Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'articolo 133 c.p
Con la sentenza numero 28910/19 , le Sezioni Unite della Cassazione superano il proprio precedente orientamento espresso nella pronuncia numero 6240/2015. Il caso. La Corte d’appello, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare, confermava il giudizio di responsabilità formulato a carico di due amministratori di fatto di una s.r.l. in ordine ai reati di bancarotta fraudolenta per distrazione, documentale e preferenziale. Avverso tale provvedimento, gli imputati proponevano ricorso in Cassazione. La modulazione personalizzata delle pene accessorie. La piena realizzazione soprattutto della specifica finalità preventiva, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale. Tale risultato è conseguibile solo ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri dell’articolo 133 c.p. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione. L’articolo 37 c.p. non prescrive un automatismo delle pene accessorie. I principi interpretativi che si richiamano ai valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità e che si oppongono agli automatismi ed alla rigida regolamentazione sanzionatoria, non consentono di interpretare l’articolo 37 c.p. come prescrittivo di un automatismo che, seppur mediato dall’aggancio alla misura della pena principale, stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l’estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue. Fonte ilfallimentarista.it
Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 28 febbraio – 3 luglio 2019, numero 28910 Presidente Carcano – Relatore Boni Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 19 febbraio 2014, la Corte di appello di Reggio Calabria, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria del 22 gennaio 2013, esclusa la circostanza aggravante di cui al D.L. numero 152 del 1991, articolo 7 del convertito dalla L. numero 203 del 1991, confermava il giudizio di responsabilità formulato a carico degli imputati S.D. , M.A. e A.S.A. in ordine ai reati di bancarotta fraudolenta per distrazione, documentale e preferenziale, loro contestati al capo B ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, numero 267, articolo 223, in relazione all’articolo 216, comma 1, numero 1, numero 2 e numero 3, e articolo 219, comma 2, numero 1, e rideterminava in anni quattro di reclusione la pena per ciascuno, revocava l’interdizione legale, sostituiva l’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea per anni cinque e revocava altresì le statuizioni civili. Agli imputati era contestato di avere, nella qualità di amministratori di fatto della s.r.l. omissis , dichiarata fallita con sentenza, emessa dal Tribunale di Reggio Calabria in data 11 dicembre 2008, di aver sottratto, o comunque occultato, beni strumentali per un valore di Euro 274.778,00 e la somma di Euro 102.800,00, prelevata dai conti bancari della società per adempiere debiti di ignota titolarità ed incerta esistenza di avere, al fine di procurare a sé o altri un ingiusto profitto e di arrecare danno ai creditori, sottratto i libri e le scritture contabili della società, altresì tenute in modo tale da ostacolare la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari e di aver effettuato pagamenti ad alcuni creditori, preferiti ad altri, con ciò cagionando un danno di rilevante gravità e commettendo plurimi fatti di bancarotta. 2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione A.S.A. per il tramite dei suoi difensori, avv.ti P.N. ed C.A. , i quali hanno articolato i seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo si lamenta violazione della legge in relazione all’articolo 530 c.p.p., commi 1 e 2, e articolo 533, comma 1, deducendo che la motivazione della sentenza impugnata si era limitata al rinvio alle considerazioni svolte nella sentenza di primo grado, di cui aveva riprodotto il percorso argomentativo, in assenza di una autonoma disamina delle specifiche doglianze espresse con l’atto di gravame circa l’effettiva sussistenza degli addebiti mossi al ricorrente in tal modo la motivazione per relationem non può considerarsi effettiva e sufficiente. 2.2. Con il secondo motivo, si deducono la violazione della legge penale e il vizio della motivazione in relazione all’articolo 110 c.p. ed alla L. Fall., articolo 223, comma 1, in relazione all’articolo 216, comma 1, numero 1 e 2, e comma 3, ed all’articolo 219, comma 2, numero 1. Secondo la difesa, la sentenza impugnata non ha evidenziato la prova incontrovertibile della responsabilità del ricorrente, che avrebbe dovuto essere mandato assolto come disposto per i coimputati, i quali, sottoposti a separato procedimento dibattimentale per le medesime vicende penali connesse al fallimento della s.r.l. omissis , erano stati assolti dal Tribunale di Reggio Calabria con sentenza del 15 luglio 2014. In particolare, con tale pronuncia si era riconosciuto che, pur nella provata oggettività dei fatti di bancarotta fraudolenta e documentale e nella riscontrata consapevolezza e programmazione di intenti comuni a commettere condotte in danno dei creditori, come emersa dalle conversazioni intercettate, è impossibile attribuire agli imputati specifici comportamenti illeciti tra quelli delineati nell’imputazione. Inoltre, l’addebito di bancarotta fraudolenta documentale è stato erroneamente riconosciuto sussistente per l’avvenuta ritardata consegna delle scritture contabili nel corso dell’udienza preliminare, ma tanto non autorizza a ravvisare il dolo specifico di arrecare un vantaggio e di cagionare danno ai creditori. Quanto alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, ritenuta sussistente nella forma della distrazione in relazione alla minusvalenza dei beni strumentali, acquistati dalla società con patto di riservato dominio ed in seguito restituiti al legittimo proprietario in esecuzione di accordo transattivo, il giudizio di responsabilità è illogicamente ricostruito poiché non è stato considerato che il corrispettivo versato dalla società poi fallita non le è stato restituito, ma è stato destinato a compensare l’utilizzo dei beni sino alla restituzione. In merito ai fatti di bancarotta preferenziale la sentenza non ha individuato i creditori pregiudicati, dato non evincibile nemmeno dall’imputazione, nè ha chiarito perché costoro avrebbero dovuto essere soddisfatti in preferenza rispetto ad altri inoltre, poiché le condotte contestate sono successive al D.Lgs. numero 169 del 2007, recante Disposizioni integrative e correttive al R.D. 16 marzo 1942, numero 267 , che ha riformato della L. Fall., l’articolo 67, escludendo la soggezione a revocatoria dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio di impresa, tale modifica incide anche sulla L. Fall., articolo 216, comma 3, escludendo la punibilità dei pagamenti diretti ad alleggerire la pressione dei creditori. Inoltre, nel caso specifico i pagamenti ai creditori asseritamente preferiti sono stati compiuti nei termini d’uso con un normale corrispettivo ed al fine di ottenere i mezzi per poter soddisfare altri creditori, sicché anche sotto tale profilo avrebbe dovuto escludersi l’intento di arrecare un pregiudizio agli altri aventi diritto. 3. Sul presupposto della mancata notificazione della sentenza all’imputato M.A. , il difensore di fiducia, avv.to V.G. , ha presentato ricorso, deducendo con unico motivo proposto ai sensi dell’articolo 606 c.p.p., comma 1, lett. e , la violazione di legge in relazione agli articolo 192, 544 e 546 c.p.p. ed alla L. Fall., articolo 216, 217, 219, 223 e l’apparenza della motivazione. Secondo il ricorrente, la sentenza di appello non ha illustrato i risultati probatori acquisiti ed i criteri adottati per affermare la responsabilità dell’imputato e non ha desunto il fatto di reato da indizi gravi, precisi e concordanti, indicando le ragioni del proprio convincimento. In particolare, circa la sottrazione dei beni, la pronuncia non ha offerto spiegazione del contrasto con il dato documentale, secondo cui i beni in locazione erano stati restituiti ai proprietari, mentre la minusvalenza patrimoniale, mera diminuzione di redditività o di valore, non un costo monetario, è stata desunta soltanto da una valutazione contabile. Circa le scritture contabili, inoltre, la decisione non ha chiarito perché le mere irregolarità e le incompletezze riscontrate assumano rilievo penale. 4. Premesso che la sentenza di appello è stata notificata ai propri difensori soltanto in data 18 luglio 2017, anche l’imputato S.D. ha proposto ricorso, articolando i seguenti motivi. 4.1. Con il primo motivo, ha lamentato la violazione della legge penale e il vizio di motivazione in relazione all’articolo 192 c.p.p., comma 2, e articolo 533 c.p.p., comma 1, in riferimento agli articolo 110 e 43 c.p., nonché alla L. Fall., articolo 223, comma 1, articolo 216, comma 1, numero 1, commi 2 e 3, e articolo 219, comma 2, numero 1. Secondo il ricorrente, nella sentenza impugnata non è stata individuata la prova della condotta materiale contestata per potergli ascrivere la qualità di amministratore di mero fatto della società fallita, nè dell’attribuzione alla sua persona del compimento di fatti distrattivi o di pagamenti preferenziali in sentenza si è fatto ricorso a mere presunzioni ed a tal fine non può ritenersi sufficiente la nota rinvenuta in sede di perquisizione, contenente dei meri appunti preparatori, non necessariamente seguita dall’effettivo compimento di attività solutoria, nel difetto della precisa individuazione delle poste creditorie privilegiate, che consenta di rinvenire la lesione di cause legittime di prelazione o l’assenza di stretta necessità del pagamento. È mancata anche la prova dell’elemento soggettivo del dolo specifico, che deve sostenere la condotta di bancarotta preferenziale in termini di coscienza e volontà di favorire un creditore a scapito delle ragioni degli altri il mero dato della mancata insinuazione al passivo dei creditori che si assumono preferiti non costituisce elemento dimostrativo sufficiente anche per la carente valenza dimostrativa e la lettura travisante offerta delle conversazioni intercettate, non rivelatrici della volontà di pregiudicare alcuni creditori a favore di altri, ma soltanto dell’intenzione di ripianare il debito contratto con l’istituto di credito alle cui dipendenze aveva operato il teste G. , senza che a tale proposito fosse poi seguito l’effettivo pagamento e del rammarico per il differente comportamento tenuto dagli altri creditori. Quanto alla bancarotta distrattiva, non è stata dimostrata la pregressa disponibilità in capo alla società fallita dei beni strumentali di cui si è affermata l’avvenuta asportazione o l’occultamento, disponibilità desunta dalla sola relazione fallimentare in base alle risultanze delle scritture contabili, che in realtà si assumono inattendibili anche in tesi accusatoria, tanto da avere giustificato l’addebito di bancarotta documentale, e che non sono corroborate dall’accertamento positivo dell’esistenza dei beni stessi. La condotta di sottrazione delle attrezzature e dei beni strumentali, oltre ad essere genericamente delineata, è smentita dall’avvenuta loro restituzione ai proprietari per effetto di accordi transattivi, conclusi a seguito dell’inadempimento della s.r.l. omissis , come risulta dalla stessa sentenza di fallimento. Nell’escludere la capacità liberatoria delle transazioni concluse, la Corte di appello non ha considerato che tali beni, acquisiti con i benefici della L. Sabatini ed in forza di patto di riservato dominio, non erano entrati a far parte del patrimonio della fallita per l’inadempimento all’obbligo del versamento del prezzo dovuto e che le società concedenti non si erano insinuate al passivo proprio per l’ottenuta restituzione dei beni e l’incameramento delle rate riscosse a titolo di equo compenso. Per gli impianti antitaccheggio omissis e per i beni della s.r.l. non sussiste la ritenuta condotta distrattiva, in quanto è verosimile che i primi non siano stati rinvenuti perché deperiti, i secondi perché restituiti a scomputo del debito residuo. La Corte di appello non si è confrontata con le contestazioni mosse nei motivi di appello in ordine alla bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione delle somme di denaro il curatore ha affermato che tali somme non erano mai entrate nelle casse della società, sicché non avrebbero potuto essere distratte e non poteva nemmeno escludersi che fossero state impiegate per il pagamento dei creditori. È carente ed illogica la motivazione con la quale è stata respinta la censura difensiva che aveva indicato l’estraneità del ricorrente all’addebito di bancarotta fraudolenta documentale per avere il coimputato A. intrattenuto in via esclusiva rapporti con il curatore e per la possibilità dello smarrimento accidentale del libro degli inventari, mentre nella sentenza non sono state individuate le specifiche condotte compiute dal S. e non sono state apprezzate le indicazioni provenienti dal consulente tecnico di parte circa l’esistenza di una copia informale del libro inventari, costituita da fogli sparsi, verosimilmente andati smarriti. Del pari la mancata consegna al curatore delle fatture di acquisto e di vendita, frutto di un disguido accidentale, verificatosi con il curatore fallimentare, non è addebitabile ad una condotta volontaria, diretta a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari dell’impresa fallita, operazione comunque consentita dalla documentazione reperita. 4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente ha lamentato la violazione della legge penale ed il vizio di motivazione in relazione all’articolo 54 c.p La Corte di appello ha ritenuto che, per essersi gli amministratori della s.r.l. omissis rivolti ad esponenti della locale criminalità organizzata onde ottenere finanziamenti e forniture, costoro si fossero posti volontariamente nelle condizioni di subire le pretese di tali interlocutori. L’assunto è manifestamente illogico, perché postula la previa conoscenza in capo al ricorrente dell’appartenenza di tali soggetti al contesto criminale mafioso e la prevedibilità delle loro pretese, ma non considera che egli si era attivato soltanto per evitare il fallimento, mentre la situazione di pericolo non era stata causata ed era insorta per le minacce ricevute in un momento successivo alla contrazione del debito. 4.3. Con il terzo motivo il ricorrente ha dedotto violazione della legge penale e vizio di motivazione in relazione alla L. Fall., articolo 219, comma 1, e articolo 223. La diversità strutturale ed ontologica fra la fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria e quella ordinaria non consente la trasposizione in via analogica della circostanza aggravante prevista nell’articolo 219, comma 1, per effetto del richiamo letterale alle norme della L. Fall., articolo 216, 217 e 218. Vi osta l’interpretazione letterale della norma, aderente ai parametri di legalità e tassatività. 4.4. Con il quarto motivo il ricorrente ha prospettato la violazione della legge penale ed il vizio di motivazione in relazione all’articolo 192 c.p.p. e agli articolo 133 e 62-bis c.p La sentenza impugnata non offre motivazione per la mancata applicazione del minimo edittale della pena e per il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato in base alla pretesa genericità dei motivi di appello, frutto della mancata esatta percezione delle doglianze, con le quali si erano evidenziate le pressioni usurarie e mafiose subite, i tentativi di salvare la società e di ripianare i debiti con risorse ricavate anche dalla vendita di un bene personale. 5. La Quinta Sezione penale, cui il ricorso era stato inizialmente assegnato, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, rilevando che i motivi di contestazione sull’entità della pena principale devolvono anche il tema, strettamente collegato, anche se non investito di censure difensive nei ricorsi, della commisurazione delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale per la durata di anni dieci e dell’incapacità per lo stesso periodo ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, inflitte ai ricorrenti in applicazione della L. Fall., articolo 216, u.c., disposizione oggetto della recente pronuncia di illegittimità costituzionale, emessa dalla Corte costituzionale con sentenza numero 222 del 5 dicembre 2018. 5.1 La Sezione rimettente ha premesso che la sommaria delibazione degli atti processuali autorizza il dubbio sulla intempestività dei ricorsi, proposti nell’interesse di M.A. e S.D. . 5.2 Ha quindi rilevato che con la sentenza numero 222 del 5 dicembre 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. Fall., articolo 216, u.c. nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, anziché prevedere che tali sanzioni siano applicate sino ad un massimo di dieci anni, e che gli effetti della pronuncia dal giorno successivo alla sua pubblicazione assumono rilievo anche nel presente processo sotto il profilo della possibile sopravvenuta illegalità delle stesse pene accessorie, irrogate agli imputati in via automatica nella misura massima consentita dalla disposizione riconosciuta incostituzionale in assenza di una puntuale e specifica giustificazione di adeguatezza e congruità di una durata così protratta. 5.3. L’ordinanza di rimessione ha poi osservato che, dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma citata, è intervenuta la sentenza della Corte di cassazione, Sezione Quinta penale numero 1963 del 7/12/2018, dep. 2019, Piermartiri, per la quale le pene accessorie previste dalla L. Fall., articolo 216, u.c., nella formulazione modificata dalla pronuncia numero 222 del 2018 della Corte costituzionale, restano soggette alla disciplina di cui all’articolo 37 c.p Nell’esprimere dissenso rispetto a tale arresto, ha osservato che la Consulta, stabilendo che le pene accessorie previste dalla legge fallimentare sono irrogabili fino a dieci anni , ha escluso di poter fare riferimento al criterio residuale di cui all’articolo 37 c.p. e ha riconosciuto al giudice la possibilità di determinazione in via autonoma della durata della pena accessoria in base ai criteri dettati dall’articolo 133 c.p Sulla scorta di tali premesse ha ravvisato l’opportunità di rimettere alle Sezioni Unite il componimento del contrasto con diverso orientamento della stessa sezione, divenuto reale in seguito all’ulteriore pronuncia della medesima Sezione numero 7851 del 13/12/2018, Retrosi, postasi parimenti in termini oppositivi rispetto alla linea interpretativa proposta dalla sentenza Piermartiri e l’eventuale superamento dei principi di diritto, espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza numero 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B 6. Con decreto in data 19 dicembre 2018, il Primo Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’udienza pubblica. Considerato in diritto 1. Le Sezioni Unite sono chiamate a risolvere la seguente questione di diritto Se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dalla L. Fall., articolo 216, u.c., come riformulato ad opera della sentenza numero 222 del 2018 della Corte Costituzionale, debbano considerarsi pene con durata non predeterminata e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’articolo 37 c.p. ovvero se la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi predeterminata entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’articolo 37 c.p. ma, di regola la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’articolo 133 c.p. . 2. S’impone in via preliminare la verifica circa l’ammissibilità dei ricorsi sotto il profilo della loro tempestiva proposizione. 2.1 Dalla consultazione degli atti processuali emerge che la sentenza di appello, depositata in cancelleria in data 19 giugno 2017 dopo il termine di novanta giorni, fissato ai sensi dell’articolo 544 c.p.p., comma 3, è stata notificata in via telematica per posta certificata agli imputati ed ai loro difensori in base all’articolo 157 c.p.p., comma 8-bis, nelle seguenti date 11 luglio 2017 all’avv.to D.E. in proprio e quale difensore di S.D. 18 luglio 2017 all’avv.to M.C. in proprio in quanto codifensore del medesimo S. 11 luglio 2017 all’avv.to V.G. in proprio e quale difensore di M.A. ed agli avv.ti C.A. e P.N. in proprio e quali difensori di A.S.A. . Da tale premessa discende la tempestività di tutti i ricorsi, non soltanto di quello proposto dall’A. in data 25 settembre 2017, ma anche dei restanti. Il termine di quarantacinque giorni per proporre ricorso per cassazione, tenuto conto del periodo di sospensione feriale, non è decorso negli stessi tempi per tutti gli imputati. Il M. in data omissis , all’atto della notificazione dell’ordinanza di sottoposizione agli arresti domiciliari in luogo della custodia in carcere, aveva dichiarato il proprio domicilio presso l’abitazione, sita in omissis e in tale luogo non risulta essere stata effettuata, nè previamente tentata, la notificazione della sentenza di appello, con la conseguente nullità del procedimento compiuto secondo il diverso criterio dettato dall’articolo 157 c.p.p., comma 8-bis, della trasmissione al difensore di fiducia, che, essendo funzionale ad assicurare l’accelerazione processuale e l’attuazione del principio di ragionevole durata del processo, non può prevalere sui criteri ordinari quando, come nel caso specifico, la diversa manifestazione di volontà del destinatario sia stata appositamente espressa per poter ricevere nel luogo specificato gli atti processuali Sez. U., numero 58120 del 22/06/2017, Tuppi, Rv. 271771 Sez. U, numero 19602 del 27/03/2008, Micciullo, Rv. 239396 . Ne discende che per il M. , a causa della rilevata nullità del procedimento notificatorio, il termine per la proposizione del ricorso non è mai iniziato a decorrere e l’impugnazione, depositata il 27 settembre 2017, va considerata proposta nel termine di legge. Per la posizione del S. si osserva che egli aveva designato ritualmente due difensori, l’avv.to D. e l’avv.to M.C. , e che la sentenza impugnata è stata notificata al primo legale l’11 luglio 2018, al secondo il 18 luglio 2017, il che ha determinato soltanto da questa seconda data il decorso del termine per proporre ricorso e la sua scadenza il 2 ottobre 2017, ossia nel giorno dell’avvenuta presentazione dell’impugnazione, che è tempestiva Sez. 6, numero 770 del 08/02/1996, Crespi, Rv. 204096 Sez. 6, numero 16686 del 14/06/1990, Corcione, Rv. 186035 Sez. U, numero 29 del 13/10/1984, Meloni, Rv. 167056 . 3. Riconosciuta l’ammissibilità delle impugnazioni, si rende necessaria la soluzione del quesito giuridico sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, a ragione del fatto che agli imputati già con la sentenza di primo grado sono state applicate le sanzioni accessorie previste dalla L. Fall., articolo 216, u.c. dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di anni dieci in conformità alla previsione normativa vigente al momento dell’assunzione della decisione e quale effetto obbligato, condizionato dal giudizio di responsabilità in ordine alle fattispecie di bancarotta fallimentare loro ascritte. 3.1 Entrambe le sentenze pronunciate nei due gradi di merito sul punto si sono allineate all’orientamento interpretativo prevalente nella giurisprudenza della Suprema Corte, che, in nome della formulazione letterale allora vigente della L. Fall., articolo 216, per la quale salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione per l’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa , riteneva determinata per legge ed in misura fissa ed inderogabile la durata delle predette sanzioni accessorie ex multis Sez. 5, numero 56323 del 26/10/2017, Intrieri, Rv. 271896 Sez. 5, numero 15638 del 05/02/2015, Assello, Rv. 263267 Sez. 5, numero 41035 del 10/06/2014, Tesi, Rv. 260495 Sez. 5, numero 51526 del 18/10/2013, Bonalumi, Rv. 258666 Sez. 5, numero 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a., Rv. 247319 Sez. 5, numero 269 del 10/11/2010, dep. 2011, M., Rv. 249500 Sez. 5, numero 39337 del 20/09/2007, B., Rv. 238211 . Oltre al dato letterale, a sostegno di tale opinione si valorizzava anche un argomento sistematico, alimentato dal raffronto col testo della L. Fall., articolo 217, comma 3, che per il reato di bancarotta semplice documentale stabilisce la pena accessoria, determinata solo nel limite massimo fino a due anni , con la conseguente soggezione al principio generale previsto dall’articolo 37 c.p. di equiparazione automatica del quantum della pena accessoria a quello della pena principale. 3.2 Ancorché minoritaria e meno recente, l’opposta linea interpretativa propendeva, invece, per individuare nella previsione della L. Fall., articolo 216, u.c. una durata non predeterminata in misura unica dal legislatore e quindi da individuarsi nell’ambito di un ampio intervallo temporale sino al limite edittale massimo in base al criterio integrativo dettato dall’articolo 37 c.p. Sez. 5, numero 23720 del 18/06/2010, Travaini, Rv. 247507 Sez. 5, numero 9672 del 22/01/2010, Tonizzo, Rv. 246891 Sez. 5, numero 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987 . 3.3 Le posizioni contrapposte riassumono un dibattito giurisprudenziale risalente, nel quale si inseriva anche la sentenza della Corte costituzionale numero 134 del 31/05/2012, che, investita della questione di legittimità costituzionale della L. Fall., articolo 216, u.c., l’aveva ritenuta inammissibile senza esaminarla nel merito per l’impossibilità di aderire al petitum formulato dai giudici rimettenti in termini di diversa articolazione della norma con l’aggiunta della durata delle pene accessorie sino a dieci anni per renderle soggette alla disciplina dell’articolo 37 c.p., soluzione additiva considerata non obbligata e non l’unica praticabile per salvarne la conformità alla Costituzione, ma soltanto una tra quelle ipotizzabili, da rimettere però al prioritario intervento di produzione normativa del legislatore, che ben avrebbe potuto stabilire una graduazione tra un minimo ed un massimo di durata, oppure una differente modulazione delle pene accessorie rispetto alle principali. 4. Nelle more della trattazione dei ricorsi proposti dagli odierni imputati è intervenuta la pronuncia della sentenza della Corte costituzionale numero 222 del 2018, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 216, u.c., nella parte in cui prescrive che la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa , anziché la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni . 4.1 La Consulta ha delimitato il proprio scrutinio al solo aspetto del possibile contrasto con il sistema dei valori costituzionali della durata fissa decennale delle pene accessorie fallimentari senza esaminare il tema della loro automatica applicazione nel caso concreto in dipendenza del giudizio di responsabilità, tema non demandato dall’ordinanza di rimessione. Ha richiamato i principi già affermati dalla propria giurisprudenza, osservando che la determinazione del trattamento punitivo per la commissione di fatti costituenti reato è materia riservata alla discrezionalità del legislatore, secondo la previsione dell’articolo 25 Cost., comma 2, il cui potere di intervento resta soggetto al sindacato di costituzionalità nei limiti in cui le scelte operate sul fronte sanzionatorio siano palesemente irragionevoli perché comportanti l’inflizione di pene, caratterizzate da manifesta sproporzione rispetto alla gravità del fatto illecito e perciò in contrasto con gli articolo 3 e 27 Cost. ed in specie con la funzione rieducativa della pena. Per scongiurare tale frizione il legislatore ricorre normalmente alla previsione di pene rimesse nella loro misura alla determinazione giudiziale, da individuarsi in via discrezionale tra una soglia minima ed una massima e secondo i criteri orientativi dettati dagli articolo 133 e 133-bis c.p., in grado di assicurare la differenziazione e l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio rispetto al fatto ed al suo autore al contrario, le pene di entità quantitativa fissa, stabilita per legge, possono essere coerenti col sistema costituzionale a condizione che l’analisi strutturale della fattispecie dimostri la loro proporzione rispetto ai comportamenti tipizzati, riconducibili alla fattispecie di reato. 4.2 La verifica condotta in base ai superiori principi ha indotto il giudice costituzionale a negare che in linea di principio la durata unica e fissa delle pene accessorie, previste dalla L. Fall., articolo 216, u.c., sia compatibile con i principi costituzionali di proporzionalità e di necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Nella conformazione strutturale della norma incriminatrice dell’articolo 216 ha riscontrato l’inclusione di una serie di fattispecie tipiche di diverso disvalore sul piano astratto, che si riflette nelle differenziate previsioni delle relative pene principali, nonché una pluralità di comportamenti illeciti compresi nell’ambito delle singole ipotesi di reato, contraddistinti da diversificata gravità in dipendenza delle modalità di aggressione del bene giuridico tutelato. A fronte di siffatta varietà di condotte incriminate, il sistema di pene accessorie di identica durata, stabilito in termini indifferenti rispetto alla qualificazione astratta del reato ascritto all’imputato ai sensi dello stesso articolo 216, comma 1, comma 2 o del comma 3 e quale che sia la gravità concreta delle condotte costitutive di tale reato , nonché alla ricorrenza o meno degli elementi circostanziali, aggravanti o attenuanti, di cui alla L. Fall., articolo 219, incidenti sulla commisurazione delle pene principali, genera risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso . rispetto ai fatti di bancarotta fraudolenta meno gravi , comportando una penalizzante limitazione dei diritti fondamentali del condannato per la protrazione per dieci anni della possibilità di svolgere determinate attività lavorative, che interviene dopo avere già espiato la pena principale ed anche quando la esecuzione di questa sia in concreto avvenuta mediante accesso a misure alternative alla carcerazione, che finiscono per risultare meno afflittive delle sanzioni accessorie. 4.3 Al riscontrato vulnus ai principi costituzionali di eguaglianza e della funzione rieducativa della pena la Corte costituzionale ha inteso porre rimedio mediante una soluzione che supera il precedente arresto, espresso nella sentenza numero 134 del 2012, pur nel garantito rispetto delle prerogative del legislatore. Premesso che è rimasta senza seguito la sollecitazione rivolta al legislatore con la citata pronuncia del 2012 ad intervenire con una riforma organica del sistema delle pene accessorie che le rendesse coerenti col principio di cui all’articolo 27 Cost., comma 3, la Consulta ha riscontrato la vistosa sproporzione del trattamento punitivo previsto dalla L. Fall., articolo 216, u.c., anche in assenza della individuazione da parte del giudice rimettente di altra disposizione di legge, da prendere in considerazione quale elemento comparativo e ha esercitato il proprio potere correttivo della disposizione di legge riconosciuta incostituzionale con la sostituzione del trattamento punitivo in essa previsto, sulla base del riscontro di precisi punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo , intesi quali soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata , secondo le indicazioni esegetiche offerte dalla precedente sentenza numero 236 del 2016. In coerenza con siffatto criterio ha rintracciato nello stesso corpo normativo che delinea i reati fallimentari i necessari punti di riferimento per condurre l’operazione additiva, imposta dall’esigenza di rimuovere la previsione incostituzionale senza privare il sistema normativo dello strumento di tutela degli interessi coinvolti, e li ha individuati nelle disposizioni di cui alla L. Fall., articolo 217 e 218, che incriminano le fattispecie di bancarotta semplice e di ricorso abusivo al credito e prevedono le stesse pene accessorie dell’articolo 216, u.c. ma con durata stabilita discrezionalmente dal giudice sino ad un massimo di due anni per il primo reato e di tre anni per il secondo. Ha quindi trasposto all’interno dell’articolo 216 la medesima formulazione della determinazione delle sanzioni accessorie sino al limite massimo di dieci anni in base ad una valutazione operata caso per caso e disgiunta da quella di commisurazione della pena principale, da ancorare al diverso carico di afflittività ed alla diversa finalità di ciascuna sanzione, che può comportare anche una loro durata maggiore in ragione della funzione, in parte distinta e più marcatamente orientata verso la prevenzione speciale, che il legislatore del 1942 vi ha assegnato. 4.4 La Corte costituzionale ha quindi respinto la diversa opzione, suggerita nell’ordinanza di rimessione, del ricorso al criterio residuale, già esistente nel sistema e dettato dall’articolo 37 c.p., di ancorare la durata delle sanzioni accessorie fallimentari all’entità della pena principale della reclusione questa soluzione finirebbe per sostituire un diverso automatismo a quello legale, reputato incostituzionale, con effetti distonici rispetto all’intento del legislatore storico di punire severamente gli autori di delitti di bancarotta che sono considerati gravemente lesivi degli interessi individuali e collettivi al buon funzionamento del sistema economico. A conclusione del proprio percorso argomentativo ha aggiunto l’avvertenza che la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l’incidente di costituzionalità . 5. La giurisprudenza di legittimità nelle pronunce immediatamente successive alla declaratoria d’incostituzionalità della L. Fall., articolo 216, u.c. rivela l’emersione di due orientamenti contrapposti quanto agli effetti ed alle modalità di reazione alla sentenza della Corte costituzionale. 5.1 I primi interventi in ordine cronologico della Suprema Corte Sez. 5, numero 1963 del 07/12/2018, dep. 2019, Piermartiri Sez. 5, numero 1968 del 07/12/2018, dep. 2019, Montoleone, Rv. 274228 hanno affermato che le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a norma della L. Fall., articolo 216, u.c., nella formulazione derivata dalla sentenza costituzionale numero 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all’articolo 37 c.p. . La soluzione così riassunta si avvale di plurimi concorrenti argomenti. Segnala in primo luogo la circoscrizione della ratio decidendi della pronuncia numero 222 del 2018 al solo profilo della durata fissa sino a dieci anni delle pene accessorie di cui alla L. Fall., articolo 216, u.c., che non implica necessariamente, perché non da essa dipendente e non vincolante, la prospettiva interpretativa dell’inapplicabilità alle medesime pene della regola generale di cui all’articolo 37 c.p Evidenzia poi che, in ordine alla durata delle sanzioni accessorie previste dalla L. Fall., articolo 217 e 218, le cui disposizioni sono state valorizzate quale elemento di comparazione per desumere l’elemento integrativo col quale rimediare alla parziale illegittimità costituzionale della norma scrutinata, la consolidata lezione interpretativa, offerta dalla Corte di cassazione, ne equipara la durata a quella della pena principale, in quanto, essendo stabilita solo nel massimo, resta soggetta alla regola di cui all’articolo 37 c.p. ex multis Sez. 5, numero 15638 del 05/02/2015, Assello, Rv. 263267 Sez. 5, numero 23606 del 16/02/2012, Ciampini, Rv. 252960 Sez. 5, numero 13579 del 02/03/2010, Ografo, Rv. 246712 Sez. 5, numero 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti S.p.a., Rv. 247319 Sez. 5, numero 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987 Sez. 5, numero 2205 del 26/11/1986 - dep. 1987, Raguzzi, Rv. 175171 Sez. 5, numero 8085 del 11/12/1975 - dep. 1976, Ravaioli, Rv. 134137 Sez. 5, numero 690 del 16/10/1973 - dep. 1974, Tonarelli, Rv. 126018 . Le medesime ragioni di soggezione alla disciplina dettata dall’articolo 37 c.p. sono ritenute estensibili anche alle pene previste dall’articolo 216, u.c. nel testo modificato dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 222 del 2018, che non può considerarsi legge speciale da applicarsi in deroga al principio generale. Richiama la soluzione conforme offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza numero 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B, Rv. 262328, seguita in modo quasi unanime dalle successive pronunce delle Sezioni semplici, per la quale rientrano nel novero delle pene accessorie di durata non espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale, ovvero uno soltanto di tali limiti, mentre ne sono escluse solo le pene accessorie perpetue e quelle temporanee stabilite in misura precisa dal legislatore, con la conseguenza che la loro durata deve essere uniformata dal giudice, ai sensi dell’articolo 37 c.p., a quella della pena principale. Infine, avverte come incongruente e foriera di possibili conseguenze pregiudizievoli in malam partem in danno dell’imputato l’interpretazione che, sganciando la commisurazione della pena accessoria da quella della pena principale, finisce per consentire il superamento della durata della prima rispetto a quella della seconda. 5.2 L’ordinanza di rimessione della Quinta Sezione, cui sono seguite altre pronunce conformi che, nel richiamarne il percorso argomentativo, hanno disposto nei medesimi termini l’annullamento delle sentenze impugnate con rinvio al giudice di merito per la rinnovata determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari sul presupposto della sopravvenuta illegalità delle medesime per effetto dell’integrazione del testo della disposizione di legge che le prevede, operata dalla Consulta, Sez. 5, numero 4780 del 20/12/2018, dep. 2019, D’Aquini Sez. 5, numero 5882 del 29/01/2019, Baù, Rv. 274413 Sez. 5, numero 5514 del 18/01/2019, Passafaro Sez. 5, numero 6115 del 14/12/2018, dep. 2019, Sperduti , ha sposato la tesi opposta e ripudiato l’affermazione della necessaria correlazione temporale tra pena principale e pena accessoria. Ha basato il proprio assunto in primo luogo sulla necessità, già suggerita dalla riflessione della giurisprudenza di legittimità civile, di considerare la sentenza additiva della Corte costituzionale numero 222 del 2018 mediante la lettura integrata di dispositivo e motivazione. Sulla base di tale premessa ha osservato che la pronuncia di incostituzionalità, nel condurre la ricerca del referente normativo da utilizzare per l’integrazione della disposizione incostituzionale, ha offerto chiare indicazioni interpretative nel senso di escludere l’operatività della regola dettata dall’articolo 37 c.p. in riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare. Secondo l’ordinanza di rimessione, la riconduzione della nuova formulazione della L. Fall., articolo 216, u.c. nell’ambito di applicazione dell’articolo 37 c.p. non è compatibile con il pronunciamento del giudice costituzionale. Pertanto, al riconoscimento del potere del giudice, chiamato a prendere cognizione dei reati fallimentari, di determinare in autonomia l’entità della pena accessoria rispetto alla commisurazione della pena principale e facendo ricorso ai criteri di cui all’articolo 133 c.p., può pervenirsi attraverso due alternative ermeneutiche possibili la rivisitazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite con la sentenza numero 6240 del 2015, oppure la sottrazione alla disciplina dettata dall’articolo 37 c.p. delle specifiche pene accessorie della L. Fall., articolo 216 nel testo riformulato dalla Corte costituzionale. E a tale scopo ha sollecitato l’intervento risolutore delle Sezioni Unite. 6. Così definito il tema del contrasto giurisprudenziale che impone il sollecitato componimento, si osserva che formalmente la pronuncia di incostituzionalità in esame ha colpito soltanto la L. Fall., articolo 216, u.c. e limitatamente al solo profilo di fissa quantificazione delle sanzioni ivi previste, demandando al giudice ordinario la scelta del relativo criterio commisurativo nel rispetto del solo limite invalicabile di durata decennale, sicché esse potrebbero essere tuttora legittimamente determinate secondo la disciplina dettata dall’articolo 37 c.p., norma che ha conservato la propria perdurante esistenza ed efficacia prescrittiva. La Consulta ha, infatti, scelto di non estendere il proprio potere di scrutinio di legittimità costituzionale, conferitole dalla L. 11 marzo 1953, numero 87, articolo 27, anche alla disposizione da ultimo citata, non ravvisandovi il nesso di consequenzialità rispetto all’articolo 216. Tuttavia, non può ignorarsi l’autorevolezza e la capacità persuasiva del suggerimento interpretativo offerto dal giudice costituzionale in coerenza con la funzione di normazione additiva esercitata, là dove ha escluso che la previsione dell’articolo 37 c.p., come letta dal diritto vivente sino al momento attuale, possa continuare ad essere riferita alle pene accessorie della legge fallimentare ed a sancire l’obbligatorio adeguamento della loro durata a quella della pena della reclusione. La formulazione di tale soluzione non è avulsa dal quesito rivolto al giudice costituzionale, investito da ordinanza, la cui motivazione prospetta che L’esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio che, anziché prevedere una ingiustificata equiparazione di situazioni profondamente differenti, renda possibile tale adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna, potrebbe, d’altra parte, in larga parte essere soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento alla misura fissa di dieci anni, rivivesse la regola generale di cui all’articolo 37 c.p. . In altri termini, l’evocazione del parametro commisurativo dettato da quest’ultima norma rientra nel fascio di possibili opzioni decisorie prospettate nella questione formulata dal giudice rimettente, sicché rispetto ad essa l’espressione del parere del giudice delle leggi si mantiene nell’ambito della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sancita dalla L. 11 marzo 1953, numero 87, articolo 27. Queste Sezioni Unite, pur nella consapevolezza della non obbligatoria conformazione alle indicazioni del giudice costituzionale, perché non di matrice legislativa, tuttavia ritengono di dovervi aderire in quanto conformi ai precetti costituzionali ed avvalorate dall’interpretazione letterale-logico-sistematica. 7. Il codice penale dopo la parte dedicata alle pene principali, incidenti in senso proprio sulla libertà personale dell’imputato, al capo III, titolo II, libro I prevede le pene accessorie, la cui caratteristica peculiare consiste nel limitare la capacità giuridica individuale nell’esercizio di diritti, poteri, attività e funzioni e che nella visione del legislatore del 1930 assolvono ad una funzione complementare rispetto alle sanzioni principali in quanto, secondo la Relazione ministeriale al progetto definitivo, che dà conto dei lavori preparatori, non posseggono una efficienza tale, per cui possano riuscire, per sé medesime, sufficienti a realizzare gli scopi intimidativi ed afflittivi della repressione . Dalla loro insufficienza punitiva discende la necessità dell’applicazione congiunta ad altre sanzioni, cui appunto accedono, rivelando la astratta posizione ancillare dal punto di vista sistematico sin dalla loro denominazione. Per espressa indicazione normativa, rinvenibile nell’articolo 20 c.p., esse sono considerate appartenere alla più ampia categoria degli effetti penali della condanna, cui conseguono di diritto . La concreta individuazione della misura applicabile al soggetto condannato quale pena accessoria costituisce operazione agevole quando sia il legislatore a definirla direttamente tale in disposizione codicistica o in testi di legge speciale, in difetto dei quali va condotta in base alla natura della sanzione in dipendenza della sua capacità afflittiva e del finalismo cui è orientata. Il sistema penale riflette il principio di fondo dell’automatismo applicativo, che ispira tutta la regolamentazione delle pene accessorie se ne trae conferma dalla formulazione dello stesso articolo 20 c.p., che, nel contrapporre il meccanismo di determinazione giudiziale discrezionale introdotto per le pene principali, stabilisce quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa . Le locuzioni del testo normativo esprimono già di per sé il ripudio e la sfiducia in un intervento cognitivo rimesso al libero convincimento del giudice, sia sull’an dell’applicazione, che sul quomodo e sul quantum della durata della pena accessoria, sottratto alla commisurazione individualizzata e correlata al caso di specie, al punto da avere autorizzato giurisprudenza e dottrina ad esentare il giudice da espressa inflizione e motivazione al riguardo, rimediabile quanto al primo aspetto in sede di esecuzione. Soltanto in casi limitati e residuali, previsti dall’articolo 32 c.p., comma 3, e articolo 36 c.p., comma 2 e comma 3, oltre che da altre disposizioni della legislazione speciale, è rimessa al giudice la scelta circa l’inflizione della sanzione accessoria o la determinazione delle relative modalità attuative. Il medesimo criterio dell’automatismo permea anche la disciplina legale della determinazione della durata delle pene accessorie, per lo più di tipo temporaneo e solo in via di eccezione perpetue, basato su rigidi parametri legislativi. La regolamentazione originaria delle pene accessorie ha subito successivi interventi di modifica, numericamente limitati e dai contenuti poco incisivi sul piano qualitativo, perché riguardanti l’ampliamento dello strumentario delle sanzioni e dei loro effetti, ma non il procedimento applicativo e commisurativo, che non sono stati sottoposti a revisione critica sul piano dogmatico. In tale senso si segnalano la L. 24 novembre 1981, numero 689, introduttiva di nuove disposizioni in materia di pene accessorie, nonché la L. 7 febbraio 1990, numero 19, che all’articolo 4 ha riformulato l’articolo 166 c.p. ed all’articolo 7 ha abrogato l’articolo 175 c.p., comma 4, eliminando il divieto di applicazione alle pene accessorie dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione della condanna. Ulteriore parziale modifica della disciplina delle sanzioni in esame è stata apportata con il codice di rito del 1988, che all’articolo 217 disp. att. c.p.p. ha soppresso la previsione della loro applicazione provvisoria, già contenuta nell’articolo 140 c.p. ed in ogni altra disposizione di legge ed all’articolo 445 c.p.p. ha escluso dalla sottoposizione a pene accessorie l’imputato che chieda ed ottenga di definire il processo col rito alternativo dell’applicazione della pena ex articolo 444 c.p.p Recependo la generalizzata invocazione degli interpreti di un riassetto normativo della materia per adeguarla ai mutamenti sociali ed economici verificatisi nel paese dall’introduzione del codice Rocco ed alla sempre più incisiva afflittività delle sanzioni complementari, che, grazie ai meccanismi di espiazione della pena detentiva in forma alternativa alla carcerazione, possono risultare le uniche ad essere realmente subite dal condannato ed a comprimere la sua sfera giuridica in aspetti fondamentali, assistiti da tutela costituzionale, i susseguitisi progetti di riforma del codice penale hanno elaborato varie soluzioni, che non hanno però ricevuto positivo accoglimento da parte del legislatore. Del pari non è stata ottemperata la delega, che è stata conferita al Governo con la L. 23 giugno 2017, numero 103, perché intervenisse, seppur in riferimento all’ordinamento penitenziario, con una riforma della disciplina delle pene accessorie in grado di rimuovere gli ostacoli al reinserimento sociale del condannato e di scongiurare l’effetto del superamento della loro durata rispetto a quella della pena principale. Anche la recente L. 9 gennaio 2019, numero 3, ha operato un mero intervento settoriale in riferimento ai reati contro la pubblica amministrazione e, in un quadro di modifiche volte all’inasprimento sanzionatorio, ha apportato novità sul piano sostanziale e processuale con un aggravamento del regime punitivo e con misure volte a consolidare nel tempo gli effetti delle pene accessorie, limitando i requisiti di accesso alla riabilitazione ed escludendo dalla sua applicazione alcune pene, oltre che prevedendone l’irrogazione anche in caso di definizione del processo con sentenza di patteggiamento o nei confronti di condannati a pena condizionalmente sospesa, che però hanno mantenuto immutato l’impianto originario codicistico. 7.1 Uno degli aspetti più problematici e controversi che l’attuale regolamentazione delle pene accessorie pone attiene alla determinazione della loro durata. Al riguardo l’articolo 37 c.p. prevede che quando la legge stabilisce che la condotta importa una pena accessoria temporanea e la durata di questa non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta o che dovrebbe scontarsi nel caso di conversione per insolvibilità del condannato . Se è pacifico che sono esclusi dalla soggezione a siffatta regola equiparativa i casi più semplici in cui la legge stabilisce direttamente la durata perpetua della pena accessoria, come prescrivono l’articolo 29 e l’articolo 317-bis c.p. per l’interdizione dai pubblici uffici Sez. 1, numero 8126 del 06/12/2017, dep. 2018, Ngwoke, Rv. 272408 Sez. 5, numero 33150 del 30/03/2018, Pacchioni , oppure la sua temporanea protrazione per un periodo unico ed invariabilmente fisso, ad esempio nel caso di cui all’articolo 512 c.p., altrettanto agevole è ricondurvi le ipotesi in cui nella norma sia assente ogni indicazione temporale, prevedendo essa soltanto la tipologia di pena da infliggere, come accade per alcune delle ipotesi previste dall’articolo 609-nonies c.p È, invece, discussa l’individuazione del significato da attribuire al riferimento a pena non espressamente determinata , presupposto per l’attuazione concreta della prescrizione, in tutte le altre situazioni in cui, specie in ambiti trattati dalla legislazione speciale, la legge si limita a stabilire un limite minimo ed altro massimo di durata con un possibile intervallo compreso tra i due estremi, oppure una sola soglia temporale insuperabile ed una protrazione non inferiore o non superiore a tale soglia. 7.2 Si registrano due contrapposte opinioni. La prima, sostenuta, sia dalla giurisprudenza di legittimità assolutamente maggioritaria, sia in dottrina, riconosce l’espressa determinazione normativa quando il legislatore stabilisca in modo concreto e preciso la durata della pena, mentre in tutti gli altri casi in cui sono specificati il minimo e il massimo, ovvero solo il minimo o solo il massimo, la sua quantificazione resta soggetta alla regola dell’articolo 37 c.p. con automatica e rigida conformazione alla pena principale inflitta Sez. 3, numero 8041 del 23/01/2018, Carlessi, Rv. 272510 Sez. 3, numero 20428 del 02/04/2014, S., Rv. 259650 Sez. 5, numero 29780 del 30/06/2010, Ramunno, Rv. 248258 Sez. 3, numero 41874 del 09/10/2008, Azzani, Rv. 241410 Sez. 1, numero 19807 del 22/04/2008, Ponchia, Rv. 240006 Sez. 5, numero 4727 del 15/03/2000, Albini, Rv. 215987 . La contraria soluzione, meno affermata, esclude l’applicazione dell’articolo 37 c.p. quando la pena accessoria è indicata con la previsione di un minimo o di un massimo, giacché anche in tal caso la pena accessoria deve considerarsi espressamente stabilita dalla legge, che demanda al giudice di dosarne la protrazione temporale, facendo ricorso ai parametri di cui all’articolo 133 c.p. Sez. 6, numero 697 del 03/12/2013, dep. 2014, Antonelli, Rv. 257850 Sez. F, numero 35729 del 01/08/2013, Agrama, Rv. 256581 Sez. 3, numero 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538 Sez. 3, numero 25229 del 17/04/2008, Ravara, Rv. 240256 Sez. 3, numero 42889 del 15/10/2008, Di Vincenzo, Rv. 241538 Sez. 5, numero 759 del 21/09/1989, Denegri, Rv. 183110 . Nel contrasto tra i due orientamenti si è inserita la pronuncia delle Sezioni Unite, numero 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B, Rv. 262328, che, chiamata a dirimere una divergenza interpretativa in ordine ai poteri del giudice dell’esecuzione di rilevare, dopo la formazione del giudicato di condanna, l’illegalità della pena accessoria applicata extra o contra legem in sede di cognizione, ha offerto risposte ermeneutiche anche al tema coinvolto nel presente procedimento. Ha riconosciuto che, per il disposto dell’articolo 183 disp. att. c.p.p. ed in coerenza con i limitati poteri del giudice dell’esecuzione, cui compete dare attuazione al comando giudiziale irrevocabile, interpretandolo ed integrandolo, senza poterlo esprimere, nemmeno in riferimento al trattamento sanzionatorio, l’illegalità della pena accessoria può essere rilevata a condizione che essa sia determinata per legge ovvero determinabile, senza alcuna discrezionalità, nella specie e nella durata, e non derivi da errore valutativo del giudice della cognizione . Nella conseguente ricognizione delle tipologie di pena accessoria che ammettono il riconosciuto intervento emendativo in fase esecutiva in assenza di apprezzamento discrezionale, le Sezioni Unite vi hanno incluso anche le ipotesi previste dall’articolo 37 c.p. e hanno affrontato il nodo interpretativo posto da quest’ultima disposizione, aderendo all’indirizzo maggioritario. A sostegno di tale soluzione si è evidenziato che - l’esegesi letterale della disposizione in esame induce a riconoscere come espressamente determinata soltanto la pena che sia stata fissata precisamente dal legislatore nella specie e nella durata senza lasciare nessuno spazio per una commisurazione discrezionale del giudice a riprova si indica la formula lessicale prescelta dal legislatore, che non adopera le preposizioni da a , cui ordinariamente ricorre nell’indicare la pena principale per i reati, ma sempre le parole non inferiore e non superiore oppure fino a , sicché non può parlarsi neppure di uno spettro , di una forbice o di un intervallo edittale - conferma ulteriore è desumibile dall’articolo 183 disp. att. c.p.p., che consente di rimediare, in sede esecutiva, in malam partem, alla omissione dell’applicazione di una pena accessoria, sempre che sia predeterminata nella specie e nella durata - ulteriore argomento testuale, che avvalora l’orientamento accolto, è rintracciato nell’inciso finale del medesimo articolo 37 c.p., secondo cui in nessun caso può oltrepassarsi il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria , che sarebbe superfluo qualora il principio della uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria, sancito dalla norma, non dovesse rispettarsi nelle ipotesi di indicazione di un minimo o di un massimo della durata di ciascuna specie di pena accessoria - la collocazione sistematica della norma alla fine del Capo III del Titolo II del Libro I del codice penale, indica la funzione dell’articolo 37 c.p. quale disposizione generale e di chiusura , applicabile in ogni situazione in cui difetti una precisa indicazione quantitativa della pena accessoria da applicare. Le Sezioni Unite hanno quindi offerto ulteriori spunti di riflessione sul tema, avendo rinvenuto argomenti a conferma dell’indirizzo recepito nella già citata sentenza numero 134 del 2012, con la quale la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del R.D. 16 marzo 1942, numero 267, articolo 216, u.c., sollevate in riferimento agli articolo 3 e 4 Cost. nonché degli articolo 27 e 41 Cost., declinando di apportare l’addizione normativa richiesta dai giudici rimettenti mediante l’aggiunta delle parole fino a al testo della L. Fall., articolo 216, u.c., al fine di rendere applicabile l’articolo 37 c.p 7.3 La successiva evoluzione delle linee interpretative emerse nella giurisprudenza di legittimità mostra un prevalente allineamento ai principi espressi dalle Sezioni Unite con la sentenza numero 6240 del 2015. In riferimento alla sanzione accessoria prevista per i reati tributari dal D.Lgs. numero 10 marzo 2000, numero 74, articolo 12 afferma il principio di uniformazione temporale alla durata della pena principale inflitta Sez. 3, numero 8041 del 23/01/2018, Carlessi, Rv. 272510, che, in contrasto con la sentenza Sez. 3, numero 4916 del 14/07/2016, dep. 2017, Bari, Rv. 269263, ha ribadito l’adesione ai principi delle Sezioni Unite numero 6240 del 2015 in termini analoghi, Sez. 3, numero 35855 del 11/05/2016, Scrollini Sez. 3, numero 38825 del 12/04/2018, Festa Sez. 7, numero 1306 del 27/10/2017, dep. 2018, Mantelli Sez. 7, numero 53265 del 23/09/2016, Petrone Sez. 3, numero 37853 del 18/06/2015, Ceriani Sez. 3, numero 29397 del 20/04/2016, Cafarelli Sez. 3, numero 19100 del 24/02/2016, Genova Sez. 3, numero 23657 del 26/01/2016, Incorvaia Sez. 3, numero 37870 del 18/06/2015, Ferraretti Sez. 3, numero 13218 del 20/11/2015, dep. 2016, Reggiani Sez. 1, numero 25809 del 05/05/2015, Bonalumi . Il medesimo principio è stato espresso per la pena accessoria comminata solo nel massimo dal D.P.R. numero 9 ottobre 1990, numero 309, articolo 85 Sez. 3, numero 36869 del 28/06/2016, Morabito Sez. 3, 19964 del 14/12/2016, dep. 2017, Corvi . Alla stessa soluzione sono approdate le pronunce occupatesi delle pene accessorie per i reati previsti dal codice penale in materia di violenza sessuale rispetto alle previsioni dell’articolo 609-nonies c.p., comma 1, numero 4 , che distingue l’interdizione temporanea dai pubblici uffici dall’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque in seguito alla condanna alla reclusione da tre a cinque anni, è stato affermato che, nella prima ipotesi, in cui la pena accessoria non presenta durata espressamente determinata dalla legge penale, il giudice deve equipararla a quella della pena principale ai sensi dell’articolo 37 c.p. Sez. 3, numero 40679 del 01/07/2016, C., Rv. 268080 . Sulla stessa linea interpretativa si collocano le pronunce in tema di reati fallimentari e relative pene accessorie in riferimento alla fattispecie di bancarotta semplice documentale, è stato affermato che, essendo la pena accessoria prevista dalla L. Fall., articolo 217, u.c. determinata solo nel massimo e fino a due anni, essa debba determinarsi in una durata eguale a quella della pena principale inflitta, ai sensi dell’articolo 37 c.p. Sez. 5, numero 50499 del 4/07/2018, V. Sez. 5, numero 13079 del 3/12/2015, dep. 2016, Corgiolu Sez. 5, numero 37204 del 14/04/2017, Falchi Sez. 5, numero 15638 del 5/02/2015, Assello, Rv. 263267 . 8. Le Sezioni Unite ritengono che, per quanto qui rileva, l’indirizzo espresso dalla precedente sentenza numero 6240 del 2015, debba essere superato, poiché gli argomenti addotti a sostegno della soluzione proposta, - che solo incidentalmente ed a livello esemplificativo si era occupata del tema della durata delle pene accessorie prescritte dalla L. Fall., articolo 216, u.c., pur pregevoli, non meritano condivisione. 8.1 L’analisi testuale, già condotta dalle Sezioni Unite, non considera che sul piano lessicale, là dove l’articolo 37 c.p. menziona la pena espressamente determinata, richiede che la tecnica legislativa contempli una esplicita indicazione di estensione cronologica della sua durata, che non può intendersi nel solo significato di quantificazione in misura unica, fissa, invariata ed invariabile. Come evidenziato anche da alcuni interpreti in dottrina, sul piano terminologico una previsione espressa richiede una dichiarazione esternata, manifestata nel testo e quindi non implicita o sottintesa ed a tale definizione corrisponde anche la previsione di una sanzione da determinare entro un intervallo compreso tra minimo e massimo edittale o in entità non inferiore o non superione ad uno solo dei due estremi. Inoltre, non è condivisibile nemmeno l’osservazione, che valorizza l’inserimento nel testo delle singole disposizioni che stabiliscono le pene accessorie dell’espressione fino a , o della previsione di un unico limite invalicabile al di sotto o al di sopra del quale non è consentito modulare l’entità della sanzione, come caratteristico della tecnica legislativa riferita alle sole pene complementari. Anche volendo arrestare la disamina alle sole norme incriminatrici codicistiche, si riscontra come questa sia la modalità di formulazione usuale e tipica delle disposizioni che descrivono le fattispecie penali di minore gravità, per le quali le sanzioni detentive e/o pecuniarie sono contenute in modo da non superare rispettivamente i due-tre anni e qualche migliaio di Euro, anche se non mancano casi di alcuni delitti di maggiore gravità, per i quali si è adottata la medesima scelta lessicale. Gli esempi sono innumerevoli nel settore dei delitti contro la personalità internazionale dello Stato l’articolo 241 c.p. incrimina gli attentati contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, che punisce con la reclusione non inferiore a dodici anni gli articolo 243 e 247 c.p. comminano ciascuno la pena della reclusione non inferiore a dieci anni a chi compia intelligenze con lo straniero a scopo di guerra o favoreggiamento bellico ed, analogamente, dispongono in riferimento a soglie limite diverse gli articolo 248, 249, 252, 253, 255, 257, 258, 261, 262, 263, 264, 265, 267 nel Capo dei delitti contro la personalità interna dello Stato gli articolo 280, 280-ter, 283 c.p. provvedono in egual modo. Ed ancora analoga formulazione presentano tra i delitti contro la pubblica amministrazione l’articolo 326, comma 2, articolo 329, 335, 340, 341-bis, 343, 347, 348 e 354 tra i delitti contro l’incolumità pubblica l’articolo 422 c.p. e l’articolo 439 c.p., comma 1 tra i delitti di comune pericolo mediante frode l’articolo 444, comma 1 tra i delitti colposi di comune pericolo l’articolo 450 c.p, comma 1 e comma 2, e l’articolo 451 c.p. tra i delitti contro la fede pubblica gli articolo 457, 462 e 464 c.p. tra i delitti di falso in sigilli gli articolo 471 e 472 c.p tra i delitti di falso in atti gli articolo 481, comma 1, 483, comma 1, 484 c.p. tra i delitti di falsità personale l’articolo 494 c.p., l’articolo 495 c.p., comma 2, e l’articolo 495-bis c.p. e l’articolo 497 c.p. tra i delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio l’articolo 501 c.p., l’articolo 502 c.p., comma 1 e comma 2, gli articolo 503, 504, 507 e 508 c.p. tra i delitti contro l’industria e il commercio l’articolo 513 c.p., l’articolo 515 c.p., comma 1 e comma 2, gli articolo 516, 517, 517-ter, 517-quater c.p. tra i delitti contro l’assistenza familiare gli articolo 570, 571 e 573 c.p. tra i delitti contro la persona gli articolo 575, 581, 588, 589-ter, 590, 590-ter e 593 c.p. tra i delitti contro l’onore l’articolo 595 c.p. tra i delitti contro la libertà personale gli articolo 606, 607, 608, 609, 610, 611, 612 c.p., l’articolo 613 c.p., comma 1 e comma 3 tra i delitti contro l’inviolabilità del domicilio l’articolo 615-ter c.p., comma 1, articolo 615-quater e 615-quinquies c.p. tra i delitti contro l’inviolabilità dei segreti l’articolo 616 c.p., comma 1 e comma 2, l’articolo 622 c.p., comma 1, l’articolo 623 c.p., comma 1 tra i delitti contro il patrimonio l’articolo 626 c.p., comma 1, articolo 627, 631, 632, 633 e 634 c.p., l’articolo 636 c.p., comma 2 e comma 3, articolo 637 c.p., articolo 638 c.p., comma 1, articolo 639 c.p., comma 1 tra i delitti contro il patrimonio mediante frode gli articolo 640-quinquies, 641, 646 e 647 c.p La medesima tecnica espressiva è riscontrabile nelle disposizioni che incriminano le fattispecie contravvenzionali quando siano punite con la pena principale detentiva dell’arresto, previsto sino ad un tetto massimo o in misura non inferiore ad una soglia minima, sicché il criterio esegetico basato sul testo e sulla formulazione terminologica non appare risolutivo e non consente di negare che in tali situazioni per volontà legislativa il trattamento punitivo sia graduabile nell’ambito di un intervallo compreso tra due estremi opposti ed invalicabili. 8.2 Non si ritiene conferente ed utile all’analisi condotta nemmeno il richiamo all’articolo 183 disp. att. c.p.p. la disposizione, sul piano sistematico collocata in un differente contesto, quello dell’esecuzione penale, assolve ad una funzione differente, che prescinde dal meccanismo di quantificazione legale della pena accessoria, ma appresta uno strumento integrativo ed emendativo dell’error in iudicando contenuto nella sentenza di condanna per effetto dell’omessa applicazione della pena stessa, pur doverosa, strumento la cui attivazione si è consentita in via interpretativa anche per l’ulteriore scopo di correggere profili di illegalità del giudicato a presidio della costante conformità alla legge del trattamento punitivo sino ai suoi aspetti complementari. Che poi la norma ripeta, variandola, la locuzione determinata dalla legge , rinvenibile anche nell’articolo 37 c.p., cui aggiunge la specificazione nella specie e nella durata , non apporta alcun contributo valorizzabile, nè contenutistico, nè definitorio, in grado di offrire argomenti alla lettura proposta dalla sentenza numero 6240 del 2015, posto che la nozione di specie di pena accessoria rimanda all’elencazione dell’articolo 19 c.p. senza descrivere nulla di più e senza poter orientare la soluzione del quesito ermeneutico che si sta affrontando. In definitiva, la considerazione sul piano lessicale, teleologico e sistematico convince dell’irrilevanza del raffronto comparativo tra la norma dell’articolo 183 citato e l’articolo 37 c.p., poiché entrambe pongono e non risolvono sul piano dell’immediata disciplina positiva la medesima problematica dell’individuazione di cosa s’intenda per determinazione legale della durata della pena accessoria. 8.3 L’ulteriore argomento letterale, tratto dall’ultima proposizione dell’articolo 37 c.p., che impone il rispetto in tutti i casi del limite minimo e di quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria, non assume il preteso significato di conferma della applicabilità dello stesso articolo 37 in dipendenza della mancata determinazione per legge della durata quando la stessa sia prevista con riferimento agli estremi edittali, individuati nella singola norma incriminatrice. Questa lettura dell’inciso non è l’unica possibile per riconoscere l’utilità e l’autonoma portata precettiva della previsione, altrimenti superflua. Al contrario, essa impartisce un criterio commisurativo che assicuri il mancato superamento dei limiti di durata indicati in linea generale dal codice penale agli articolo 28-36 per ciascuna specie di pena accessoria sul presupposto che la singola fattispecie, inserita nello stesso codice o nelle leggi speciali, non li contempli. 8.4 Ed, infine, la collocazione sistematica dell’articolo 37 c.p. a conclusione delle altre disposizioni sulle pene accessorie, se conferma l’intento di approntare una norma di chiusura che completi il quadro normativo dedicato alle sanzioni complementari, non autorizza la conclusione rassegnata dalla sentenza numero 6240 del 2015 e ad elevarne la disciplina al rango di regola generale quello previsto costituisce un meccanismo decisorio, suscettibile di fornire soluzione pratica di immediata attuazione anche per la futura introduzione di nuove ipotesi di pena accessoria, prive di previsioni sanzionatorie, a fronte di un sistema codicistico che nella sua parte generale contiene per ciascuna pena un proprio regolamento edittale e la gamma di criteri orientativi a guidare l’operato del giudice, stabiliti dagli articolo 132 e 133 c.p Come segnalato da attenta dottrina, la formulazione dispositiva di questi articoli non contiene nessun riferimento letterale che consenta di escludere dall’ambito di applicazione le pene accessorie e di privilegiare l’opposto meccanismo quantificativo dettato dall’articolo 37 l’articolo 132 c.p. menziona soltanto l’attività del giudice che applica la pena discrezionalmente senza aggiungere altre qualificazioni sul tipo di pena e l’articolo 133 c.p. indica criteri logici non riferibili soltanto a quelle principali. Ne discende che la regola della equiparazione meccanica della durata della pena accessoria a quella della pena principale in concreto inflitta assume piuttosto una funzione residuale, cui fare ricorso nei casi in cui la legge in astratto sia priva di qualsiasi indicazione sul profilo temporale che circoscriva e guidi l’esercizio del potere dosimetrico del giudice. 8.5 Ad avviso del Collegio, la riflessione esegetica sul tema in esame non può prescindere dalla considerazione che la decisione da assumere interviene all’esito di un diverso pronunciamento del giudice costituzionale, che, innestandosi su un orientamento esplicitato nella sentenza numero 236 del 21/09/2016 in riferimento alla fattispecie di reato di cui all’articolo 567 c.p., comma 2, ed allo specifico carico sanzionatorio in essa previsto, sull’identico quesito, già esaminato con la citata sentenza numero 143 del 2012, ha mutato radicalmente posizione ed il quadro degli orizzonti esegetici. Se, quindi, nella pronuncia della Corte costituzionale numero 134 del 2012 vi era l’implicito riconoscimento che la soluzione indicata dai giudici rimettenti una delle possibili , è cioè con l’aggiunta alla disposizione normativa delle parole fino a , avrebbe reso possibile l’applicazione dell’articolo 37 c.p. , la netta opzione di disfavore per l’automatismo punitivo sotto l’aspetto dosimetrico riferito alle pene accessorie, espresso nella sentenza numero 222 del 2018, priva la soluzione in precedenza assunta dalle Sezioni Unite di questa Corte del suo referente sul piano dell’ermeneutica costituzionale. Tanto autorizza una lettura alternativa dell’articolo 37 c.p., che tenga conto dell’evoluzione maturata negli ultimi decenni nell’interpretazione del trattamento sanzionatorio e della sua funzione. 9. La giurisprudenza costituzionale sin dagli anni sessanta del secolo scorso sentenze numero 67 del 1963 e numero 104 del 1968 ha posto in evidenza che i principi costituzionali, quello generale di uguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. e quelli, specificamente riferiti alla materia penale, di legalità, di personalità della responsabilità e della finalità rieducativa della pena, dettati dagli articolo 25 e 27 Cost., possono ricevere attuazione nella legislazione ordinaria mediante previsioni sanzionatorie caratterizzate da mobilità della pena, che si realizza attraverso la prescrizione quantitativa, compresa tra un minimo ed un massimo, e sul piano applicativo esigono l’intervento commisurativo giudiziale, riferito al caso specifico, che traduce la regolamentazione astratta nell’inflizione di una pena scelta in via discrezionale nell’ambito dei due estremi, individualizzata e proporzionata alle caratteristiche della fattispecie concreta in base ai parametri di cui all’articolo 133 c.p Illuminante al riguardo il passaggio della sentenza numero 50 del 1980, nel quale la Consulta aveva affermato che L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, proporzione della pena rispetto alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che è essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potestà punitiva statuale , per concludere che in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il volto costituzionale del sistema penale ed il dubbio d’illegittimità costituzionale potrà essere, caso per caso, superato a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, questa ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato in senso conforme, sentenze numero 236 del 2016, numero 341 del 1994 e numero 409 del 1989 . Raffrontata con i superiori principi, che pretendono elasticità nella previsione astratta e discrezionalità nella sua attuazione in riferimento alla situazione fattuale concreta, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa di qualunque ne sia la specie è per ciò solo indiziata di illegittimità Corte Cost., numero 222 del 2018 ed ogni automatismo sanzionatorio, che sottragga alla giurisdizione il compito di apprezzare la specificità del caso e di offrirvi risposta adeguata e differenziata, va scongiurato perché in contrasto con il volto costituzionale della repressione penale e con la funzione rieducativa e di reinserimento sociale della punizione, che richiede il rispetto della proporzione per qualità e quantità col fatto di reato, con la sua offensività e con la personalità del suo autore, da garantire nella fase della irrogazione, così come in quella dell’esecuzione sentenza numero 257 del 2006 in senso conforme sentenza numero 79 del 2007 . Nella medesima ottica di assicurare reazioni repressive adeguate e personalizzate devono leggersi gli interventi demolitori del giudice costituzionale in materia penitenziaria, per la quale ha riconosciuto quale criterio costituzionalmente vincolante l’esclusione di rigidi automatismi che si realizza soltanto con una valutazione individualizzata caso per caso sentenza numero 436 del 1999 in senso conforme sentenza numero 257 del 2006 in senso conforme sentenza numero 79 del 2007 numero 255 del 2006, numero 189 del 2010 , pena l’inammissibile sacrifico del profilo rieducativo della pena. Indicazioni solo all’apparenza contrastanti sono rinvenibili nelle più recenti pronunce della Corte costituzionale, occupatesi della legittimità delle disposizioni di legge contenenti per specifiche figure di reato la previsione di una pena pecuniaria di entità fissa o proporzionale, congiunta a pena detentiva mobile e determinabile nell’ambito di una forbice tra minimo e massimo. Nell’escludere il contrasto con i principi costituzionali, la Consulta ha valorizzato l’assetto normativo complessivo del trattamento sanzionatorio, articolato in due specie di pene ed in base di diversi criteri di commisurazione e riscontrato in tali situazioni la consentita possibilità per il giudice, quanto meno per la reclusione o l’arresto, o comunque in ragione della quantificazione proporzionale della sanzione pecuniaria, di graduare ed adattare con apprezzamento discrezionale la pena alle peculiarità della singola situazione giudicata, confermando l’orientamento ormai consolidato della illegittimità costituzionale delle sole pene stabilite in misura fissa ed invariabile, salvo che le stesse non siano introdotte per punire fattispecie di reato che, per la loro natura, manifestino lo stesso disvalore e lo stesso grado di offensività, non richiedendo quindi una graduazione di sanzione Corte Cost., sentenza numero 233 del 2018 sentenza numero 142 del 2017 ordinanza numero 91 del 2008 . Anche il legislatore dal canto suo nella produzione normativa postcodicistica ha mostrato un mutato atteggiamento verso l’automatismo applicativo delle pene accessorie in contrasto con la filosofia ispiratrice l’introduzione dell’articolo 37 c.p., allorché, come già detto, ha modificato l’articolo 166 c.p., consentendo l’estensione della sospensione condizionale anche alle pene accessorie ed impedendone l’attuazione provvisoria in dipendenza della pronuncia di condanna non irrevocabile. La considerazione autonoma delle pene accessorie emerge rafforzata dalla recente L. 9 gennaio 2019, numero 3, la quale in un quadro di interventi volti al rafforzamento degli strumenti repressivi e preventivi dei reati contro la pubblica amministrazione, ha inciso anche sulla sottoposizione del condannato alle pene accessorie, mediante, sia l’allargamento dell’area delle fattispecie che ne determinano l’applicazione, l’aggravamento della loro durata e la loro irrogazione anche nei casi di pena già espiata, pena condizionalmente sospesa e pena patteggiata, sia la distinzione dei requisiti temporali di accesso alla riabilitazione per le pene accessorie rispetto a quelli valevoli per la pena principale e l’inibizione dell’operatività su quelle di durata perpetua dell’effetto estintivo conseguente all’esito positivo dell’affidamento in prova. 9.1 I principi interpretativi che si richiamano ai valori costituzionali di colpevolezza e proporzionalità e che si oppongono agli automatismi ed alla rigida regolamentazione sanzionatoria, oltre che richiamati a monito per il legislatore ordinario, che vi deve dare attuazione nella sua produzione normativa, offrono spunti inediti per una considerazione differente e costituzionalmente orientata anche del meccanismo parificativo vincolante, previsto dall’articolo 37 c.p., sotto l’unico profilo del quantum di pena accessoria irrogabile, posto che l’indefettibilità della sua applicazione discende dalla legge e dalla esplicita e testuale definizione di effetto penale della condanna. I predetti principi non consentono di interpretare l’articolo 37 c.p. come prescrittivo di un automatismo che, seppur mediato dall’aggancio alla misura della pena principale, questa sì stabilita in via discrezionale dal giudice, rappresenta pur sempre un sistema rigido di determinazione del trattamento punitivo, che non trova giustificazione soprattutto se si considera la funzione cui assolvono le pene accessorie, l’estrema varietà delle condotte che, in violazione dei precetti penali, realizzano le condizioni per la loro inflizione ed il severo carico di afflittività che le contraddistingue. 9.2 Secondo l’opinione più accreditata in dottrina le pene principali svolgono funzioni retributive, preventive di carattere generale e speciale, nonché rieducative mediante la sottoposizione al trattamento orientato al graduale reinserimento sociale del condannato le pene accessorie, specie quelle interdittive ed in abilitative, collegate al compimento di condotte postulanti lo svolgimento di determinati incarichi o attività, sono più marcatamente orientate a fini di prevenzione speciale, oltre che di rieducazione personale, che realizzano mediante il forzato allontanamento del reo dal medesimo contesto operativo, professionale, economico e sociale, nel quale sono maturati i fatti criminosi e dallo stimolo alla violazione dei precetti penali per impedirgli di reiterare reati in futuro e per sortirne l’emenda. Ebbene, la piena realizzazione soprattutto dello specifico finalismo preventivo, cui sono preordinate le pene complementari, richiede una loro modulazione personalizzata in correlazione con il disvalore del fatto di reato e con la personalità del responsabile, che non necessariamente deve riprodurre la durata della pena principale. Risultato questo conseguibile soltanto ammettendone la determinazione caso per caso ad opera del giudice nell’ambito della cornice edittale disegnata dalla singola disposizione di legge sulla scorta di una valutazione discrezionale, che si avvalga della ricostruzione probatoria dell’episodio criminoso e dei parametri dell’articolo 133 c.p. e di cui è obbligo dare conto con congrua motivazione. Al contrario, la perequazione automatica di cui all’articolo 37 c.p., nella lettura che ne è stata offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza numero 6240 del 2015, non estesa alla considerazione della funzione svolta dalle pene accessorie e delle linee evolutive della giurisprudenza costituzionale, non consente risposte individualizzate e graduate in dipendenza delle peculiarità del caso, delle esigenze specifiche ad esso sottese, nonché delle caratteristiche di afflittività delle singole sanzioni accessorie, incidenti in senso fortemente limitativo sul diritto al lavoro e sul diritto di iniziativa economica, oltre che su altri aspetti della vita individuale e sociale, e finisce per estendervi i sospetti di incostituzionalità, insiti in tutti gli automatismi punitivi. 9.3 Ulteriore argomento, seppur meno rilevante dei precedenti, milita per la soluzione accolta. Come osservato nell’ordinanza di rimessione, il necessario parallelismo cronologico tra pena principale e pena accessoria presenta delle difficoltà applicative. Proprio nel settore dei reati fallimentari la L. Fall., articolo 219, comma 1, in caso sia ritenuta sussistente la circostanza aggravante dell’aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità stabilisce che la pena principale da tre a dieci anni di reclusione può essere aumentata sino alla metà, evenienza che renderebbe inoperante la regola dettata dall’articolo 37 c.p. per l’impossibilità di commisurare le pene accessorie in entità superiore a dieci anni. Altrettanto problematico è il caso posto dalla L. Fall., articolo 229 per il delitto di accettazione o pattuizione da parte del curatore del fallimento di retribuzione in denaro o altra forma, punito con la reclusione da tre mesi a due anni, per il quale la pena principale massima coincide con il limite minimo della pena accessoria di cui al comma 2, il che, se si facesse applicazione dell’articolo 37 c.p. nei termini tradizionali, renderebbe del tutto eccezionale l’equiparazione della durata delle due sanzioni ed impossibile irrogare la pena dell’inabilitazione temporanea dall’ufficio di amministratore per un periodo superiore al minimo. Analoghe considerazioni valgono in relazione alla sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte ex articolo 35 c.p., che indica quale limite edittale minimo la durata di quindici giorni e quale massimo due anni la stessa norma dispone però che la sospensione è irrogabile soltanto in caso di condanna all’arresto non inferiore ad un anno. Pertanto, applicandosi l’equiparazione automatica di cui all’articolo 37, il minimo della pena accessoria sarebbe sempre di un anno, con la conseguente inutilità della previsione di una possibile durata inferiore. Difficoltà di coordinamento similari pongono anche l’articolo 544-ter c.p., che per il reato di maltrattamento di animali stabilisce la pena della reclusione da tre a diciotto mesi o con la multa da 5.000 a 30.000 Euro, mentre l’articolo 544-sexies c.p. consente la pena accessoria della sospensione dell’attività di trasporto, di commercio o di allevamento di animali da tre mesi a tre anni la L. 13 dicembre 1989, numero 401, articolo 1 in tema di frodi sportive, la cui pena detentiva oscilla tra un mese ed un anno di reclusione e le pene accessorie applicabili ai sensi dell’articolo 5 dello stesso testo di legge non possono essere inferiori a sei mesi e superiori a tre anni il D.P.R. numero 9 ottobre 1990, numero 309, articolo 85 per il quale con la sentenza di condanna per uno dei fatti di cui agli articolo 73, 74, 79 e 82, il giudice può disporre il divieto di espatrio e il ritiro della patente di guida per un periodo non superiore a tre anni, sebbene le pene detentive irrogabili per le predette fattispecie di reato possano superare la soglia massima di tre anni il D.Lgs. numero 10 marzo 2000, numero 74, articolo 12, alle lett. b e c introduce sanzioni accessorie di durata compresa tra il minimo di un anno e massimi differenziati sino a tre e sino a cinque anni, che non trovano coincidenza con le pene detentive stabilite per le ipotesi di reato di cui agli articolo 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11 dello stesso D.Lgs., per le quali il minimo edittale è fissato in sei mesi, per cui l’irrogazione di sanzione detentiva nel minimo assoluto non potrebbe comportare l’automatica perequazione di quelle accessorie ai sensi dell’articolo 37 c.p. per la conseguente illegalità per difetto della loro durata. Tutti gli inconvenienti segnalati trovano, invece, agevole soluzione qualora si ammetta che le rispettive sanzioni accessorie sono determinabili dal giudice anche in entità svincolata da quella della reclusione o dell’arresto. 10. Ritengono le Sezioni Unite di dover superare il proprio precedente arresto, espresso nella sentenza numero 6240 del 2015 e di formulare il seguente principio di diritto Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’articolo 133 c.p. . 11. In dipendenza del principio stabilito, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio in riferimento alla determinazione della durata delle pene accessorie applicate agli imputati. Come correttamente rilevato nell’ordinanza di rimessione, ancorché la questione non sia stata sollevata nei ricorsi, la sopravvenuta illegalità dell’inflizione delle predette pene per il periodo fisso di dieci anni, ossia nella misura massima consentita dal testo ora vigente della L. Fall., articolo 216, u.c., come integrato dalla Corte costituzionale nella sentenza numero 222 del 2018, consente di riscontrare d’ufficio il contrasto con il parametro normativo. In aderenza all’insegnamento contenuto nella sentenza Sez. U., numero 33040 del 26/02/2015, Jazouli, Rv. 264207, deve escludersi che possa essere conservata, in quanto legittima, sotto il profilo del principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena, la pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine . Implicando valutazioni sul fatto, che eccedono i limiti del sindacato di legittimità, sarà dunque compito del giudice di rinvio individuare, in piena libertà cognitiva, la misura congrua ed adeguata al caso delle sanzioni accessorie fallimentari, facendo ricorso ai criteri di cui all’articolo 133 c.p. e dando conto nella motivazione delle considerazioni svolte. 12. Passando all’esame delle censure formulate dai ricorrenti, va dichiarato inammissibile il ricorso di M.A. perché prospetta in modo vago e generico carenze motivazionali nella sentenza di appello, che assume avere soltanto esposto i risultati probatori senza avere giustificato il giudizio di responsabilità formulato a suo carico omette però di illustrare in dettaglio le censure così espresse, richiama un imprecisato contestato sociale nel quale avrebbero operato personaggi di variegato tenore , di cui tener conto, ma non indica i soggetti, i loro ruoli e l’incidenza del loro operato sulle vicende criminose contestate, quindi recrimina sulle perplessità nel pervenire alla decisione adottata , ma evita un compiuto e puntuale confronto con le diffuse argomentazioni esposte dalla Corte di appello. Infine, accenna molto in sintesi agli addebiti di distrazione dei beni ottenuti in locazione ed alle irregolarità ed incompletezze documentali, ma in termini egualmente non correlati ai passaggi argomentativi della sentenza. In definitiva, l’intero ricorso si risolve in una critica sterile e non valutabile nel giudizio di legittimità, perché priva di contenuti realmente contrapposti al ragionamento probatorio. 13. È inammissibile il primo motivo proposto nell’interesse di A.S.A. . L’addebito mosso alla sentenza impugnata di omessa ed illogica motivazione e di inidoneità giustificativa in ordine alle doglianze articolate nell’atto di appello per essersi la Corte di appello limitata a richiamare le argomentazioni della sentenza di primo grado non può essere preso in considerazione, poiché non specifica per quali motivi, per quali deduzioni e per quali sicuri elementi di novità critica siano rimaste non esaminate le censure mosse con l’appello. Il ricorrente richiama principi teorici di indiscussa validità in ordine ai limiti di ammissibilità del ricorso alla tecnica redazionale della motivazione per relationem, ma non esplicita le ragioni della denunciata violazione in riferimento allo sviluppo argomentativo della sentenza impugnata ed al contenuto dei motivi dell’appello. 14. Con analoghi accenti critici, sia l’A. , che il S. , contestano la mancata individuazione delle condotte criminose loro ascritte nelle qualità di amministratori di fatto della società fallita in concorso con i correi, tali da avere tradotto in atto i comuni intenti desunti dal compendio delle intercettazioni. Ebbene, il richiamo alla decisione assolutoria ed alla motivazione della sentenza, emessa dal Tribunale di Reggio Calabria il 15 luglio 2014 nei confronti degli imputati del medesimo procedimento, trattato col rito ordinario, non può apportare utili elementi di valutazione a favore dei ricorrenti per plurime concorrenti ragioni. 14.1 In primo luogo, non è consentita nel giudizio di legittimità la produzione di un documento, che attiene al merito delle vicende criminose oggetto di contestazione, dal momento che la Corte di cassazione non ha il compito di procedere ad un esame degli atti, ma solo alla valutazione del provvedimento impugnato sotto i profili dell’esistenza della motivazione e della sua logicità ed alla verifica di osservanza e corretta applicazione delle norme sostanziali e procedurali che rilevano. Di conseguenza possono essere introdotti soltanto quei documenti non attinenti al merito, che l’interessato non sia stato in condizione di esibire nei precedenti gradi e dai quali possa derivare l’applicazione dello ius superveniens, di cause estintive o di disposizioni più favorevoli Sez. 1, numero 42817 del 06/05/2016, Tulli, Rv. 267801 Sez. 3, numero 5722 del 07/01/2016, Sanvitale, Rv. 266390 Sez. 3, numero 20885 del 15/04/2015, Calò, Rv. 264096 Sez. 5, numero 45139 del 23/04/2013, Casamonica, Rv. 257541 . 14.2 Il documento allegato al ricorso dell’A. costituisce soltanto un estratto di poche pagine della motivazione e del dispositivo della sentenza, di cui si invoca la considerazione, ma che resta incompleto per gran parte delle decisioni assunte e delle relative giustificazioni, il che già di per sé pregiudica la possibilità di apprezzare il percorso logico-giuridico sotteso alla pronuncia. In ogni caso, l’assunzione della diversa decisione in altra sede processuale non ancora divenuta irrevocabile, poiché nulla al riguardo è stato specificato nei ricorsi dell’A. e del S. , non costituisce dato vincolante per il giudice e resta irrilevante poiché, per deduzione degli stessi ricorrenti, il Tribunale non ha escluso la sussistenza dei fatti di bancarotta fraudolenta e documentale contestati, piuttosto ribadita nella sua oggettività e quanto alla reciproca conoscenza e comune intenzione dei concorrenti di gestire la società seguendo determinate dinamiche fraudolente , quanto la loro riconducibilità all’operato concorsuale degli imputati, perché privi della posizione di garanzia propria dell’amministratore di diritto e per l’insufficienza della prova degli apporti individuali e della commissione dei fatti di bancarotta preferenziale. Il che di per sé ammette la possibilità che in un differente processo, soggetto a regole diverse quanto alla formazione della prova, il risultato ottenutone autorizzi conclusioni divergenti. Le contrarie asserzioni esposte nel ricorso dell’A. sono prive dell’illustrazione delle ragioni giuridiche che le avvalorino. 14.3 Alla disamina dei restanti motivi di ricorso giova premettere che la sentenza in verifica ha confermato il giudizio di responsabilità a carico dei tre ricorrenti sul presupposto della loro qualità di amministratori di fatto della s.r.l. omissis , dichiarata fallita, e che, accertato lo stato passivo per 776.565,00 Euro, la relativa procedura concorsuale era stata dichiarata chiusa per totale carenza di fondi. Ha quindi valorizzato i dati conoscitivi offerti dall’attività intercettativa, condotta nei confronti dei ricorrenti, apprezzati come indicativi della conduzione della condivisa gestione della società da parte degli stessi, nonostante la formale assegnazione dell’amministrazione legale a B.F.L. , della loro consapevolezza del grave stato di decozione in cui aveva versato l’impresa e della comune trattazione delle questioni afferenti i debiti contratti, i flussi finanziari disponibili, la necessità di soddisfare i fornitori mediante l’affannosa ricerca di canali di finanziamento e di sbloccare la consegna delle merci, nonché del compimento di tali atti gestionali in strettissimo rapporto con C.S. e con P.N. esponenti della criminalità organizzata reggina. Grazie all’intervento di costoro, che avevano consentito di accedere a forme di finanziamento agevolate, l’attività era proseguita per un primo periodo sino a che il pesante indebitamento non aveva condotto alla dichiarazione di fallimento ed alla preordinata costituzione di una nuova società, la XXX s.r.l. fondata in data 29 novembre 2007 dal S. e dall’A. , col cugino del primo. Puntuali conferme alla fondatezza della tesi accusatoria sono state dedotte dalle dichiarazioni e dalla relazione del curatore fallimentare, il quale aveva escluso di avere interloquito con il legale rappresentante della società per essersi presentato per conto della stessa il solo A. . Tanto esposto, in ordine all’addebito di bancarotta fraudolenta documentale la Corte di appello, valorizzando quanto emergente dalla relazione del curatore e dagli atti della procedura, ha evidenziato l’omessa consegna del libro degli inventari l’avvenuta consegna da parte dell’A. delle fatture di acquisto e di vendita, evidentemente esistenti, ma sottratte alla procedura, non già all’atto della richiesta rivolta inizialmente dal curatore, nemmeno in data 4 marzo 2009, ma soltanto durante la celebrazione dell’udienza preliminare del presente processo, ossia quattro anni dopo le modalità di tenuta delle scritture contabili, tali da impedire o rendere difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari secondo gli specifici rilievi elencati a pag. 81 della sentenza l’atteggiamento doloso, emerso dai dialoghi intercettati, col quale gli imputati avevano provveduto agli adempimenti contabili, mediante aggiustamenti delle carte e con i conti ed annotazioni di comodo, concordati tra l’A. ed il S. al fine di occultare l’illecita destinazione data alle attività aziendali in pregiudizio dei creditori. A fronte di tale quadro probatorio, analizzato con coerenza logica e con chiara esposizione degli esiti della disamina condotta in riferimento al coinvolgimento di entrambi i ricorrenti nell’attività di tenuta della contabilità con modalità non veritiere, complete ed attendibili, sono palesemente infondati i motivi con i quali essi contestano l’addebito di bancarotta documentale. L’A. si limita a segnalare l’insufficienza dimostrativa quale elemento di colpevolezza della tardività della consegna della documentazione contabile, avvenuta nel corso dell’udienza preliminare ed a richiamare due massime tratte dalla giurisprudenza di legittimità, prescindendo completamente dall’indicare le ragioni per cui i relativi principi di diritto dovrebbero adattarsi al caso di specie. Il S. pretende che la responsabilità sia addossata al solo A. , richiama informazioni fornite dal consulente tecnico di parte su una copia informale su fogli sparsi del libro degli inventari, probabilmente smarrito, addebita l’omessa consegna delle fatture ad un equivoco dell’A. col curatore, che non le avrebbe inizialmente richieste. Gli assunti difensivi non sono correlati al percorso logico-giuridico, seguito dai giudici di appello la difesa del S. richiama emergenze fattuali non provviste di adeguato riscontro probatorio, che ne consenta la considerazione da parte del giudice di legittimità ed il ricorso risulta privo di autosufficienza quanto alla citazione dei rilievi del consulente di parte, la cui relazione non è integralmente trascritta o allegata all’impugnazione. Inoltre, suggerisce una diversa lettura dei dati probatori siccome privi di univoco significato incriminante, che è improponibile in sede di giudizio di legittimità e prospetta delle evenienze, quali lo smarrimento del libro degli inventari o un equivoco occorso nei contatti tra l’A. ed il curatore, che già nella prospettazione difensiva, prima ancora che nell’apprezzamento giudiziale, costituiscono mere illazioni, sfornite di aggancio dimostrativo. Non superano il livello del mero dissenso e della generica obiezione le affermazioni, secondo le quali, ad onta dei rilievi del curatore, agli atti vi era tutta la documentazione idonea a consentire la ricostruzione degli affari e delle operazioni compiute, cui aveva proceduto il consulente di parte, che non si deduce come realizzata e la sentenza era carente in ordine all’elemento soggettivo. 15. Comuni a tutte le impugnazioni sono le censure che investono la ricostruzione della fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione, contestata e ritenuta sussistente in riferimento a due condotte, riguardanti rispettivamente la sottrazione di beni strumentali per un valore prudenziale di 274.778,00 Euro e della somma di 102.240,00 Euro prelevata dai conti societari per far fronte a debiti inesistenti. 15.1 Premesso che la sentenza in esame ha ritenuto accertata l’esistenza dei beni strumentali non rinvenuti dal curatore, perché riportati e contabilizzati nelle scritture contabili e perché necessario compendio per l’arredo e la funzionalità dei punti vendita, gestiti dalla fallita, proprio tale rilievo rende inconsistente il motivo che si avvale dell’inattendibilità dei dati contabili, che comunque non sono stati ritenuti tali nella loro globalità. Ha quindi respinto con argomentazioni pertinenti e non manifestamente illogiche, basate su quanto esposto nella relazione del curatore, le contestazioni difensive sull’impossibilità di considerare distrazione il giroconto a minusvalenza per l’importo di 232.570,00 dei beni oggetto di negoziazioni con la omissis s.r.l. e la omissis s.p.a., che ha indicato quale espediente contabile per giustificare il mancato rinvenimento dei beni, sottratti all’attivo. Non è mancata da parte dei giudici di appello nemmeno la verifica circa la giustificazione fornita dai ricorrenti, per i quali legittimamente le attrezzature, acquisite con contratto di vendita con patto di riservato dominio in base alle agevolazioni della c.d. L. Sabatini, erano state restituite alle venditrici in esecuzione di accordi transattivi, conclusi a seguito dell’inadempimento della fallita. Ebbene, a prescindere dai dubbi sollevati dal primo giudice sulla regolarità formale di uno dei due atti transattivi, perché privo di data certa e di registrazione, la soluzione offerta in sentenza è giuridicamente corretta e coerente con principi già affermati dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale è sicuramente configurabile la bancarotta fraudolenta nell’ipotesi in cui l’imprenditore, nella imminenza della dichiarazione di fallimento, consegni al venditore i beni acquistati con patto di riservato dominio. La particolare situazione di tali beni mobili non li esclude dalla nozione e dalla categoria di elementi attivi del patrimonio suscettibili di essere oggetto delle condotte distrattive, che comprende il complesso dei rapporti giuridici economicamente valutabili che fanno capo all’imprenditore, la cui integrità viene tutelata in funzione dell’interesse dei creditori e della possibilità di ottenere la soddisfazione delle loro ragioni nell’ambito della procedura concorsuale Sez. 5, numero 7124 del 04/04/1984, Tinti, Rv. 165469 Sez. 5, numero 8044 del 17/06/1983, Lisi, Rv. 160521 . La disciplina dettata dall’articolo 1526 c.c. stabilisce, infatti, che quando intervenga la risoluzione del contratto di compravendita con riserva di proprietà in capo al venditore, sorge per l’acquirente il diritto di credito alla restituzione delle rate già corrisposte. In caso di fallimento dell’acquirente, è rimessa alla valutazione del creditore L. Fall., ex articolo 73 la scelta se acquisire i beni al fallimento, subentrando al fallito nel contratto con l’autorizzazione del giudice delegato e solo nel caso di mancato esercizio di tale facoltà, il venditore può sciogliersi dal contratto ed ottenere la restituzione della cosa, ma dovrà corrispondere al fallimento le rate riscosse ed insinuare al passivo il credito chirografario per l’utilizzo del bene, salva la compensazione L. Fall., ex articolo 56 se ne ricorrano le condizioni Sez. 5, numero 49472 del 9/10/2013, Albasi ed altri, Rv. 257565 Sez. 5, numero 3392 del 14/12/2004, Curaba, Rv. 231407 Sez. 5, numero 2790 del 13/12/1984, dep. 1985, Merletti, Rv. 168498 . Non assume dunque rilievo che, per la mancata completa esecuzione dei contratti acquisitivi, i beni non fossero ancora entrati definitivamente nel patrimonio della società fallita, che aveva ricompreso non soltanto quanto oggetto del diritto di proprietà o di altro diritto reale, anche tutto ciò sul quale l’impresa aveva vantato un diritto personale di godimento di contenuto economico, che le aveva assicurato la disponibilità giuridica e qualificata, non di fatto, di strumenti ed attrezzature in grado di produrre delle utilità, di cui il fallimento avrebbe potuto avvalersi. Merita condivisione l’interpretazione fornita dai giudici di merito, i quali hanno escluso che la risoluzione del contratto caratterizzato dalla riserva di proprietà dei beni a favore della venditrice impedisca di ravvisare la fattispecie di bancarotta per distrazione, conclusione non smentita dal vantaggio per la massa rappresentato dalla mancata insinuazione al passivo delle due società creditrici, che, non soltanto ha privato il curatore della possibilità di operare le legittime scelte consentitegli dalla disciplina della L. Fall., articolo 73, ma ha sottratto all’attivo, sia i beni, sia i ratei di corrispettivo già versati dalla omissis s.r.l. e che le venditrici avrebbero dovuto restituire, per quanto già esposto. 15.2 Costituisce una mera congettura, inidonea a scalfire la correttezza logica e giuridica del giudizio di responsabilità, l’assunto della difesa del S. , secondo cui è verosimile e comunque non confutata l’ipotesi del deperimento per gli impianti antitaccheggio e la restituzione a scomputo del debito residuo per i beni forniti dalla s.r.l. in entrambe le situazioni viene prospetta come possibile, e per nulla certa, una destinazione che nel primo caso avrebbe dovuto essere puntualmente dimostrata, nel secondo non assolve da responsabilità a fronte di un atto dispositivo che oggettivamente ha depauperato il patrimonio della fallita e, al tempo stesso, ha alterato la parità tra i creditori. 15.3 In merito al prelievo dai conti societari dell’importo di 102.240 Euro, desunto dalla documentazione bancaria, la condotta di distrazione è stata ravvisata nell’utilizzo del denaro per far fronte ad un debito non realmente esistente, perché annotato in contabilità nei confronti di soggetti imprecisati e non riscontrabili e con causale del tutto generica. La sentenza ha illustrato con chiarezza che la pretestuosità di siffatta giustificazione contabile, che cela un’uscita priva di correlazione con fatti gestionali, non è dedotta dal disordine delle scritture contabili, ma è dimostrata dal mancato ingresso nelle casse societarie di importo di denaro contante corrispondente, la cui restituzione non era dovuta, ma indebita. Priva di specificità è la censura che indica la destinazione della somma a soddisfare le ragioni dei creditori, perché non fondata su circostanze concrete e su dati verificabili, che siano stati rassegnati ai giudici di merito e da questi ignorati. Sul punto la sentenza in verifica è allineata al pacifico principio, affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti. Si è osservato che la responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l’obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante L. Fall., ex articolo 87 sul fallito quando sia richiesto dal curatore di fornire spiegazioni sulla destinazione dei beni dell’impresa, giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato, non essendo a tal fine sufficiente la generica asserzione per cui gli stessi sarebbero stati assorbiti dai costi gestionali, ove, come nel caso presente, questi non siano documentati, nè precisati nel loro dettagliato ammontare ex multis, Sez. 5, numero 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, Aucello, Rv. 267710 Sez. 5, numero 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262740 . 16. Non hanno nessun pregio nemmeno le censure che investono la ricostruzione dell’ipotesi di bancarotta preferenziale. La Corte di appello, dopo avere richiamato quanto riportato nella sentenza di primo grado in merito alle notizie desunte dagli appunti extracontabili, rinvenuti presso le abitazioni del S. e del coimputato C.S. , separatamente giudicato, contenenti l’annotazione di pagamenti effettuati prima ed anche dopo il fallimento nei confronti di fornitori i cui crediti non risultavano dalle scritture contabili, nè dallo stato passivo, ha apprezzato come concludenti i pagamenti erogati dagli imputati in favore di alcuni creditori, che avevano effettuato forniture o finanziamenti in favore della società fallita, ricostruiti sul piano probatorio, sia tramite alcune conversazioni intercettate, nelle quali il S. e l’A. avevano manifestato l’intento di soddisfare selettivamente soltanto alcuni dei creditori che li stavano pressando per ottenere quanto di loro spettanza, disinteressandosi degli altri, sia in base all’argomento logico della mancata insinuazione al passivo di quanti essi avevano dichiarato di voler soddisfare. Non giova alle difese contestare la valenza dimostrativa degli appunti extracontabili, poiché nella valutazione operatane in modo logico e fedele al loro contenuto le predette annotazioni hanno trovato riscontro nelle inconsapevoli ammissioni degli imputati, ricavate dai dialoghi intercettati, sull’intento di preferire alcuni creditori a scapito di altri, ossia di coloro che si sono insinuati al passivo per un ammontare complessivo superiore a 700.000 Euro. La pretesa lettura alternativa circa le ragioni di tali annotazioni è solo genericamente prospettata in assenza di una chiara e plausibile giustificazione, mentre la censura sull’omessa individuazione delle specifiche poste debitorie soddisfatte in preferenza rispetto ad altre e sulle eventuali cause legittime di prelazione o di stretta necessità dell’adempimento trascura che, trattandosi di comportamenti posti in essere dall’imprenditore, cui è contestato di avere agito per favorire soggetti determinati indicati nell’imputazione, spetta a costui indicare e dimostrare di avere avvantaggiato chi era titolare di credito privilegiato, da soddisfare in via prioritaria rispetto ad altri o comunque che il pagamento era destinato a scongiurare il fallimento ed a garantire la sopravvivenza dell’impresa. Si ricorda che, per pacifico arresto giurisprudenziale, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta preferenziale è necessaria la violazione della par condicio creditorum, che consiste nell’alterazione dell’ordine, stabilito dalla legge, di soddisfazione dei creditori, sicché deve essere provata l’esistenza di altri creditori, che vantino ragioni prevalenti o eguali, rimasti insoddisfatti per effetto del pagamento eseguito al preferito Sez. 5, numero 3797 del 15/01/2018, Hofmann, Rv. 272165 Sez. 5, numero 32637 del 16/04/2018, Marcello, Rv. 273712 Sez. 5, numero 15712 del 12/03/2014, Consol, Rv. 260221 Sez. 5, numero 15712 del 12/03/2014, Carbonelli, rv.260221 . Nell’assenza di qualsiasi dato conoscitivo sulle ragioni dell’accordata preferenza ai creditori in favore dei quali sono stati effettuati gli esborsi, resta il dato processualmente acquisito di uno stato passivo consistente e di plurimi creditori che sono stati postergati indebitamente e hanno subito un trattamento diseguale, consapevolmente mirato a favorirli a discapito degli altri. Non merita condivisione nemmeno l’ulteriore argomento, esposto nei ricorsi dell’A. e del S. , secondo il quale le condotte dovrebbero essere considerate lecite in forza del disposto della L. Fall., articolo 67, nel testo modificato dal D.Lgs. numero 169 del 2007. L’esclusione dalla soggezione all’azione revocatoria dei pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa nei termini d’uso opera soltanto in riferimento ai rimedi di natura civilistica, approntati a tutela della massa dei creditori, ma non rende perciò solo lecita l’erogazione che sia compiuta in violazione della parità di trattamento o dell’ordine di preferenza accordato per legge ad alcuni creditori. È poi generica l’allegazione dell’avvenuto pagamento in termini d’uso dei finanziatori privati della società fallita, di cui sono rimasti ignoti i contributi e le condizioni pattuite per la restituzione delle sovvenzioni e mediante modalità normali, che non sono specificate nelle circostanze di tempo, luogo e nei mezzi finanziari impiegati. 17. Con riferimento al mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’articolo 54 c.p., censurato col secondo motivo proposto dal S. , entrambe le conformi sentenze di merito hanno rimarcato che nel compimento degli atti volti a soddisfare i creditori preferiti non ne erano ravvisabili i presupposti applicativi, atteso che gli imputati avevano volontariamente richiesto l’intervento mediante forniture di merci e sostegno finanziario di esponenti della locale criminalità organizzata nella consapevolezza della loro caratura criminale ed al di fuori di ogni costrizione e si erano esposti alle prevedibili richieste di rientro delle esposizioni debitorie, che erano state loro espresse con modalità intimidatorie e tipicamente mafiose. La scelta effettuata per libera determinazione di coinvolgere nelle vicende societarie personaggi militanti in formazioni ‘ndranghetistiche in luogo di ricorrere ad altri canali di finanziamento, ha creato le condizioni del pericolo di ritorsioni violente in dipendenza del mancato soddisfacimento delle pretese di siffatti finanziatori, che in modo logico e coerente con il compendio probatorio ed intercettativo è stato collegato ad una situazione che gli imputati avevano di loro iniziativa cagionato e che avrebbe potuto essere evitata, rivolgendosi prima ad altri interlocutori e denunciando successivamente le minacce ricevute. Ed anche la pretesa finalità di evitare il fallimento della società, accedendo a finanziamenti a tassi usurari, è stata svalutata come inidonea ed insufficiente a giustificare le condotte illecite compiute, poiché il ricorso a personaggi del calibro del C.S. , del P. e del Cr. o loro consorti era avvenuto deliberatamente da parte degli imputati senza esplorare soluzioni alternative, secondo quanto deducibile dalle loro conversazioni intercettate. La soluzione così come motivata è corretta sul piano giuridico. L’esimente di cui all’articolo 54 c.p., sebbene sia configurabile quando il danno grave ed attuale alla persona sia minacciato alla vita o all’integrità fisica, ma anche se riguardi altri beni attinenti alla personalità, quali, ad esempio, la libertà, il pudore, l’onore, il decoro, richiede che il pericolo non sia stato determinato per volontà o per colpa del soggetto minacciato ed altresì che la necessità di contravvenire alla legge non sia altrimenti evitabile col ricorso ad altri rimedi, privi di disvalore penale. Va richiamato in termini adesivi il principio di diritto, che in riferimento alle situazioni di decozione dell’impresa si è articolato nei seguenti termini Non sussiste la scriminante dello stato di necessità in relazione al reato di bancarotta qualora i soci amministratori distraggano i beni appartenenti alla società per destinarli a creditori che pratichino interessi usurari qualora essi abbiano volontariamente e consapevolmente creato una situazione di pericolo per l’impresa, non ricorrendo, in tal caso, nè il requisito del generarsi del pericolo per cause indipendenti dalla volontà dell’agente, nè il requisito della sua inevitabilità con altri mezzi . Sez. 5, numero 10542 del 31/10/2014, dep. 2015, Rocca, Rv. 262726 in termini conformi Sez. 2, numero 19714 del 14/04/2015, Moccardi, Rv. 263533 . Con argomentazioni pienamente condivise, si è affermato che l’intento di proseguire l’attività ed impedire il tracollo non giustificano la scelta dell’imprenditore di ricercare e fare ricorso ad ulteriori canali di finanziamento a carattere illecito, che, indebitando ulteriormente l’impresa, lo espongano a pressanti ed altrettanto illecite pretese, per tacitare le quali sia poi indotto ad effettuare pagamenti preferenziali non consentiti dalla legge e certamente non giustificabili per la causazione volontaria, ad opera dell’imprenditore medesimo, della situazione che il pericolo ha generato e del pericolo, sin dall’inizio della intera operazione, cui ha esposto le ragioni degli altri creditori. Il ricorso proposto dal S. sul punto, oltre a negare la pretesa conoscenza in capo allo stesso dell’appartenenza all’ambiente mafioso dei soggetti cui unitamente ai coimputati si era rivolto per ottenere dei prestiti, muove censure inconsistenti, assumendo che la volontaria causazione dello stato di pericolo sarebbe ravvisabile soltanto se il finanziamento erogato dagli usurai fosse stato preordinato a cagionare il dissesto. Dalla sentenza impugnata emerge che il C.S. , capocosca dell’omonima banda ‘ndranghetistica, insediata nel territorio urbano di Reggio Calabria, e gli altri finanziatori erano soggetti ben inseriti nel contesto economico locale, oltre che in quello mafioso ed erano intenzionati ad operare nel settore della grande distribuzione alimentare quali fornitori e finanziatori occulti, nel quale impegnare i loro capitali di illecita provenienza ed il ricorrente nei dialoghi intercettati aveva mostrato di essere consapevole della temibilità delle loro reazioni qualora si fosse reso inadempiente. Ed ancora, nella sentenza di primo grado, che più diffusamente ha passato in rassegna il compendio probatorio, si è posto in evidenza che la vicenda delle minacce rivolte da I.N. al S. offriva dimostrazione del fatto che i gestori della s.r.l. omissis non erano stati intimiditi dall’atteggiamento tracotante e tipicamente mafioso assunto da costui, perché consapevoli di potersi avvantaggiare della protezione degli arcoti , ossia degli esponenti della cosca T. , che sarebbero intervenuti in loro soccorso ed avrebbero direttamente regolato la questione. Nell’assenza di specifiche contestazioni sull’utilizzabilità di tali dati probatori e sulla loro concludenza, deve concludersi che il ragionamento probatorio dei giudici di appello, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non è assente o apparente e nemmeno manifestamente illogico e pertanto non è ulteriormente censurabile in sede di legittimità. 18. È manifestamente infondato anche il terzo motivo, proposto dalla difesa del S. , per contestare la legittima applicazione della circostanza aggravante di cui alla L. Fall., articolo 219, comma 1, all’ipotesi criminosa prevista dalla L. Fall., articolo 223. La circostanza aggravante in esame, configurabile soltanto se ad un fatto di bancarotta di rilevante gravità, quanto al valore dei beni sottratti all’esecuzione concorsuale, corrisponda un danno patrimoniale per i creditori che, complessivamente considerato, sia di entità altrettanto elevata Sez. 5, numero 48203 del 10/07/2017, Meluzio, rv. 271274 , è riferibile anche ai fatti di bancarotta impropria . La questione ha già trovato convincente e costante soluzione nell’ambito della giurisprudenza della Quinta Sezione penale della Suprema Corte, per la quale, poiché la L. Fall., articolo 223 contiene il rinvio formale ai fatti di bancarotta sanzionati dalla L. Fall., articolo 216 e 217 la circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità è applicabile anche alle ipotesi di bancarotta impropria, essendo riscontrabile un’innegabile continuità prescrittiva del precetto penale, senza indebita estensione dello stesso in pregiudizio del reo e dovendosi escludere un incolmabile iato tra la fattispecie incriminatrice e quella che configura le circostanze per la bancarotta propria , considerata la espressa continuità nascente dal raccordo testuale delle previsioni. Assunto che esclude l’inevitabile necessità di ricorrere ad interpretazione analogica, inammissibile perché pregiudizievole per l’imputato Sez. 5, numero 2903 del 22/03/2013, dep. 2014, P.G. e Venturato, Rv. 258446 nei termini Sez. 5, numero 18695 del 21/01/2013, Liori, Rv. 255839 Sez. 5, numero 10791 del 25/01/2012, Bonomo, Rv. 252009 Sez. 5, numero 127 del 08/11/2011, dep. 2012, Pennino, Rv. 252664 Sez. 5, numero 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv. 251215 Sez. 5, numero 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a., Rv. 247320 . Uno spunto ermeneutico coerente è ricavabile anche dalla pronuncia delle Sezioni Unite numero 21039 del 27/01/2011, Loy, Rv. 249666, che, seppur occupatasi della diversa circostanza di cui alla L. Fall., articolo 219, comma 2, ha espresso un principio suscettibile di applicazione più ampia, là dove ha riconosciuto che il richiamo contenuto nelle norme incriminatrici della bancarotta impropria allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le corrispondenti ipotesi ordinarie non legittima margini di dubbio sull’applicabilità del relativo regime nella sua interezza, ivi compresa l’aggravante sui generis di cui si discute. D’altra parte, avendo il legislatore posto su un piano paritario i reati di bancarotta propria e quelli di bancarotta impropria, non v’è ragione, ricorrendo l’eadem ratio, di differenziare la disciplina sanzionatoria . L’opposta opzione interpretativa, propugnata nell’impugnazione del S. , finirebbe per creare una ingiustificata disparità di trattamento punitivo in danno dell’imprenditore individuale, soggetto a sanzione più severa rispetto all’imprenditore societario, astrattamente in grado di commettere fatti di bancarotta forieri di conseguenze patrimoniali più o altrettanto pregiudizievoli, che risulterebbero puniti in termini più blandi in forza della sola circostanza aggravante comune di cui all’articolo 61 c.p., numero 7. 19. Anche l’ultimo motivo di ricorso è destituito di fondamento. Il diniego delle circostanze attenuanti generiche è stato giustificato nella sentenza in esame con l’assenza di elementi positivi di valutazione e con l’implicita svalutazione delle circostanze favorevoli indicate nell’appello. Non ha pregio la doglianza difensiva sull’operata considerazione negativa del compimento di condotte in realtà lecite, poiché quelle oggetto di disamina ai fini del giudizio di responsabilità sono state correttamente rapportate alle fattispecie astratte ed il rilievo sulla generica invocazione della mitigazione della pena non viene superato in ricorso per la altrettanto generica evocazione della gestione societaria, condotta tra usurai, minacce mafiose, tentativi disperati per un anno di trovare soldi, vendita di un supermercato per ripianare i debiti . Si tratta della riproposizione nel contesto sanzionatorio dei medesimi argomenti, articolati a sostegno degli altri motivi, che la Corte di appello ha disatteso con un corredo esplicativo coerente, logico, privo di profili di manifesta irragionevolezza e nel rispetto delle disposizioni di legge e della loro interpretazione giurisprudenziale. 20. Per le considerazioni svolte la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Reggio Calabria limitatamente alla determinazione delle pene accessorie di cui alla L. Fall., articolo 219, u.c. mentre i ricorsi nel resto vanno dichiarati inammissibili. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie previste dalla L. Fall., articolo 216 e rinvia per nuova decisione sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Reggio Calabria. Dichiara inammissibili i ricorsi nel resto.