possibilità di avvalersi di contratti di lavoro a termine, tale facoltà era stata limitata temporalmente fino al 30 aprile 1998. E l’inosservanza del termine stabilito dalla contrattazione collettiva determina la nullità della clausola di apposizione del termine. Nel caso specifico, il primo contratto a termine venne stipulato nel novembre 1999, dopo lo spirare del termine fissato dagli accordi sopra citati con conseguente declaratoria di nullità del termine. Né può soccorrere il successivo accordo collettivo del 18 gennaio 2001 pur volendo ammettere che con tale accordo si sia voluto dare sanatoria a successive assunzioni a termine, viene a porsi oltre due anni dopo la scadenza del limite temporale originariamente fissato dalla contrattazione collettiva, quando ormai il diritto del ricorrente si era perfezionato e cristallizzato. I limiti minimi e massimi delle tariffe forensi allora in vigore non derogabili. Se il ricorso principale di Poste Italiane è stato ritenuto infondato, per i motivi analizzati, è stato invece accolto il ricorso incidentale del lavoratore in punto liquidazione spese legali del giudizio d’appello. La Corte territoriale aveva liquidato le spese del grado d’appello in misura inferiore a quanto previsto dalla tariffa professionale all’epoca vigente. Afferma la Suprema Corte che i limiti minimi e massimi delle tariffe sono inderogabili ed il giudice è tenuto ad attenersi a tali limiti nel procedere alla liquidazione delle spese di lite. Diversamente si configurerà un vizio in iudicando , ammissibile in sede legittimità, purchè il ricorrente specifichi nel ricorso i conteggi contestati e le corrispondenti voci di tariffa professionali violate, affinché la Corte possa effettuare il controllo di legittimità senza dover espletare un’inammissibile indagine sugli atti di causa. E nel caso in esame il controricorrente ha ben specificato i conteggi di spesa e le voci tariffarie violate.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 marzo - 22 luglio 2013, n. 17784 Presidente Lamorgese – Relatore Pagetta Svolgimento del processo Con sentenza pubblicata in data 19 giugno 2007, la Corte di appello di Milano confermava la decisione di primo grado che, accertata la esistenza tra Antonio Francesco T. e Poste Italiane S.p.A. di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato avente decorrenza dal 16 novembre 1999, aveva condannato la società datrice alla riammissione in servizio del lavoratore ed al pagamento della retribuzione dalla data di costituzione in mora 26.2.2003 , dedotte le somme percepite in virtù di altri rapporti di lavoro alle dipendenze di terzi Euro 4.787,46 . Poste Italiane S.p.A. era altresì condannata alle spese del grado liquidate in complessivi Euro 650,00 di cui come chiarito in motivazione Euro 300,00 per onorari e Euro 100,00 per esborsi e spese generali. Rilevava il giudice d'appello che le parti collettive, nell'esercizio della facoltà derogatoria di cui all'art. 23 L. n. 56 del 1987, con gli Accordi successivi al ceni 26.11.1994, avevano stabilito la possibilità di assunzione a termine fino al 30 aprile 1998 in conseguenza, la clausola del termine apposta al primo dei contratti in controversia, stipulato in epoca successiva al 30 aprile 1998, era nulla stante l'assenza di copertura derogatoria delle parti collettive. La Corte territoriale escludeva poi, ricordata la imprescrittibilità dell'azione di accertamento della nullità, che la mera inerzia del lavoratore attivatosi dopo circa quattro anni dalla scadenza del primo contratto e dopo circa tre anni dalla scadenza del secondo per rivendicare i propri diritti potesse significare disinteresse alla prosecuzione del rapporto. In questa prospettiva rilevava che configurandosi la comunicazione della cessazione del rapporto da parte di Poste mera dichiarazione di scienza la stessa non poteva neppure avere valenza di proposta di cessazione consensuale del rapporto alla quale - in ipotesi - si sarebbe potuta rivolgere la tacita accettazione del lavoratore. Rilevava infine che il primo giudice aveva scomputato dalle retribuzioni dovute a titolo risarcitorio l’ aliquid perceptum per come emergente dagli atti, non risultando in modo alcuno la percezione di altri importi. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Poste Italiane S.p.A. sulla base di sei motivi. L'intimato ha depositato controricorso con ricorso incidentale affidato ad un unico motivo. La società Poste ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale nonché memoria ai sensi dell'art. 378 cod. proc. civ Motivi della decisione Preliminarmente, ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ., va disposta la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale. Con il primo motivo di ricorso principale Poste Italiane S.p.A. deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell'art. 1372 cod. civ. e/o ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ.,la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia. Censura la decisione per avere disatteso la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ.,la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia con riferimento alla individuazione dell'ambito temporale in cui è consentita l'assunzione a termine ai sensi dell'Accordo 25.9.1997. Assume l'errore della sentenza impugnata per avere, in contrasto con l'ampiezza della delega conferita alle parti collettive dall'art. 23 L. n. 56 del 1987, affermato che la validità delle assunzioni a termine, nell'ambito delle previsioni derogatorie, sarebbe necessariamente subordinata all'esistenza di un limite temporale. Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli articolo 1 e 2 L. n. 230 del 1962 e dell'art. 23 L. n. 56 del 1987. Sostiene l'errore di diritto della sentenza impugnata la quale, pur riconoscendo che l'art. 8 ceni 26.11.1994 consentiva il ricorso ai contratti a tempo determinato aveva ritenuto che il potere delle parti collettive di introdurre ipotesi di assunzione a termine in aggiunta a quelle legali, era soggetto a limiti temporali. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell'art. 23 L. n. 56 del 1987, dell'art. 8 ccnl 26.11.1994, e degli Accordi sindacali 25.9.1997, 18.1.1998,27.4. 1998, 18.1.2001 in connessione con gli articolo 1362 e sgg. cod. civ Sostiene che la affermata necessità di individuazione di un limite di efficacia temporale della disciplina derogatoria ex art. 23 L. n. 56 del 1987 aveva viziato il procedimento ermeneutico della legge e della contrattazione collettiva ed indotto il giudice territoriale ad individuare siffatto limite temporale in alcuni verbali sindacali privi della dignità del contratto collettivo. Richiamato l'Accordo integrativo del 25.9.1997 e quelli di cui ai successivi verbali ha ritenuto che la corretta interpretazione di tali atti escludeva la sussistenza di limitazioni temporali alle assunzioni a tempo determinate per le esigenze contemplate dall'Accordo 25.9.1997 cit. essendosi i successivi accordi limitati via via a dare atto della particolare situazione in cui si trovava l'impresa, situazione di per sé legittimante l'assunzione a termine. Con il quinto motivo deduce, ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia rappresentati dal rapporto tra il contratto collettivo l'Accordo sindacale 25.9.1997 ed i successivi accordi attuativi in relazione al supposto limite temporale a cui sarebbero subordinate le assunzioni a termine effettuate dalla società. Con il sesto motivo deduce ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli articolo 1206, 1207, 1217., 1219, 2094 e 2099 cod. civ. e ai sensi dell'art. 360, comma primo n. 5 cod. proc. civ., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatti decisivi della controversia. Rileva che la statuizione di condanna non è sorretta da adeguata motivazione e afferma la inidoneità a costituire atto di messa in mora la impugnazione del contratto a termine. Con l’unico motivo di ricorso incidentale il lavoratore censura la statuizione sulle spese di lite che assume adottata in violazione dei minimi tariffari prescritti in relazione alle cause di valore indeterminabile quale quella in oggetto. Il primo motivo di ricorso principale è infondato. Secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità cfr., Cass., ordin .n. 16932/2011 n. 17150/2008 , nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, per la configurabilità di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è quindi di per sé insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso cfr., da ultimo, Cass. n. 2305/2010, Cass. n. 5887/2011 mentre grava sul datore di lavoro che eccepisca tale risoluzione l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine a ogni rapporto di lavoro Cass. n. 2279/2010, n. 16303/2010, 15624/2007 . Tali principi, del tutto conformi al dettato di cui agli articolo 1372 e 1321 cod. civ., vanno ribaditi anche in questa sede, così confermandosi l'indirizzo ormai consolidato basato, in sostanza, sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all'uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo ovvero la mancanza di operatività del rapporto ancorché prolungata. È quindi necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l'esercizio del diritto o dell'azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare una volontà chiara e certa delle parti di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo v, anche Cass. n. 15403 /2000 n. 4003 /1998 , Si aggiunga che, come precisato nella più recente Cass. n. 5782/2012, quanto al decorso del tempo, si tratta di dato di per sé neutro, come sopra chiarito per un'ipotesi analoga a quella oggi in esame, vale a dire di decorso di circa sei anni fra cessazione del rapporto a termine ed esercizio dell'azione da parte del lavoratore v., da ultimo, Cass. n. 16287/2011 . In ordine, poi, alla percezione del trattamento di fine rapporto, questa S.C. ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio né l'accettazione del trattamento di fine rapporto né la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione dei termine cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione . Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonché, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione . La decisione impugnata risulta conforme ai principi sopraindicati avendo la Corte di merito rilevato che nella fattispecie in esame il semplice ritardo con il quale il lavoratore si era attivato non era sufficiente a ritenere risolto il rapporto per mutuo consenso, precisando che la concludenza nel senso preteso da Poste, del comportamento del lavoratore non potrebbe neppure desumersi dalla conoscibilità della questione e del suo esito favorevole davanti ai giudici milanesi non essendosi all'epoca ancora pronunziato il giudice di legittimità. L'accertamento di fatto della Corte territoriale conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alla censura della parte ricorrente, anche con riferimento alla doglianza di omessa valutazione di alcuni comportamenti quali la mancata contestazione alla scadenza del rapporto. Il secondo, il terzo, il quarto e quinto motivo per la evidente connessione vanno esaminati congiuntamente. Essi sono infondati. Occorre muovere dalla considerazione che secondo il costante insegnamento di questa Corte cfr. Cass. n. 17651/2009, n. 14657/2009, n. 4840/2009, n. 4862/2005, n. 14011/2004 , specificamente riferito ad assunzioni a termine di dipendenti postali previste dall'accordo integrativo 25 settembre 1997, l'attribuzione alla contrattazione collettiva, ai sensi della L. n. 56 del 1987, art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall'intento del legislatore di considerare l'esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti con l'unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all'autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato. Ne risulta, quindi, una sorta di delega in bianco a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatali, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato v., fra le altre, Cass. n 21062/ 2008, n. 18378/2006 . Ove, peraltro, nel quadro sopra delineato, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive e la Corte territoriale ha rilevato che, comunque, le parti sociali avevano convenuto di ritenere il perdurare delle condizioni sottese alla apposizione del termine fino al 30/4/1998 , la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine v. fra le altre,Cass. n 18383/2006, n. 7745/2005, n. 2866/2004 . In particolare, come questa Corte ha più volte affermato, in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l'accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell'art. 8 del ceni 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell'ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998 ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. n. 230 del 1962, art. 1 v., fra le altre, Cass. n. 20608/ 2007, n. 7979/2008, 18378/1 2006 . Partendo da detti principi questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell'accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto viziate quelle decisioni dei giudici di merito nella parte in cui hanno affermato la natura meramente ricognitiva dei c.d. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate, ed in particolare di quella secondo cui per far fronte alle predette esigenze si poteva procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 cfr. accordo del 16 gennaio 1998 ciò, fra l'altro, in violazione del principio secondo cui nell'interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti cfr., ex plurimis, Cass. n. 12245/2003, n. 12453/2003 . La stessa giurisprudenza ha ritenuto, inoltre, la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all'art. 1367 cod. civ., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anziché in quello per cui non ne avrebbero alcuno ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all'accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, sarebbero stati senza senso così testualmente Cass. n. 2866/ 2004 . In base al detto orientamento, ormai consolidato, ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive Cass. n. 15969/2005, n. 6703/2007 , va confermata la nullità della apposizione del termine al contratto de quo, concluso, ex art. 8 ccnl. 1994 e accordo collettivo 2579.1997, successivamente al 30.4.1998. La giurisprudenza di questa Corte ha, infine, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l'irrilevanza attribuita all'accordo del 18/1/2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell'ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l'intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell'accordo 25.9.1997 scaduto in forza degli accordi attuativi , la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell'indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell'interpretazione autentica previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001 , di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita in tal senso, Cass. n. 7979/2008 e n. 5141/2004 . Ne deriva, alla luce dell'orientamento richiamato, al quale si ritiene di dare continuità, il rigetto del secondo,del terzo e del quarto e del quinto motivo di ricorso. Il sesto motivo del ricorso principale risulta inammissibile per inadeguata formulazione del quesito di diritto prescritto ai sensi dell'art. 366 bis cod. proc. civ., applicabile ratione temporis, per essere la decisione impugnata stata pubblicata il 19.6.2007. Si premette che il quesito che conclude il motivo è il seguente Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore - a seguito dell'accertamento giudiziale dell'illegittimità del contratto a termine stipulato - ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli art. 1206 c.c. Trattasi di quesito che è generico ma già nell'illustrazione del motivo la società non indica del resto quale atto in concreto i giudici abbiano erroneamente qualificato come di mora credendi, riferendosi viceversa alle due ipotesi astratte della impugnazione del licenziamento e della richiesta pregiudiziale del tentativo di conciliazione e non è pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito. Il quesito di diritto, che la norma del codice di rito richiede a pena di inammissibilità del relativo motivo, deve infatti essere formulato, secondo la giurisprudenza di questa Corte, in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio cfr., ad es., Cass. S.U. n. 36/2007 , dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico o non pertinente. In proposito, come rilevato da Cass. S.U. ord. n. 2658/2008, a fini indicativi potrebbe apparire utile il ricorso ad uno schema secondo il quale sinteticamente si domandi alla Corte se, in una fattispecie quale quella contestualmente e sommariamente descritta nel quesito fatto , si applichi la regola di diritto auspicata dal ricorrente in luogo di quella diversa adottata nella sentenza impugnata , le ragioni della cui erroneità sono adeguatamente illustrate nel motivo. Concludendo, nel caso in esame la genericità, astrattezza e quindi non pertinenza del quesito ne determina l'inesistenza e con essa l'inammissibilità del relativo motivo, ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c., risultandone preclusa la applicazione richiesta da Poste nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., dello ius superveniens, rappresentato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5, 6 e 7 in vigore dal 24 novembre 2010, del seguente tenore Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo una indennità omnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le OO.SS. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della, domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell'art. 421 c.p.c. . Con riguardo alla richiesta della società, va premesso, in via di principio, che costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest'ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso cfr. Cass. n. 10547/2006 . In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia anche ammissibile secondo la disciplina sua propria. In particolare, con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che i motivi di ricorso investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell'accertata nullità del termine, che essi non siano tardivi o generici, etc. in particolare, ove, come nel caso in esame, il ricorso sia stato proposto avverso una sentenza depositata successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, tali motivi devono essere altresì corredati, a pena di inammissibilità degli stessi, dalla formulazione di un adeguato quesito di diritto, ai sensi dell'art. 366-bis cod. proc. civ., ratione temporis ad essi applicabile. In caso di assenza o di inammissibilità di una censura in ordine alle conseguenze economiche dell'accertata nullità del termine, il rigetto dei motivi inerenti tale aspetto pregiudiziale produce infatti la stabilità delle statuizioni di merito relative a tali conseguenze. Consegue il rigetto del ricorso principale. È fondato, invece il motivo di ricorso incidentale. Si premette che in materia di liquidazione degli onorari degli avvocati, il giudice è tenuto al rispetto dei minimi e massimi prescritti dalla tariffa professionale forense in relazione al valore dalla causa, in ottemperanza alla L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 24 in materia di onorari di avvocato e di procuratore per le prestazioni giudiziali in materia civile. Il superamento da parte del giudice dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura un vizio in iudicando e pertanto per l'ammissibilità della censura per cassazione è necessario che nel ricorso siano specificati i singoli conteggi contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità senza dover espletare un'inammissibile indagine sugli atti di causa v., tra le tante, Cass. 16.2.07 n. 3651 . Nel caso di specie il giudice di merito ha liquidato le competenze e gli onorari del giudizio di secondo grado in favore della odierna ricorrente incidentale in misura minore a quanto previsto dalla tariffa professionale all'epoca vigente, approvata con il D.M. 8 aprile 2004, n. 127, giusta la specificazione dei conteggi effettuata dalla ricorrente incidentale. In conclusione, il ricorso principale deve essere rigettato Deve essere, invece, accolto il ricorso incidentale e la sentenza impugnata deve essere cassata con riferimento alla statuizione sulle spese. Tenuto conto dei conteggi e provvedendo nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, deve essere modificata la quantificazione di quanto spettante al T. per spese,competenze ed onorari del giudizio di secondo grado, nella misura indicata in dispositivo. Le spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi. Rigetta il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e, decidendo nel merito, liquida le spese del giudizio di appello in complessivi Euro 1600,00 di cui Euro 505,00 per diritti e Euro 935,00 per onorari . Condanna Poste Italiane s.p.a. al pagamento della differenza. Condanna Poste Italiane s.p.a. al pagamento delle spese del presente giudizio determinate in Euro 50,00 per esborsi e Euro 2500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.