La «collaborazione» della vittima può anche essere passiva

Nel delitto di truffa il danno della vittima può realizzarsi non soltanto per effetto di una condotta commissiva, bensì anche per effetto di un suo comportamento omissivo, nel senso che essa, indotta in errore, ometta di compiere quelle attività intese a far acquisire al proprio patrimonio una concreta utilità economica, alla quale ha diritto e che rimane invece acquisita al patrimonio altrui.

Infatti, ai fini della configurabilità del delitto in questione, l’atto di disposizione patrimoniale, quale elemento costitutivo implicito della fattispecie incriminatrice, consiste in un atto volontario, che non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ma può essere integrato da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una traditio , da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, nella sentenza numero 35807 del 30 agosto 2013. Il caso. Il G.I.P. presso il Tribunale di Rimini disponeva con decreto il sequestro preventivo di alcune somme di denaro nei confronti di due amministratori di cui uno “di fatto” di una società, indagati, entrambi, per il delitto di cui all’articolo 640, co. 2, numero 1 c.p. truffa ai danni dello Stato e, solo l’amministratore “di diritto”, per il reato di cui all’articolo 5 D. Lgs. numero 74/2000 omessa dichiarazione dei redditi al fine di evasione fiscale . Il tribunale del riesame, adito dagli indagati, confermava con ordinanza il decreto impugnato nella parte relativa alla posizione dell’amministratore “di diritto” soltanto per ciò che riguardava il delitto di truffa, annullando, di contro, le restanti statuizioni del G.I.P. in merito al reato di evasione fiscale e alla truffa contestata al coindagato. Avverso tale ultimo provvedimento ricorrevano in Cassazione il difensore dell’amministratore ancora attinto dalla misura cautelare reale e il Pubblico Ministero, chiedendo, entrambi, l’annullamento dell’ordinanza impugnata, ma, l’uno, limitatamente alle statuizioni concernenti il sequestro ancora gravante sul denaro del proprio assistito e, l’altro, al fine di ottenere la conferma di quanto disposto in precedenza dal G.I.P La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore della Repubblica di Rimini e rigettato quello dell’indagato, annullando così con rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame. La truffa non presuppone collaborazione attiva. La Suprema Corte dichiara infondato il motivo di ricorso dell’indagato. Questi, a mezzo del suo difensore, aveva ritenuto non configurato il fumus commissi delicti del delitto di truffa ai danni dello Stato, in particolare per ciò che concerne la non sussistenza di quell’elemento costitutivo implicito della truffa, consistente nella “collaborazione” della vittima attraverso un atto di disposizione patrimoniale in favore del soggetto agente. Secondo la difesa, infatti, tale elemento non risultava presente nella fattispecie de qua , essendosi limitata l’Amministrazione statale a non percepire le somme dovute dall’indagato, senza aver posto in essere alcuna condotta attiva di disposizione patrimoniale. Secondo la seconda sezione penale della Suprema Corte, invece, l’ordinanza impugnata ben motivava rispetto alla configurabilità, perlomeno a livello indiziario sufficiente in materia di misure cautelari, di tutti gli elementi costitutivi del reato ascritto all’indagato. Potevano evincersi, infatti, la presenza sia di artifizi e raggiri la costituzione di una società italiana e di una, fittizia, estera la diversità tra l’attività realmente svolta dalle società e quella apparentemente raffigurata , sia dell’ingiusto profitto mancato versamento allo Stato di una determinata somma ad esso dovuta , sia del danno per l’Ente pubblico mancata percezione della medesima somma . Rispetto all’asserita mancanza dell’implicito elemento costitutivo della “collaborazione” attiva da parte della vittima del delitto in questione, il Supremo collegio, riferendosi ad una propria consolidata giurisprudenza in particolare ad un arresto delle Sezioni Unite del 2011 , confuta le argomentazioni della difesa, ribadendo che, in materia di truffa, l’attività collaborativa del soggetto passivo del reato pur necessaria può anche manifestarsi sotto forma di condotta omissiva. Non è necessario, pertanto, che essa si concretizzi in un atto di disposizione patrimoniale di civilistica memoria, potendosi rinvenire tale “collaborazione” anche in un atto di assenso o permesso, in una semplice traditio , in un qualsiasi atto o fatto idoneo a produrre il danno previsto dall’articolo 640 c.p Detto articolo, infatti, non prevede espressamente di quale natura debba essere il contegno della vittima del reato, limitandosi a descrivere una serie causale che porta dagli artifizi e raggiri, passando per l’induzione in errore, all’ingiusto profitto con altrui danno. Nella vicenda in questione, l’omessa riscossione da parte dello Stato delle somme ad Esso dovute è sufficiente a ritenere configurata la richiesta “collaborazione”. Il Tribunale del riesame non può fare i conti Ad un opposto giudizio la Corte perviene rispetto alle statuizioni del Giudice del riesame riguardanti la posizione dell’amministratore “di diritto” rispetto al reato di cui all’articolo 5 D. Lgs. numero 74/2000. Il Tribunale aveva ritenuto non sussistente il fumus commissi delicti sulla base del mancato raggiungimento della soglia di punibilità prevista dalla norma de qua . A tale conclusione si è pervenuti sulla scorta della sottrazione, effettuata in sede di riesame, dai ricavi dei costi rinvenienti dalle scritture contabili della società amministrata dagli indagati. Questa operazione viene giustificata dal Tribunale attraverso un generico riferimento ad un esame sommario dei bilanci presenti negli atti di indagine. Una simile affermazione già di per sé, secondo i giudici di legittimità, configura una violazione di legge sub specie dell’obbligo di motivazione che inerisce ad ogni provvedimento giurisdizionale. Inoltre, come evidenziato dal P.M. nel proprio ricorso, dagli atti di indagine si evinceva, al contrario, come tali annotazioni di poste passive all’interno dei bilanci dovessero con grande probabilità considerarsi fittizie, essendo prive di alcun ulteriore riscontro. Il Giudice del riesame non ha tenuto assolutamente conto di tutti questi elementi, omettendo di specificare le ragioni che l’hanno indotto a ritenere non superata la soglia di punibilità prevista per il reato de quo . In proposito, la Suprema Corte afferma che, in sede di riesame di un provvedimento cautelare, il Tribunale non è tenuto ad accertare, in materia di reati tributari, l’imponibile e l’imposta eventualmente evasa, risolvendosi una simile operazione in un’attività istruttoria, nella sede in questione, ad esso preclusa. e deve motivare i propri assunti. Quasi naturale appare, in ragione di quanto in precedenza riferito, che la seconda sezione penale pervenga alla medesima decisione di accoglimento del ricorso del P.M. rispetto alla posizione del coindagato per il delitto di truffa. Infatti, la Corte censura l’operato del Tribunale in merito alla ritenuta insussistenza degli indizi di colpevolezza dell’amministratore “di fatto” nel delitto de quo . Il giudice del riesame si è limitato, secondo il collegio di legittimità, ad affermare la mancanza di riscontri oggettivi del verificarsi della fattispecie criminosa senza specificare quali fossero le ragioni di tale assenza e omettendo, per di più, di considerare gli elementi a carico dell’indagato emergenti dagli atti di indagine in particolare, una dichiarazione “testimoniale” e il ritrovamento presso la sua abitazione di cose compromettenti . Una simile genericità della motivazione sfociante nella mancanza della stessa viene perentoriamente cassata dai giudici di Piazza Cavour, i quali accolgono il ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini, annullando con rinvio al medesimo Tribunale, in parte qua , l’ordinanza del Tribunale del riesame.

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 29 maggio - 30 agosto 2013, numero 35807 Presidente Fiandanese – Relatore Iasillo Osserva Con decreto del 17/10/2012, il G.I.P. del Tribunale di Rimini dispose il sequestro preventivo del danaro di titolarità della s.r.l. Ala Bus e in caso di incapienza dei beni mobili, immobili, consistenze bancarie e partecipazione societarie degli indagati entrambi per il reato di truffa aggravata - articolo 110, 640, 1 e 2 comma numero 1, del c.p. - ai danni dello Stato e la sola B. anche di evasione - articolo 110 c.p. e 5 D.L.74/2000 - dell'imposta sui redditi e sul valore aggiunto fino alla concorrenza della somma di Euro 545.843,14 per entrambi gli indagati - quale somma corrispondente all'ammontare del profitto del reato di cui all'articolo 640, 2 comma numero 1, del c.p. - e, per la sola B. , fino alla concorrenza della somma di Euro 9.130.485,00, quale somma corrispondente all'ammontare del profitto del reato di cui all'articolo 5 D.L.74/2000. Avverso tale provvedimento gli indagati proposero istanza di riesame. Il Tribunale di Rimini, con ordinanza del 15/11/2012, confermò il decreto impugnato limitatamente alla posizione di B.E. e limitatamente al capo A dell'imputazione. Annullò il decreto nei soli riguardi di G.A. , con restituzione dei beni all'avente diritto. Annullò, infine, il decreto impugnato nella parte relativa al capo B dell'imputazione disponendo la restituzione dei beni di titolarità di B.E. fino alla concorrenza della somma di Euro 9.130.485,00. Ricorre per Cassazione il difensore degli indagati deducendo per la sola B.E. la mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del fumus commissi delicti della truffa mancanza degli elementi costitutivi degli artifizi e raggiri e dell'atto di disposizione patrimoniale . La difesa della ricorrente conclude, quindi, per l'annullamento dell'impugnato provvedimento. Ricorre per Cassazione il P.M. deducendo che erroneamente il Tribunale ha ritenuto non raggiunta la soglia di punibilità per il reato di evasione fiscale e quindi, conseguentemente, ha errato allorché ha disposto la restituzione dei beni di titolarità di B.E. fino alla concorrenza della somma di Euro 9.130.485,00. Infatti, sottolinea che il Tribunale non solo non si è attenuto al principio - dallo stesso enunciato - secondo il quale la verifica del giudice del riesame sulla sussistenza del fumus non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell'accusa, ma ha anche errato perché per determinare la soglia di punibilità ha detratto dai ricavi costi riportati solo dalle scritture contabili, non supportate da documentazione comprovante che effettivamente siano state sostenute e che, anzi, i risultati delle indagini fanno ritenere non vere. Infine rileva che il Tribunale ha errato anche nell'escludere la sussistenza del fumus commissi delicti nei confronti del G. infatti lo steso Tribunale ha indicato una serie di elementi che rendono astrattamente configurabile la veste di amministratore di fatto dell'indagato della società estero vestita, ma ha poi inserito nel giudizio cautelare inferenze probatorie tipiche del giudizio di merito. Il P.M. ricorrente conclude, quindi, per l'annullamento dell'impugnato provvedimento. Motivi della decisione Si deve, preliminarmente, ricordare che in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di violazione di legge per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell'articolo 325, comma primo, cod. proc. penumero , rientrano la totale mancanza di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all'inosservanza di precise norme processuali, ma non l'illogicità o la incompletezza di motivazione le quali non possono denunciarsi nel giudizio di legittimità nemmeno tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e dell'articolo 606 stesso codice, posto che questo richiede la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione Sez. 5, Sentenza numero 8434 del 11/01/2007 Cc. - dep. 28/02/2007 - Rv. 236255 Sez. U, Sentenza numero 25932 del 29/05/2008 Cc. - dep. 26/06/2008 - Rv. 239692 . Inoltre si deve ribadire - il principio richiamato anche dal Tribunale - che in sede di riesame di misure cautelari reali, pur essendo precluso il sindacato sul merito dell'azione penale, il giudice deve verificare la sussistenza del presupposto del fumus commissi delicti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. Sez. 6, Sentenza numero 35786 del 21/06/2012 Cc. - dep. 18/09/2012 Rv. 254394 Sez. 1, Sentenza numero 21736 del 11/05/2007 Cc. - dep. 04/06/2007 - Rv. 236474 Sez. 2, Sentenza numero 2808 del 02/10/2008 Cc. - dep. 21/01/2009 - Rv. 242650 . Tanto premesso, si comprende agevolmente perché il ricorso del difensore della B. sia infondato e perché vada accolto, invece, quello del Pubblico Ministero. Infatti il Tribunale con motivazione esaustiva, logica e non contraddittoria ha ben evidenziato perché ritiene sussistente il fumus del reato di truffa si veda l'ampia sintesi sulla genesi dell'indagine e sui risultati ai quali si è pervenuti alle pagine da 1 a 3 dell'impugnata ordinanza si veda la dettagliata motivazione sulla sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato di truffa - con l'indicazione precisa degli accertamenti della P.G., dei documenti acquisiti e delle dichiarazioni dei testi - e i pertinenti richiami di condivisi principi di questa Corte sul reato di truffa e sulle società estero vestite alle pagine da 3 a 7 dell'impugnato provvedimento . In particolare il Tribunale indica in cosa consistano gli artifizi e raggiri creazione delle due società una italiana ed una estera tipo di attività svolta in concreto e quella apparentemente raffigurata si veda pagina 5 dell'impugnato provvedimento l'ingiusto profitto la somma di danaro che doveva essere versata all'Amministrazione statale per un importo non inferiore ad Euro 661.741,38 si vedano pagine 5 e 6 dell'impugnato provvedimento il danno per l'Ente pubblico pari alla stessa somma di danaro non versata si vedano pagine 5 e 7 dell'impugnato provvedimento . Infine, il Tribunale sottolinea come il danno della vittima della truffa può scaturire anche da un comportamento omissivo si veda pagina 7 dell'impugnato provvedimento . Quanto sopra in linea con quanto affermato da questa Suprema Corte e cioè che nel delitto di truffa, il danno della vittima può realizzarsi non soltanto per effetto di una condotta commissiva, bensì anche per effetto di un suo comportamento omissivo, nel senso che essa, indotta in errore, ometta di compiere quelle attività intese a fare acquisire al proprio patrimonio una concreta utilità economica, alla quale ha diritto e che rimane invece acquisita al patrimonio altrui Sez. 2, Sentenza numero 2808 del 02/10/2008 Cc. - dep. 21/01/2009 - Rv. 242649 . Principio confermato dalle Sezioni Unite di questa Corte le quali hanno ribadito che i fini della configurabilità del delitto di truffa, l'atto di disposizione patrimoniale, quale elemento costitutivo implicito della fattispecie incriminatrice, consiste in un atto volontario, causativo di un ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa. Ne consegue che lo stesso non deve necessariamente qualificarsi in termini di atto negoziale, ovvero di atto giuridico in senso stretto, ma può essere integrato anche da un permesso o assenso, dalla mera tolleranza o da una traditio , da un atto materiale o da un fatto omissivo, dovendosi ritenere sufficiente la sua idoneità a produrre un danno Sez. U, Sentenza numero 155 del 29/09/2011 Ud. - dep. 10/01/2012 - Rv. 251499 . Nella motivazione della predetta sentenza delle Sezioni Unite nell'affrontare la questione della sussistenza dell'induzione in errore e dell'atto dispositivo - elemento costitutivo implicito della truffa - si afferma, tra l'altro, che effettivamente nella formulazione dell'articolo 640 cod. penumero la condotta tipica, consistente nella realizzazione di artifici o raggiri, introduce una serie causale che porta agli eventi di ingiusto profitto con altrui danno passando attraverso l'induzione in errore e che l'induzione in errore pur rappresentando il modo in cui si manifesta il nesso causale, non lo esaurisce. Dottrina e giurisprudenza tradizionalmente concordano nel rilevare che il passaggio dall'errore agli eventi consumativi deve essere contrassegnato da un elemento sottaciuto dal legislatore, costituito dal comportamento collaborativo della vittima che per effetto dell'induzione arricchisce l'artefice del raggiro e si procura da sé medesimo danno. La collaborazione della vittima per effetto del suo errore rappresenta in altri termini il requisito indispensabile perché ingiusto profitto e danno possano dirsi determinati dalla condotta fraudolenta dell'agente e costituisce il tratto differenziale del reato in esame rispetto ai fatti di mera spoliazione da un lato, ai reati con collaborazione della vittima per effetto di coartazione dall'altro. Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma essenziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese di chi dispone di beni patrimoniali, realizzato tramite lo stesso grazie all'inganno, è definito atto di disposizione patrimoniale . La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che apparentemente evoca categorie civilistiche rispetto alle quali è impropria. Nulla nella formulazione della norma consente difatti di restringere l'ambito della collaborazione carpita mediante inganno ad un atto di disposizione da intendersi nell'accezione rigorosa del diritto civile e di escludere, all'inverso, che il profitto altrui e il danno proprio o di colui del cui patrimonio l'ingannato può legittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora dire che per l'integrazione della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto dell'errore in cui è caduto per fatto dell'agente e dal quale derivi causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a danno della vittima. Se, insomma, il senso riposto dell'atto di disposizione è che il danno deve potersi imputare ad un'azione che viene svolta all'interno della sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto, il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o in un fatto omissivo quello che conta è che sia un atto volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa. Quanto sopra è proprio ciò che è accaduto nel caso di specie. È, quindi, chiaro che il ricorso del difensore della B. deve essere rigettato e la ricorrente deve, pertanto, essere condannata al pagamento delle spese processuali. Passando all'esame del ricorso del P.M. per quanto riguarda sempre la posizione della B. , e tenendo conto del secondo dei due principi evidenziati nella premessa, si deve rilevare che il Tribunale è andato al di là dei limiti imposti per la verifica, in sede di riesame di misure cautelari reali, della sussistenza del fumus commissi delicti per quanto riguarda il reato sub B. Infatti, il Giudice di merito da un lato riconosce la sussistenza di tutti gli elementi per ravvisare il reato di cui all'articolo 5 D.L. 74/2000 si veda pagina 8 impugnato provvedimento , ma poi afferma che le somme pretese come evase siano, per tutti gli anni in contestazione, al di sotto della soglia di punibilità fissata dal Legislatore pari ad Euro 77.468,53 il Tribunale arriva a tale conclusione sottraendo dai ricavi i costi di esercizio. Il Giudice di merito, però, afferma quanto sopra senza fornire alcuna motivazione violando così la legge , se non quella apparente di aver ricavato tale circostanza attraverso un esame sommario dei bilanci già presenti nelle informative ed allegati agli atti di P.G. . Orbene, dal ricorso del P.M. si apprende che i bilanci non sono mai stati esibiti dagli indagati, ma acquisiti previa rogatoria all'estero che nessuna fattura passiva che dimostri il sostenimento dei presunti costi di produzione da parte della società è stata mai rinvenuta o prodotta si vedano le pagine da 3 a 5 del ricorso del P.M. e che, anzi, i risultati delle indagini il cui esito è contenuto negli atti richiamati dal Giudice di merito fanno ritenere non vere. Il Tribunale di tutto ciò non tiene conto né fornisce alcuna giustificazione del suo apodittico assunto sul mancato raggiungimento della soglia di punibilità. In proposito questa Suprema Corte ha affermato che il Tribunale, in sede di riesame di un provvedimento cautelare emesso per un reato tributario, non è tenuto ad accertare l'imponibile e l'imposta evasa contestata al contribuente, in quanto l'accertamento incidentale, proprio del giudizio di riesame, non prevede l'esercizio di poteri istruttori da parte del giudice della cautela fattispecie in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, in cui la Corte ha precisato che il concreto accertamento della sussistenza del reato oggetto dell'imputazione provvisoria deve avvenire nel giudizio di merito Sez. 3, Sentenza numero 43695 del 10/11/2011 Cc. - dep. 25/11/2011 - Rv. 251329 . Il medesimo discorso vale per quanto deciso dal Tribunale per il coindagato G. . Infatti, come ha rilevato il P.M., lo steso Tribunale ha evidenziato vari elementi che possono dimostrare - si deve tener ben presente solo sul piano indiziario - il concorso nel reato di truffa di G.A. nipote della B. si vedano gli elementi indicati alle pagine 8 e 9 dell'impugnato provvedimento . Il Tribunale, però, dopo aver rilevato quanto sopra non fornisce alcuna motivazione violando quindi la legge sul perché tali elementi non siano sufficienti per ritenere sussistente il fumus commissi delicti. Né può ritenersi tale, la generica affermazione di mancanza di oggettivi riscontri infatti, il Tribunale non specifica a quali riscontri si riferisca e, soprattutto, cosa dovessero riscontrare, visto che tra gli elementi indiziari a carico dell'indagato vi è la dichiarazione di una teste Bo.La. dalle quali dichiarazioni si ricava il coinvolgimento del G. - seppur sotto le direttive della B. - nel salvataggio dei dati contenuti negli hard disk dei p.c. usati al fine di poterli successivamente asportare dai luoghi di impresa e che poi effettivamente sono stati rinvenuti nella sua abitazione si vedano pagine 8 e 9 dell'impugnato provvedimento e il ritrovamento di varie cose compromettenti presso la sua abitazione si veda pagina 8 dell'impugnato provvedimento . Pertanto il ricorso del Pubblico Ministero deve essere accolto e l'ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Rimini nei confronti di B.E. e G.A. . P.Q.M. In accoglimento del ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Rimini nei confronti di B.E. e G.A. . Rigetta il ricorso di B.E. che condanna al pagamento delle spese processuali.