Madre e nonna uccidono la bambina appena nata: lo stato di abbandono è un requisito da leggere in chiave soggettiva

Lo stato di «abbandono materiale e morale» che connota la fattispecie delittuosa dell’infanticidio dev’essere letto in chiave soggettiva e non meramente oggettiva. Per cui detto stato può ricorrere anche nei casi in cui, nonostante vi sia per la madre la possibilità di ricorrere al presidio ospedaliero, ella si trovi comunque, per altre circostanze, a dover partorire in uno stato di effettiva derelizione.

Lo ha stabilito la Prima sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza numero 26663, depositata il 19 giugno 2013. La morte di una piccola . Nel caso di specie una giovane donna è stata rinviata a giudizio assieme alla madre con l’accusa di aver commesso, in concorso con quest’ultima, il reato di omicidio volontario e quello di occultamento di cadavere. Secondo la ricostruzione dell’accusa l’imputata, rimasta incinta in seguito ad una relazione intrattenuta con un uomo anziano, avrebbe provocato la morte della sua bambina appena nata, per poi occultarne il cadavere con l’ausilio della nonna nascondendolo sotto il letto in una busta di plastica. L’emorragia contratta dalla donna in seguito al parto l’ha però costretta a recarsi presso il presidio ospedaliero più vicino, ove i medici, accortisi delle cause della emorragia, hanno immediatamente notiziato l’Autorità giudiziaria affinchè fosse rinvenuto il corpo del neonato. Stato di abbandono dev’essere oggettivo non è infanticidio . All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale – col rigettare la tesi difensiva volta a sostenere che il delitto integrato dalle imputate fosse quello di infanticidio articolo 578 c.p. e non già quello - più grave - di omicidio volontario - ha ritenuto sussistente la penale responsabilità delle imputate per i reati loro ascritti, condannandole alla pena di giustizia. La sentenza è stata, peraltro, confermata dalla Corte d’appello, sebbene in parte, posto che la condanna per il reato di occultamento di cadavere è venuta meno per il decorso dei termini di prescrizione. Il dicutum dei giudici di merito è disceso dall’accoglimento della tesi restrittiva in ordine al significato dell’inciso «stato di abbandono materiale e morale» nel quale deve versare la madre che decida di sopprimere il neonato all’atto del parto o in un momento immediatamente successivo. Secondo la Corte territoriale, infatti, detto requisito dev’essere valutato in maniera oggettiva, col che la donna, ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’articolo 578 c.p. deve trovarsi in una condizione «di assoluta derelizione ovvero di isolamento tale che non consente l’intervento o l’aiuto di terzi né un qualsiasi soccorso fisico o morale», elementi che, nel caso di specie, non sono stati ritenuti sussistenti, posto che la partoriente ben avrebbe potuto rivolgersi all’ospedale per avere un sostegno morale e materiale. Quanto alla posizione della madre della partoriente, il contributo causalmente rilevante della condotta è stato tratto, oltre che dall’assistenza all’uccisione per soffocamento dell’infante, dall’influenza psicologica della donna, prigioniera del degrado culturale e sociale che da sempre connotava la sua vita. Col che la madre della partoriente avrebbe costretto moralmente la seconda ad uccidere la bambina appena nata per motivazioni di onore e per ragioni di ignoranza e vergogna nei confronti dei conoscenti, essendo la bambina soppressa il frutto di una relazione sentimentale che sarebbe apparsa disdicevole agli occhi della gente. La tesi accolta il requisito dev’essere letto in chiave soggettiva. La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi in ultima istanza sulla vicenda, ha però ribaltato il verdetto emesso dai giudici di secondo grado, aderendo alla tesi meno severa, accolta da buona parte della giurisprudenza, in ordine all’esatto significato da attribuire alla dizione utilizzata dal Legislatore per descrive l’ipotesi delittuosa dell’infanticidio. Principiando da una esegesi della norma in ottica diacronica, i giudici di legittimità hanno, invero, osservato come il requisito dello «stato di abbandono materiale e morale» debba leggersi in maniera «individualizzante» rectius «in chiave soggettiva», prescindendo, cioè, dalla oggettiva possibilità della donna, all’atto del parto, di ricorrere o meno ai presidi sanitari, dovendosi, al contrario, valutare altre e diverse circostanze. Si è così sostenuto che la fattispecie delittuosa dell’infanticidio ricorra «anche quando sia possibile, nel contesto territoriale ove avviene il parto, il ricorso da parte della madre all’aiuto dei presidi sanitari o di altre strutture» assumendo particolare significato l’effettiva «condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna» che, per altri e diversi motivi, ben può impedirle di cogliere dette opportunità, inducendola a partorire in uno stato di derelizione. Per cui la presenza dei mezzi di sussistenza o la vicinanza ai poli di ausilio, possono non essere sufficienti ad escludere l’infanticidio laddove altre circostanze quali, ad esempio, un ambiente familiare ostile e totalmente indifferente al dramma familiare della donna ovvero l’abnorme stato di forte stress psicofisico della donna provochino, in concreto, quello stato di abbandono richiesto dalla norma incriminatrice. Sulla base di tali affermazioni, la Corte capitolina ha annullato la sentenza di condanna, rinviando al Giudice di secondo grado per una nuova valutazione del fatto. Concorso e connivenza non punibile rileva l’ignoranza dell’imputato? La decisione della Corte Suprema ha registrato l’annullamento con rinvio della sentenza censurata anche con riferimento alla posizione della madre della gestante. Gli Ermellini, nel richiamare i confini tra concorso nel reato e mera connivenza non punibile, hanno sostenuto l’impossibilità di attribuire la responsabilità dell’infanticidio all’imputata in base al semplice dato circa il livello culturale e sociale della stessa sicchè l’effettiva valenza, in termini di contributo causalmente rilevante alla commissione del reato, dovrà essere oggetto di una nuova valutazione da parte del giudice di secondo grado anche sotto questo profilo.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 23 maggio 19 giugno 2013, numero 26663 Presidente Giordano – Relatore Bonito Ritenuto in fatto 1. Il 20 novembre 2009 il Gup del Tribunale di Lucera, all'esito di giudizio abbreviato, dichiarava B.C. e M.F. colpevoli dei delitti di concorso nell'omicidio volontario aggravato in danno della figlia appena nata della prima articolo 575 c.p, articolo 577 c.p., numero 1 e nell'occultamento del suo cadavere articolo 412, 61 numero 2 c.p. , in omissis , e, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche dichiarate prevalenti sulla contestata aggravante, riconosciuto il vizio parziale di mente per la B. , condannava quest'ultima alla pena di anni sei e mesi undici di reclusione e la M. , genitrice della B. , alla pena di anni dieci di reclusione. 2. Il sei marzo 2012 la Corte d'assise d'appello di Bari, in parziale riforma della decisione di primo grado, dichiarava estinto il reato di cui all'articolo 412 c.p. per prescrizione e per l'effetto rideterminava le pene in anni sei e mesi quattro per B.C. ed in anni nove e mesi quattro per la madre, confermando nel resto la decisione di primo grado. 3. Dalle sentenze di merito emerge la seguente, comune ricostruzione dei fatti. Nella tarda mattinata del 1 febbraio 2001 le imputate si presentavano presso gli ospedali di Foggia perché in preda B.C. ad una vasta emorragia nella regione vaginale i sanitari riscontravano immediatamente i segni evidenti di un recentissimo parto, rispetto al quale sia la paziente che la madre si mostravano del tutto reticenti l'accesso in tal modo giustificato dei CC. presso l'abitazione delle imputate, posta in Troia, consentiva di rinvenire occultato sotto il letto, all'interno di una busta di plastica, il corpicino senza vita di una bambina appena partorita il medico legale accertava, nell'immediatezza, che la bambina era nata il mattino di quel giorno, che era nata viva e vitale e che la morte era stata cagionata da asfissia subito dopo il parto le indagini accertavano altresì che la bimba era il frutto di una relazione intrattenuta dalla madre con persona anziana già sposata, che la gravidanza, tenuta nascosta a parenti e vicini, era stata vissuta con gravi sensi di colpa, che il padre della piccola si era del tutto disinteressato della vicenda. B.C. in particolare, interrogata dal P.M., affermava di aver partorito da sola, che il feto era stato spontaneamente espulso -circostanza contraddetta dall'accertamento medico-legale che la membrana aveva subito una rottura meccanica che la madre l'aveva aiutata soltanto dopo l'espulsione del feto, circostanza anche questa smentita dal medico legale, il quale ha affermato la necessità di una persona accanto alla partoriente per consentire la rottura meccanica della membrana. 4. Il fatto veniva qualificato dai giudici di merito come omicidio volontario e non come infanticidio in condizioni di abbandono materiale o morale secondo quanto prospettato dalla difesa , atteso che, nonostante l'accertata seminfermità di mente della partoriente al momento dei fatti, non poteva -a loro avviso riconoscersi nella fattispecie, anche in forza dell'insegnamento giurisprudenziale, le condizioni di abbandono materiale o morale caratterizzanti l'ipotesi criminosa di cui all'articolo 578 c.p I giudicanti hanno sostenuto siffatta conclusione rilevando che sul territorio esistevano strutture socio-sanitarie alle quali la madre avrebbe potuto rivolgersi che il comportamento dell'imputata, la quale aveva cercato in precedenza di abortire non riuscendovi per la mancanza di aiuto della genitrice e dell'amante, lasciava trasparire la sua decisione, da tempo assunta, di sopprimere il prodotto del concepimento che l'imputata si era già rivolta alle strutture sanitarie presenti sul territorio che anche dopo il parto, in preda ad una copiosa emorragia, la stessa non aveva esitato a rivolgersi a quelle strutture presso le quali avrebbe potuto scegliere di partorire se non animata dal proposito omicida. Dette premesse escluderebbero in radice, sempre secondo avviso dei giudici di merito, una correlazione tra lo stato di abbandono e l'evento delittuoso del quale deve rispondere anche la M. , necessariamente al corrente dello stato di gravidanza della figlia con la quale viveva e dormiva ed alla quale dovette necessariamente fornire aiuto al momento del parto, come dimostrato dalla rottura meccanica della membrana, possibile soltanto se presente altra persona con la partoriente. 5. Avverso la citata sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, tramite il comune difensore di fiducia, entrambe le imputate. 5.1.1 Col primo motivo di impugnazione, nell'interesse di B.C. , denuncia la difesa ricorrente violazione di legge e difetto di motivazione, in particolare deducendo l'esclusione dell'ipotesi prevista dall'articolo 578 c.p. risulta fondata su un'erronea lettura degli elementi probatori acquisiti in merito alle condizioni di abbandono morale e materiale in cui versava l'imputata, tenuto conto del contesto di isolamento, ipocrisia, degrado socio-economico in cui è maturato il gesto della donna, dello scarso livello culturale della madre, unica convivente, ancorata ad una visione arcaica della vita e dei rapporti interpersonali, nonché dell'accertato stato di seminfermità, sicché lo sviluppo dell'iter argomentativo del provvedimento impugnato è caratterizzato da palesi insufficienze, soprattutto là dove da rilievo decisivo, minimizzando e di fatto escludendo i fattori precedenti, alla presenza sul territorio di insediamenti sanitari idonei a raccogliere la partoriente, all'utilizzo di tali strutture subito dopo il parto, alla volontà in precedenza espressa dal l'imputata di liberarsi del frutto della gravidanza. 5.1.2 Deduce, in secondo luogo, la difesa ricorrente difetto di motivazione nel mancato accoglimento delle doglianze difensive in ordine all'omesso riconoscimento del vizio totale di mente. 5.2.1 Col primo motivo sviluppato nell'interesse di M.F. denuncia invece la difesa ricorrente illogicità della motivazione là dove la sentenza impugnata accredita un concorso pieno dell'imputata nei fatti di causa in assenza di una prova certa del suo coinvolgimento, materiale ovvero anche soltanto morale, nella soppressione della creatura appena nata. 5.2.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia infine la difesa della M. violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla qualificazione della condotta contestata ed al mancato riconoscimento, in concreto, della ipotesi delittuosa di cui all'articolo 578 c.p., svolgendo sul punto argomentazioni e deduzioni del tutto sovrapponibili a quelle innanzi sintetizzate col primo motivo sviluppato difensivamente in favore della coimputata B.C. . Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso di B.C. e l'analogo secondo motivi di impugnazione della M. appaiono fondati. La sentenza d'appello ha escluso l'ipotesi dell'infanticidio in base alla considerazione che la situazione di abbandono materiale e morale è ravvisabile in concreto solo quando la madre viene a trovarsi in una situazione di isolamento tale da non consentire l'aiuto di presidi sanitari o di altre persone, situazione inesistente nel caso in esame caratterizzata dalla volontà della madre di celare il suo stato di gravidanza di per sé cagione, provocata dalla stessa interessata, della mancanza di ogni possibile forma di aiuto. La pronuncia impugnata valorizza altresì le circostanze che l'imputata tentò l'aborto nel corso della gravidanza e che subito dopo il parto cercò aiuto in ospedale per contrastare l'emorragia in atto, da ciò deducendo il proposito omicida della prevenuta al di là di ogni situazione di inesistente abbandono. 2. L'interpretazione dell'articolo 578 c.p. contenuta nella sentenza impugnata non appare corretta. Come osservato da questa sezione della Corte con sentenza 7.10.2010, numero 40993, alla quale la presente motivazione fa ampio ed adesivo riferimento, l'attuale formulazione del reato di infanticidio è il risultato di un lungo e travagliato iter parlamentare conclusosi nel 1981. Il codice del 1930, innovando la previsione contenuta nel codice Zanardelli, che lo inseriva tra le attenuanti dell'omicidio, provvedeva ad un inquadramento giuridico autonomo della fattispecie, costruita su un referente tutto sociologico la ragione di un attenuato rigore sanzionatorio veniva individuata nella causa d'onore, ossia nella necessità, in adesione alle concezioni sociali del momento, di salvare il proprio onore sessuale. La validità di una simile scelta legislativa è stata successivamente messa in forse dai rapidi mutamenti occorsi nel costume e nella sensibilità sociale in materia di rapporti familiari, tali da indurre ad una riformulazione della fattispecie con la L. 5 agosto 1981, numero 442. La ragione giustificativa della fattispecie novellata e del differente regime sanzionatorio rispetto al delitto di omicidio volontario deve essere colta non sotto il profilo oggettivo, trattandosi comunque di un'offesa arrecata al bene giuridico della vita umana, bensì sul piano soggettivo, dato che il fatto è ritenuto dal legislatore meno colpevole in considerazione delle condizioni di turbamento psichico ed emotivo connesse al parto e al contesto di particolare difficoltà in cui esso viene a collocarsi. Espressione di questa ratio della norma sono la sua configurazione come reato proprio soggetto attivo del reato è, infatti, la madre e non chiunque e il differente regime sanzionatorio previsto nei confronti dei correi a seconda che abbiano o meno agito al solo scopo di favorire la madre . Gli elementi specializzanti la fattispecie oggettiva sono due a il dato cronologico, atteso che il fatto deve essere commesso durante o immediatamente dopo il parto b le condizioni di abbandono materiale e morale della madre al momento del parto, tali da determinarne la decisione. 3. È indubbio e incontestato che le condizioni di abbandono materiale e morale debbono sussistere oggettivamente e congiuntamente e devono essere connesse al parto, nel senso che, in conseguenza della loro obiettiva esistenza, la madre non ritiene di potere assicurare la sopravvivenza del figlio subito dopo il parto Sez. 1, 26 maggio 1993, Paniconi, 194870 Sez. 1, 16 aprile 1985, Vicario, 170384 . Ciò posto, nella giurisprudenza di questa Corte si registrano orientamenti interpretativi difformi sull'interpretazione della nozione di abbandono materiale e morale , contraddistinta, come altresì dottrinariamente rilevato, da una portata semantica assai lata ed incerta. Alla stregua di un primo indirizzo, la situazione di abbandono richiesta dalla norma si configura soltanto quando, da un punto di vista oggettivo, la donna, al momento del parto, si trova in una situazione di assoluta derelizione ovvero di isolamento tale che non consente l'intervento o l'aiuto di terzi né un qualsiasi soccorso fisico o morale Sez. 1, 26 maggio 1993, numero 7756 Sez. 1, 3 ottobre 1986, numero 1007 Sez. 1, 15 aprile 1999, numero 9694 Sez. 1, 9 marzo 2000, numero 2906 Sez. 1, 17 aprile 2007, numero 24903 . In tale contesto esegetico si collocano alcune decisioni che riducono ulteriormente l'ambito applicativo della norma, argomentando che lo stato di abbandono della madre non deve essere determinato da una situazione contingente correlata al momento culminante della gravidanza, ma deve esistere da tempo e costituire una condizione di vita che si sostanzia nell'isolamento materiale e morale della donna dal contesto familiare e sociale, produttivo di un profondo turbamento spirituale che si aggrava grandemente, sfociando in una vera e propria alterazione della coscienza, in molte partorienti immuni da processi morbosi mentali e, tuttavia, coinvolte psichicamente al punto da smarrire almeno in parte il lume della ragione Sez. 1, 25 novembre 1999, numero 1387 Sez. 1, 7 ottobre 2009, numero 41889 . Questa interpretazione restrittiva della nozione di abbandono materiale e morale mal si concilia con una lettura logico-sistematica e con la ratio della norma, il cui ambito applicativo viene relegato ad alcune ipotesi del tutto eccezionali e di scuola in cui, come osserva un'autorevole dottrina, la donna si trova a partorire in una landa molto isolata, oggettivamente priva di qualunque assistenza . Un diverso indirizzo interpreta, invece, il requisito dell'abbandono materiale e morale in senso individualizzante e ritiene applicabile la fattispecie prevista dall'articolo 578 c.p., anche quando sia possibile, nel contesto territoriale ove avviene il parto, il ricorso da parte della madre all'aiuto di presidi sanitari Sez. 1, 13 giugno 1991, numero 8489 o di altre strutture, ma la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna le impedisce di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione. In tale prospettiva, ai fini della configurazione del reato, è stata ritenuta irrilevante la disponibilità, da parte dell'imputata, di idonei mezzi di sussistenza, essendo sufficiente la condizione di solitudine e di abbandono determinata anche da un ambiente familiare totalmente indifferente al dramma umano della donna Sez. 1, 16 aprile 1985, numero 7997 Sez. 1, 15 aprile 1999, numero 9694 . Nella medesima ottica è stato attribuito rilievo anche alla totale incomunicabilità e all'assoluta incapacità dell'ambiente familiare di cogliere l'evidenza dello stato della donna e di avvertire ogni esigenza di aiuto e di sostegno necessari alla stessa Sez. 1, 18 novembre 1991, numero 311 . 4. Tanto premesso, ritiene il Collegio che l'abbandono materiale e morale costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva in altri termini, la concreta situazione di abbandono, pur rappresentando un dato concreto e indiscutibile che deve effettivamente sussistere, trattandosi di un elemento del fatto tipico, non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell'ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto in particolare cfr. Cass. 40993/2010 cit . Una conclusione del genere pare maggiormente coerente con la lettura logico-sistematica e con la ratio della norma, sostenuta dalla constatazione che diversi fattori, tanto biologici quanto sociali e relazionali, possono svolgere un ruolo attivo nel determinismo dell'evento delittuoso da un lato la condizione di severo stress psicofisico che accompagna il parto e, dall'altro, il contesto di particolare sfavore e solitudine nel quale si collocano dapprima la gestazione e poi il parto gravidanza nascosta oppure osteggiata, solitudine materiale e affettiva, povertà estrema, contesto sociale, maturità culturale inesistente . L'esegesi della nozione lata contenuta nell'articolo 578 c.p., non può, inoltre, prescindere dalle più moderne acquisizioni scientifiche, alla stregua delle quali è improprio ricondurre la maternità ad un ambito esclusivamente medico-sanitario, il cui percorso è scandito da analisi di laboratorio e da protocolli diagnostici vincolanti ai fini del parto, così come pure limitare la condizione della donna in gravidanza ad una dimensione squisitamente fisiologica. I problemi della gestante non si limitano alle eventuali difficoltà di un corpo che partorisce e la maternità non si esaurisce nel parto sentenza 40993/2010 . Gli studi basati sull'osservazione e sulla clinica, in opposizione ad un approccio esclusivamente medicale alla gravidanza che, invece, isola sia il corpo materno che l'embrione-feto, parlano di vissuto interiore della maternità ed evidenziano che diventare madre è un processo complesso, che ha inizio ben prima della nascita del figlio e che richiede alla donna di sottoporsi ad un'articolata esperienza psicologica individuale, ad un difficile percorso di riadattamento della propria organizzazione psichica, ad una profonda trasformazione identitaria, implicante la rivisitazione dei rapporti familiari in particolare quello con la genitrice al fine di elaborare una propria identità di madre. In proposito, un'autorevole dottrina sottolinea che, nel corso della gravidanza, la donna deve transitare dal periodo di identificazione ed accettazione del feto quale parte di sé, alla formulazione di un nuovo io che comprenda anche il feto, in una sorta di unità duale , e da questa giungere all'elaborazione del concetto del feto quale altro da sé , posizione propedeutica alla sua separazione Cass., 40993/2010 cit. . 5. Alla luce dei principi sin qui esposti, la sentenza impugnata è viziata sotto vari profili. Innanzitutto appare il frutto di un'erronea interpretazione dell'articolo 578 c.p., in quanto muove da una restrittiva e non condivisibile esegesi in chiave rigidamente oggettiva del concetto di abbandono materiale e morale , inteso come lontananza da presidi sanitari ed escluso in costanza di un volontario isolamento della partoriente. In secondo luogo contiene un'insanabile frattura logico-argomentativa mentre pare, infatti, riconoscere la sussistenza di una situazione fattuale oggettivamente ostile alla donna, ritiene nel contempo ininfluente il suo stato di seminfermità, viceversa ineludibile fattore di massima enfatizzazione di tale concreta situazione. Inoltre, contraddicendo la premessa maggiore in ordine alla lettura della nozione di abbandono intesa come vera e propria condizione di vita che prescinde dal ristretto periodo della gravidanza e del parto, i giudici di merito hanno ritenuto che la presenza a 20 km. di un ospedale fosse di per sé idonea a comprovare l'insussistenza di uno stato di effettiva derelizione della donna. Di conseguenza, in sede di rinvio, la Corte d'assise d'appello di Bari dovrà, sulla base dell'interpretazione del requisito dell'abbandono materiale e morale quale requisito della fattispecie oggettiva da leggere in chiave soggettiva, secondo quanto precisato al paragrafo precedente, procedere ad una nuova valutazione della concreta situazione di isolamento in cui versava B.C. , tenendo presente che tale condizione non deve rivestire carattere di oggettiva assolutezza, essendo sufficiente ad integrare la situazione tipica anche la percezione di totale abbandono avvertita dall'imputata nel contesto di una difficile e complessa esperienza psicologica individuale legata allo stato di gravidanza e, quindi, al parto cfr. par. 4 , con incisiva delibazione contestuale dello stato di accertata seminfermità al momento dei fatti. 6. Anche la motivazione con la quale la corte di merito ha ritenuto la colpevolezza della M. in ordine al reato di omicidio volontario della nipotina appena nata si appalesa insufficiente e non pienamente logica. Sul punto pag. 24 della sentenza il sillogismo decisionale in esame si è sviluppato deduttivamente dalla ritenuta acquisizione probatoria certa che la madre abbia collaborato con la figlia nel parto e che per il suo limitatissimo livello culturale, in uno con arcaiche concezioni dei rapporti sociali, abbia concorso moralmente, spingendola a ciò, nella determinazione della figlia di sopprimere il frutto dell'indesiderato concepimento. Non solo, l'aver attivamente aiutato la figlia nelle operazioni di parto, ad avviso dei giudicanti, da forma al concorso materiale della M. nella soppressione della nipotina immediatamente dopo la sua nascita. L'iter argomentativo appena sintetizzato non appare logicamente coerente. Affinché si abbia concorso morale nel reato, anziché mera connivenza non punibile, è necessario che sussistano degli elementi concreti idonei a dimostrare che l'opera del concorrente abbia volontariamente inciso in misura apprezzabile sulla psiche dell'autore materiale del fatto, anche solo rinsaldando il preesistente proposito criminoso Cass., Sez. 4, 31/01/2008, numero 9500 . Di qui la necessità logica di individuare, eppertanto di provare nel processo, una condotta, anche omissiva, idonea a determinare ovvero anche solo a rafforzare il proposito delittuoso. Nel caso in esame i giudici di merito ritengono soddisfatto l'onere probatorio richiamando gli improperi rivolti dalla madre alla figlia nel corso della gravidanza e le condizioni di degrado culturale e sociale dell'imputata, senza null'altro aggiungere per dimostrare i modi attraverso i quali il comportamento della predetta abbia apprezzabilmente determinato ovvero rafforzato la volontà omicida della figlia e che quegli improperi fossero diretti proprio a tale scopo. Del pari apodittica si appalesa la tesi decisionale in ordine al concorso materiale dell'imputata nella consumazione della condotta contestata, dappoiché l'aver collaborato al parto non dimostra affatto che la madre abbia poi concorso nella soppressione della nipotina, fatto diverso e distinto dal parto, consumatosi in tempi diversi neppure accertati con assoluta precisione immediatamente dopo?, dopo uno, due, cinque minuti? . Anche tale punto della condanna merita di essere rivalutato dal giudice territoriale nel complessivo quadro, giuridico e fattuale, delimitato dal presente annullamento e dalle ragioni illustrate a sostegno della decisione di legittimità. 7. Infondata è, viceversa, la doglianza difensiva sviluppata nell'interesse della B. col secondo motivo di ricorso, relativa al mancato riconoscimento, da parte dei giudici di merito, del vizio totale di mente dell'imputata in luogo dell'affermato vizio parziale. A parte la genericità della doglianza, giova comunque richiamare sul punto il costante insegnamento di questa Corte secondo cui lo stabilire se l'imputato, riconosciuto affetto da infermità mentale, fosse al momento del fatto totalmente privo di capacità d'intendere e di volere ovvero avesse tale capacità, ma grandemente scemata, costituisce una questione di fatto la cui valutazione, mercé l'ausilio delle risultanze della perizia psichiatrica, compete esclusivamente al giudice di merito, il giudizio del quale si sottrae al sindacato di legittimità quante volte, anche con il solo richiamo alle condivise valutazioni e conclusioni delle perizie, divenute tuttavia consustanziali alla motivazione, risulti essere esaurientemente motivato, immune da vizi logici di ragionamento, garantito da una continua osservazione del soggetto, e conforme a corretti criteri scientifici di esame clinico e di valutazione in termini Sez. 1, Sentenza numero 2883 del 24/1/1989, Rv. 180615 e più di recente Sez. 1, Sentenza numero 42996 del 21/10/2008, Rv. 241828,e da ultimo numero 31843/2011 , principio questo che non vi è ragione di disattendere nel caso in esame, ove si consideri che la Corte territoriale ha spiegato in modo esauriente le ragioni per cui le conclusioni formulate nell'espletata perizia tecnica dovevano ritenersi pienamente condivisibili, evidenziando la estrema accuratezza e completezza della acquisita relazione, pienamente aderente all'anamnesi del soggetto e frutto di una attenta ed adeguata disamina della personalità dell'imputata. P.Q.M. la Corte, annulla la sentenza impugnata nei confronti di M.F. relativamente al reato per cui ha riportato condanna nonché nei confronti di B.C. , limitatamente alla qualificazione del fatto per cui ha riportato condanna, e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Bari. Rigetta nel resto il ricorso della B. .