La libertà d’espressione include anche il diritto di accesso ai documenti al fine d’informare e di essere informati su questioni d’interesse generale. Il rifiuto opposto dalle autorità ungheresi al locale Comitato Helsinki, che chiedeva lumi sulla presunta scarsa trasparenza delle difese d’ufficio assegnate ad un numero ristretto di legali, viola l’articolo 10 CEDU l’incarico di difensore d’ufficio è pubblico e la comunicazione dei nominativi e del numero di incarichi affidati al legale non viola la sua privacy, in quanto informazioni di pubblico dominio. Il diniego costituisce un’ingerenza sproporzionata e non necessaria in uno stato democratico.
È quanto sancito dalla Grand Chamber Magyar Helsinki Bizottság Comitato Helsinky ungherese comma Ungheria ricomma 18030/11 dell’8 novembre 2016 inserito nei factsheets Protection of personal data . Il caso. Il Comitato Helsinki è un’ONG internazionale con sedi locali in tutta Europa ed in Asia paesi dell’area OSCE tutela i diritti fondamentali e monitora l’attuazione degli strumenti internazionali per la loro difesa. In particolar modo si occupa di richiedenti asilo, di accesso alla giustizia, dell’effettivo esercizio dei diritti di difesa e delle condizioni di detenzione nelle carceri. Nel 2009, in seguito ad altri programmi e studi, promosse due progetti sull’efficacia dei diritti di difesa in Ungheria sulla necessità di riformare il sistema in relazione a 150 processi penali conclusi ed in UE indagine comparativa con altri 9 Stati membri finanziata dall’UE nell’ambito dell’ Open Society Justice Iniziative i progetti erano basati sulle best practices in questo campo ed erano realizzati in collaborazione col Ministero della Giustizia, vari COA e le forze dell’ordine. Avendo rilevato varie carenze nel sistema di nomina dei difensori d’ufficio, il Comitato aveva elaborato criteri di valutazione ed un questionario per vagliare la qualità delle loro prestazioni e col COA di Budapest aveva redatto un codice di etica professionale per il difensore d’ufficio. Ciò che veniva contestato era la scarsa trasparenza delle assegnazioni degli incarichi con il sospetto che questi fossero appannaggio di una ristretta cerchia di legali le nomine provenivano infatti dalle autorità investigative, soprattutto dalla polizia, «attingendo ad elenchi predisposti dalle pertinenti associazioni degli avvocati». La ONG, secondo la quale questa “prassi” suscitava la diffidenza degli assistiti, elaborò un progetto per rendere trasparente l’assegnazione dei gratuiti patrocini e delle difese d’ufficio nei processi penali e chiese alle autorità di polizia di fornire i nominativi ed il numero di incarichi assunti dai legali d’ufficio, ma alcune rifiutarono ritenendo di tutelare la privacy degli avvocati. Ne sorse una battaglia legale. In prime cure si ritenne il rifiuto di accedere a queste informazioni illegale la difesa obbligatoria era un tema di rilevante interesse pubblico, sì che i dati contestati non potevano essere considerati personali. Nei successivi gradi questo assunto fu ribaltato la difesa d’ufficio «è un’attività privata anche se eseguita in virtù di un fine pubblico», sì che il nome ed il numero di incarichi di difesa d’ufficio assunti da ogni legale sono dati sensibili, tutelati dalla legge sulla privacy e non possono essere divulgati senza il consenso dell’interessato. La questione è stata dunque rimessa alla GC dalle sezioni semplici, la quale con un voto non unanime ha convenuto col giudice di prime cure. Diritto comparato, prassi e norme internazionali. La sentenza in commento fa un excursus , cui si rinvia in toto, che spazia dalle norme dei paesi africani alle prassi della Corte interamericana dei diritti dell’uomo e della CGUE sulla Direttiva 95/46/CE sulla tutela della privacy e sul Regolamento 1049/01 sul diritto di accesso ai documenti del Parlamento, del Consiglio e della Commissione UE , dai lavori preparatori all’articolo 10 ed al protocollo 6 Cedu, all’articolo 11 e 42 della Carta di Nizza regolanti rispettivamente le libertà di espressione e d’informazione ed il diritto di accesso ai documenti . La materia è disciplinata anche dalla Raccomandazione del Comitato dei ministri del COE numero 2/02 e dalle Convenzioni del COE del 2009 sull’accesso ai documenti ufficiali e «per la protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato dei dati personali» in vigore dal 1985, dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umani ONU , dall’articolo 19 Patto internazionale sui diritti civili e politici ICCPR e dalla prassi del Comitato dei diritti dell’uomo ONU da tutte queste citate fonti emergono le linee guida sul bilanciamento dei diritti alla privacy ed all’accesso ai documenti. Si evince anche la stretta connessione tra le libertà d’espressione e d’informazione attiva e passiva il diritto di accesso ai documenti è il mezzo per attuare queste libertà. Il diritto comparato non è sempre uniforme, ma da queste fonti si desume che ognuno deve avere accesso ai documenti detenuti da enti pubblici, aziende statali, authorities , organismi privati che svolgono funzioni pubbliche o che ricevono cospicui finanziamenti pubblici. La legge può disciplinare restrizioni a questo diritto come la difesa della sicurezza nazionale, segreti industriali, istruttori, professionali, tutela della privacy etcomma In alcuni Stati si è imposto il criterio dell’interesse pubblico quale scriminante per bilanciare questi due contrapposti interessi tutela della privacy e libertà d’informazione . Il diritto di accesso in Italia. In linea con questi principi considera l’interesse difensorio prevalente sugli altri contrapposti in questa ottica la prassi amministrativa ha consentito l’accesso persino ad atti coperti da segreto industriale, ai dati fiscali, alle cartelle sanitarie etcomma ex plurimis Tar Lazio 12590/14, Veneto 1335/15, Catania 29 e 374/16 . Libertà d’informazione vs privacy quale bilanciamento? Dal richiamo dei criteri di armonizzazione delle esegesi dei trattati con altre norme e prassi internazionali per garantire un’interpretazione univoca e rispettosa della certezza del diritto articolo 31 e 32 Convenzione ONU di Vienna Scoppola comma Italia numero 2 [GC] del 2009 e dai sopra evidenziati contrasti del diritto comparato emerge una duplice visione sull’imposizione di oneri postivi e/o negativi agli Stati. Infatti anche la prassi della CEDU ha subito un revirement Guseva comma Bulgaria, del 17/2/15 in un primo momento aveva affermato che «le autorità interne non hanno alcun obbligo positivo di cercare, raccogliere e divulgare al pubblico in generale od ad alcune categorie specifiche organizzazioni non governative, giornalisti etc. informazioni attinenti alla PA stessa, alla privacy, alla tutela della salute, dell’ambiente» e similia, sì che il rifiuto di accedere agli atti, relativi a questi settori, è legittimo e non viola l’articolo 10 Cedu Guerra ed altri comma Italia -sul caso Seveso del 19/2/98 e Roche comma Regno Unito del 2005 . Poi, però, ha rilevato come il diritto di accesso sia uno strumento per garantire la trasparenza della PA Frăsilă e Ciocîrlan comma Romania del 10/5/12, Godelli comma Italia del 25/9/12 e Gillberg comma Svezia [GC] del 3/4/12 questa è la tesi prevalente. Rileva come ormai la CEDU sia considerata «uno strumento vivente» e che, quindi, alla luce anche dei lavori preparatori e dei criteri sopra esplicati, la libertà d’espressione include quella d’informazione attiva e passiva e nota che le ONG, come nella fattispecie, svolgono una funzione di «watchdog» negare l’accesso a questi dati non solo lede tali libertà, ma ostacola questa fondamentale funzione pubblica. La CEDU rileva come il diritto magiaro consideri tutelate dalla legge sulla privacy e quindi non divulgabili tutte quelle informazioni che permettano l’individuazione di un certo individuo, perciò il divieto aveva una base legale e ricopriva un fine legittimo, ciò nonostante, per quanto sinora esplicato, è stata ravvisata un’eccessiva ingerenza ed una lesione dell’articolo 10 Cedu. Quando l’attività del legale è tutelata dalla privacy? La CEDU rileva come l’attività prestata da un avvocato, soprattutto nei casi di gratuito patrocinio e di difesa d’ufficio, «è una missione pubblica». Le informazioni contestate avevano natura meramente statistica ed erano necessarie a redigere il citato studio d’interesse generale, dato che il tema è strettamente connesso anche alla tutela dell’equo processo, diritto fondamentale ed un caposaldo della Cedu stessa. Non riguardavano il rapporto col cliente, le scelte difensive, le consulenze ad esso prestate etcomma coperte dal segreto professionale oltre che dalla privacy, bensì, come detto, la loro attività pubblica. Ciò era in linea con i fini statutari dell’ONG. La CEDU, poi, ricorda di aver già messo in guardia, nel caso Martin comma Estonia del 30/5/13, sulle conseguenze della designazione dei difensori d’ufficio da parte della polizia e di come ciò costituisca una chiara deroga all’articolo 6 Cedu. Esse erano già state evidenziate da due studi il Manuale per i responsabili politici ed i professionisti sull’accesso all’assistenza legale nella fase iniziale del processo penale, edito dall’ONU ed il funzionamento pratico del patrocinio nell’UE del 2013 a cura di un’altra tra le tante ONG intervenute in questo processo. Da questi studi emerge chiaramente la necessità di un controllo esterno alle assegnazioni da parte della polizia come garanzia essenziale al rispetto dell’equo processo. In ogni caso queste informazioni erano già note erano inserite in pubblici elenchi ed il ruolo d’udienza è esposto a tutti. Infine la CEDU rimarca come il diritto alla privacy ex articolo 8 non sia un diritto assoluto, ma può essere soggetto a restrizioni, basate sulla legge e per conseguire fini legittimi, come qualsiasi altro diritto tutelato dalla Cedu stessa. Ingerenza sproporzionata. Alla luce di tutto ciò le Corti interne avrebbero dovuto, quindi, apprezzare con maggiore rigore la richiesta di rispettare la libertà d’espressione dell’ONG e vagliare minuziosamente questo interesse pubblico che legittimava, assieme a questi criteri, l’accesso a tali dati le ragioni addotte dal Governo magiaro sono pertinenti, ma non sufficienti a dimostrare le necessità in uno stato democratico di una tale ingerenza nei diritti dell’ONG e contestualmente, anche se lo Stato gode un margine di apprezzamento discrezionale, non c’è stata alcuna proporzione tra il rifiuto all’accesso a questi dati «misura litigiosa» ed il fine legittimo perseguito con lo stesso, sì che risulta un’interferenza arbitraria ed irrazionale con conseguente violazione dell’articolo 10 Cedu.
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