Necessaria una ‘traduzione’ dal dialetto siciliano alla lingua italiana, ma la sostanza non cambia è sicuramente negativo il modus agendi attribuito col ricorso al termine «crastu». Azzerata la visione buonista del Giudice di pace è corretto parlare di lesione dell’integrità morale della persona così apostrofata.
Dialetto siciliano, in questo caso o italiano, poco cambia dare del ‘traditore’ a una persona rappresenta un’offesa in piena regola. Decisiva la considerazione che l’epiteto utilizzato – «crastu» – è finalizzato a metterne in dubbio l’integrità morale. Cassazione, sent. numero 2905/2014, Quinta Sezione Penale, depositata oggi Valore morale. A sorpresa, però, la prima decisione, quella del Giudice di pace, assolve l’uomo finito sotto accusa per «ingiuria» per avere malamente apostrofato un altro uomo. Per la precisione, il termine utilizzato è «crastu», vocabolo che «nel dialetto siciliano ha un significato corrispondente a quello di ‘furbo’ o ‘furbastro’», e che, comunque, di solito, identifica il «montone». Ma tale definizione, seppur poco elegante, non consente, secondo il Giudice di pace, di contestare il reato di «ingiuria». A ribaltare completamente tale prospettiva provvedono i giudici del ‘Palazzaccio’, i quali, accogliendo il ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica, richiamano, paradossalmente, proprio l’«interpretazione» data dal Giudice di pace. Se «la parola ‘crastu’ ha un significato che lascia intendere una ‘mala parte’ o ‘azione’, compiuta da un soggetto inaspettatamente, e cioè da un soggetto che, davanti a certe circostanze, dice una cosa e poi si comporta diversamente per sottrarsi a responsabilità», si domandano i giudici, come è possibile negare la sostanza dell’«offesa»? Per questo motivo, la valutazione compiuta dal Giudice di pace è ritenuta erronea perché, spiegano i giudici, «attribuire a una persona siffatto comportamento si traduce in una negazione della sua integrità morale». Evidente, quindi, la «valenza offensiva» del termine ‘crastu’, che conduce a ritenere plausibile la contestazione della ‘ferita’ all’«onore» della persona malamente apostrofata.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 17 ottobre 2013 – 22 gennaio 2014, numero 2905 Presidente Ferrua – Relatore Oldi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza in data 11 giugno 2012 il giudice di pace di Augusta ha assolto C.C. dalle imputazioni di ingiuria e minaccia ai danni di L.L. per insussistenza del fatto. 1.1. Ha ritenuto il giudicante che l'avere il C. rivolto al L. la parola “crastu’’ non rivestisse gli estremi dell’ingiuria, trattandosi di vocabolo che nel dialetto siciliano ha un significato corrispondente a quello di «furbo» o «furbastro» quanto alla minaccia, ha giudicato insufficiente la prova del fatto ai sensi dell'articolo 530, comma 2, cod. proc. penumero , per essere rimaste prive di riscontro testimoniale le dichiarazioni della persona offesa. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Catania, affidandolo a due motivi. 2.1. Col primo motivo il P.G. ricorrente impugna l'assoluzione dall'imputa zione ex articolo 594 cod. penumero , sostenendo che il termine «crastu» in dialetto siciliano, contrariamente a quanto affermato nella sentenza, ha il significato corrispondete a quello di «montone» vale a dire di «cornuto» o «testa dura». 2.2. Col secondo motivo impugna l'assoluzione dall'imputazione ex articolo 612 cod penumero , richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità che riconosce autonoma valenza probatoria alla deposizione della persona offesa, pur in mancanza di riscontri esterni, quando resista al vaglio di credibilità osserva, poi, non essere vero che le testimonianze abbiano contraddetto la versione del L., emergendo invece elementi a conforto dalle deposizioni dei testi Correnti e Serra il primo dei quali ha riferito di non avere un ricordo in proposito, mentre il secondo ha avuto notizia della minaccia dallo stesso L. . Considerato in diritto 1. Il primo motivo di ricorso è fondato e merita accoglimento. 1.1. Ed invero, fermo restando che l'accertamento in linea di fatto operato dal giudice di merito non è sindacabile in questa sede, neppure nella parte riguardante il significato da attribuirsi al termine dialettale «crastu», va tuttavia rimarcato che, proprio secondo l'interpretazione posta dal giudicante a base del suo deliberato, l'uso di quel termine si è tradotto nella formulazione di un'offesa ai danni della persona cui era indirizzata. 1.2. Si legge, infatti, nella motivazione della sentenza che la parola «crastu» ha un significato «che lascia intendere una mala parte o azione compiuta da un soggetto inaspettatamente e cioè da un soggetto che davanti a certe circostanze dice una cosa e poi si comporta diversamente per sottrarsi a responsabilità». L'attribuire a una persona siffatto comportamento si traduce in una negazione della sua integrità morale, la cui valenza offensiva riconduce il fatto nell'area di operatività dell'articolo 594 cod. penumero onde contraddittoria con tale premessa è la conclusione tratta dal giudice di pace con l'affermare l'assoluta inoffensività della parola rivolta dall'imputato a L.L 2. Fondato è anche il secondo motivo di ricorso. 2.1. Il giudice di pace ha ritenuto insufficientemente provata la responsabilità del C. in ordine al delitto di minaccia, inducendosi perciò ad assolverlo ex articolo 530, comma 2, cod. proc. penumero , sul presupposto che la ricostruzione del fatto fornita dalla persona offesa non avesse trovato riscontro in alcuna delle testimonianze assunte. Ma così facendo il giudicante ha omesso di tener conto del principio, ripetutamente enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo cui la deposizione della persona offesa dal reato, pur non essendo equiparabile a quella di un testimone estraneo, può tuttavia essere assunta anche da sola a fonte di prova, purché superi il vaglio di credibilità oggettiva e soggettiva, senza che sia necessario il concorso di riscontri esterni v. ex multis Sez. 3, numero 34110 del 27/04/2006, Valdo Tosi, Rv. 234647 Sez. 1, numero 46954 del 04/11/2004, Palmisani, Rv. 230590 Sez. 6, numero 33162 dei 03/06/2004, Patella, Rv. 229755 . Alla stregua di tale principio il giudice di merito ben avrebbe potuto disattendere la versione dei fatto offerta dal L., ma soltanto spiegando le ragioni della ritenuta inattendibilità delle sue dichiarazioni mentre non costituisce una ratio decidendi conforme a legge quella, adottata in concreto, con cui ci si limiti a constatare l'assenza di conferme da parte di testi estranei. 3. La sentenza impugnata deve essere, quindi, annullata in ogni sua parte. II giudice di rinvio, che si designa nello stesso giudice di pace di Augusta ovviamente in persona di altro magistrato onorario , sottoporrà a rinnovato esame l'intera vicenda tenendo conto dei principi testé ricordati. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame al giudice di pace di Augusta.