La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona, in tema di patteggiamento. Egli si è lamentato della mancata verifica della condizione di ammissibilità del rito prevista dall’articolo 444, comma 1-ter, c.p.p
Sul tema la Corte di Cassazione con la sentenza numero 19679/21, depositata il 18 maggio. Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pesaro applicava ad un imputato la pena di tre anni e sei mesi di reclusione per i reati di concussione, peculato, falso ideologico in atti pubblico ed omissione di atto d’ufficio. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Ancona ricorre in Cassazione deducendo la violazione dell’articolo 444, comma 1-ter c.p.p., a causa della mancata verifica da parte del giudice della condizione di ammissibilità del rito prevista dalla suddetta norma. Il motivo di doglianza è fondato in quanto dagli atti emerge che non è stata adempiuta alcuna verifica sulla sussistenza della condizione di ammissibilità prevista dall’articolo 444, comma 1-ter c.p.p., senza quindi esserci gli elementi da cui desumere che c’è stata restituzione del prezzo o del profitto dei reati. La Corte Costituzionale, con la sentenza 95/2015, ha già avuto modo di affermare a riguardo che «rientra nella discrezionalità legislativa perseguire una politica criminale per la quale taluni reati siano destinatari di un trattamento più rigoroso espresso non solo dal livello della pena edittale ma da limiti all’accesso al rito alternativo». Sul tema anche la Corte di Cassazione ha precisato che la previsione contenuta nell’articolo 444, comma 1-ter c.p.p. costituisca «una condizione meramente processuale di ammissibilità del rito speciale in argomento». Ne consegue che essa sia applicabile, come nel caso di specie, anche nei procedimenti relativi a reati commessi prima dell’entrata in vigore della l. numero 69/2015 Cass. numero 25257/2018, numero 9990/2017 e che «la richiesta di patteggiamento avanzata in difetto dell’indicata condizione di ammissibilità, si ripercuote sulla legalità dell’accordo e, in particolare, sull’espressione della volontà dell’imputato che risulta viziata perché contraria alla legge. Una violazione rispetto alla quale sarebbe quindi ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 448, comma 2-bis c.p.p. “perché rientrante nei motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato» Cass. numero 27606/2019 . La Consulta ha già chiarito che «il potere dispositivo delle parti concepito in funzione di collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia con un’effettiva ed immediata applicazione della pena si inserisce in un contesto edittale predeterminato dal legislatore in cui il giudice, senza rivestire un ruolo di carattere meramente notarile, esercita una funzione giurisdizionale determinante allorchè procede al controllo sull’accordo raggiunto tra le parti e alle ulteriori valutazioni di merito. Il giudice è l’organo del controllo di legalità che sovrintende all’accordo delle parti» Corte Cost. numero 313/1990 . Nel caso di specie, non si è in presenza di una divergenza tra il dichiarato ed il voluto da parte dell’imputato e neppure di una volontà negoziale, sottostante alla dichiarazione, viziata nel suo processo formativo. Ne consegue che il Collegio annulla la sentenza impugnata senza rinvio.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 27 gennaio – 18 maggio 2021, numero 19679 Presidente Bricchetti – Relatore Silvestri Ritenuto in fatto 1.Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Pesaro ha applicato a B.G. la pena di tre anni e sei mesi di reclusione per i reati di concussione consumata e tentata , peculato, falso ideologico in atto pubblico, omissione di atto d’ufficio. 2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Ancona articolando un unico motivo con cui deduce violazione di legge processuale, in relazione all’articolo 444 c.p.p., comma 1-ter, e vizio di motivazione. Il tema attiene alla omessa verifica da parte del Giudice della condizione di ammissibilità del rito prevista dalla norma indicata, con riguardo alla restituzione del prezzo o del profitto derivante dai reati previsti dagli articolo 317 e 314 c.p. di detta restituzione non vi sarebbe traccia negli atti e, si assume, il vizio sarebbe deducibile ex articolo 448 c.p.p., comma 2-bis. Considerato in diritto 1.Il ricorso è fondato. 2. Dagli atti emerge che non è stata compiuta nessuna verifica sulla sussistenza della condizione di ammissibilità prevista dall’articolo 444 c.p.p., comma 1-ter, e non vi sono elementi da cui inferire che vi sia stata restituzione del prezzo o del profitto dei reati. 2.1. La L. 27 maggio 2015, numero 69, intervenendo sull’articolo 444, ha introdotto il comma 1-ter, in ragione del quale nei procedimenti relativi ai più gravi delitti contro la Pubblica Amministrazione quelli previsti dagli articolo 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis c.p. l’ammissibilità della richiesta di patteggiamento è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato. Si tratta di una disposizione che impedisce al pubblico ministero di esprimere il consenso alla richiesta ed impone al giudice di rigettare la domanda eventualmente avanzata dalle parti. Pur in presenza di un danneggiato che non si è costituito parte civile non avanzando la pretesa risarcitoria in sede penale , il sistema vigente in casi circoscritti – non consente dunque l’accesso all’istituto di cui all’articolo 444 c.p.p all’indagato/imputato che non abbia posto in essere la condotta riparatoria/risarcitoria. La Corte costituzionale con sentenza numero 95 del 2015 ha affermato che rientra nella discrezionalità legislativa perseguire una politica criminale per la quale taluni reati siano destinatari di un trattamento più rigoroso espresso non solo dal livello della pena edittale ma da limiti all’accesso al rito alternativo. Se è vero che la facoltà di chiedere un rito alternativo è una modalità di esercizio del diritto di cui all’articolo 24 Cost., comma 2, sentenze numero 148 e 219/2004 numero 333/2009 numero 237/2012 numero 273/2014 , è altrettanto vero che la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto. La facoltà di chiedere l’applicazione della pena non può essere evidentemente considerata una condicio sine qua non per un’efficace tutela della posizione giuridica dell’imputato, tanto è vero che essa è esclusa per un largo numero di reati . 2.2. Sul tema, la Corte di cassazione ha già chiarito come la previsione contenuta nell’articolo 444 c.p.p., comma 1-ter, costituisca una condizione meramente processuale di ammissibilità del rito speciale in argomento con la conseguenza che essa è applicabile, come nel caso di specie, anche nei procedimenti relativi a reati commessi prima dell’entrata in vigore della L. numero 69 del 2015 Sez. 6, numero 25257 del 22/03/2018, Perfetti, Rv. 273656 Sez. 6, numero 9990 del 25/01/2017, Mirelli, Rv. 269645 . Si è affermato che la richiesta di patteggiamento avanzata in difetto della indicata condizione di ammissibilità, si ripercuote sulla legalità dell’accordo e, in particolare, sull’espressione della volontà dell’imputato che risulta viziata perché contraria alla legge. Una violazione rispetto alla quale sarebbe quindi ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’articolo 448 c.p.p., comma 2-bis, perché rientrante nei motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato così Sez. 6, numero 27606 del 16/05/2019, Corrà, Rv. 276219 . 2.3. Si tratta di un principio che deve essere esplicitato. Nella consapevolezza che non è questa la sede per approfondire la questione della natura giuridica della sentenza di patteggiamento, è utile, tuttavia, evidenziare come sia la giurisprudenza di legittimità per tutte, Sez. U, numero 17781 del 29/11/2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518, in cui la Corte ha espressamente richiamato la sentenza della Corte Costituzionale numero 394 del 2002, di cui si dà conto nel testo Sez. U, numero 35738 del 27/05/2010, Calibè, Rv. 247841 Sez. U, numero 3 del 25/11/1998, dep. 1999, Messina, Rv. 212076 077 078 Sez. U, numero 5777 del 27/03/1994, Di Benedetto, Rv. 191134 135136-137 , che quella costituzionale, non abbiano mai dubitato, pur nell’ambito di impostazioni differenti, della portata costitutiva dell’accordo negoziale sotteso alla sentenza di applicazione di pena. Quella dell’accordo è una tematica complessa, che evidenzia una molteplicità di profili statici, attinenti, cioè, alla struttura del patto, dinamici, relativi alla formazione della richiesta e del consenso, patologici, inerenti ai vizi che possono inficiare la volontà delle parti. Dal punto di vista strutturale, sia che si voglia intendere il patto come un negozio bilaterale sinallagmatico, sia che si voglia fare riferimento alle impostazioni secondo cui il negozio sarebbe trilaterale, sia, ancora, che ci si intenda riferire agli indirizzi secondo cui il patteggiamento non sottenderebbe un sinallagma, ma un congegno che si estrinseca in un due dichiarazioni convergenti, non si dubita che l’area negoziale è dal punto di vista contenutistico legislativamente predefinita e chiusa nei confini di cui all’articolo 444 c.p.p., nel senso che il patto cui le parti pervengono è vincolato alla tipicità dei contenuti codicisticamente stabiliti e a quelli ad essi legislativamente correlati l’accordo interviene sull’intero contenuto che si chiede al giudice di ratificare. Da tali premesse si fa discendere l’individuazione delle fonti di legittimazione dell’istituto, costituite in quel consenso che l’articolo 111 Cost., comma 5 annovera come ipotesi di legittima deroga al contraddittorio nella formazione della prova, nonché in quel diritto di difendersi negoziando, secondo cui può essere declinata la regola fondamentale statuita dall’articolo 24 Cost., comma 2. Non si dubita, peraltro, che la richiesta dell’imputato di applicazione di pena costituisca un atto personalissimo, in quanto implicante un irreversibile disposizione di diritti fondamentali seppur nell’ambito dei poteri di controllo del giudice, che può in presenza di determinate condizioni sciogliere il patto, la parte, rinunciando a diritti fondamentali, chiede, attraverso l’accordo, una determinata pena rispetto al quadro normativo in quel momento vigente, e dal contenuto di tale richiesta, raggiunto l’accordo, non può più recedere. Questo, solo questo, giustifica la limitazione al potere di impugnare, ai sensi dell’articolo 448 c.p.p., comma 2-bis la parte non può strumentalmente impugnare la sentenza pronunciata che recepisce un accordo che presuppone la rinuncia a diritti fondamentali e dal quale non può recedere. Il limitato potere di impugnare previsto dall’articolo 448 c.p.p., comma 2-bis, si giustifica tuttavia in relazione alle statuizioni della sentenza che sono ricognitive di un patto fondato sulla rinuncia a diritti fondamentali Sez. U, numero 21368 del 26/09/2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348 , ma non anche per quelle che sono invece espressione di accordi conclusi in violazione di una condizione di ammissibilità della richiesta di accesso al rito. 2.4. Il tema attiene al rapporto tra il profilo di negozialità del rito e quello dei poteri di verifica e di accertamento del giudice. Si è evidenziato come il controllo del giudice si esplichi sull’intero progetto di decisione, e, più in genere, sulla legalità dell’accordo. La Corte costituzionale ha chiarito come il potere dispositivo delle parti, concepito in funzione di collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia con una effettiva ed immediata applicazione della pena , si inserisca in un contesto edittale predeterminato dal legislatore in cui il giudice, senza rivestire un ruolo di carattere meramente notarile , esercita una funzione giurisdizionale determinante allorché procede al controllo sull’accordo raggiunto tra le parti e alle ulteriori valutazioni di merito. Il giudice è l’organo del controllo di legalità che sovrintende all’accordo delle parti Corte Cost. numero 313 del 1990 . Il regime di impugnazione di una sentenza di applicazione di pena che recepisca un accordo fondato sulla violazione di una condizione di ammissibilità del rito non sembra in realtà riguardare l’espressione della volontà dell’imputato , cioè la possibilità che vi sia una volontà dell’imputato di accedere al rito diversa da quella manifestata, ovvero una volontà di definire il processo a condizioni diverse da quelle su cui l’accordo si è formato. Nel caso in esame, cioè, non si è in presenza di una divergenza tra il dichiarato ed il voluto da parte dell’imputato e neppure di una volontà negoziale, sottostante alla dichiarazione, viziata nel suo processo formativo. Il tema sembra riguardare non la espressione della volontà , cioè la manifestazione della volontà, quanto, piuttosto, il perfezionamento di un accordo illegale, concluso in violazione di una condizione di ammissibilità della richiesta, a cui il giudice deve porre rimedio. Una richiesta avanzata in violazione di legge, rispetto alla quale il Pubblico Ministero non avrebbe dovuto prestare il proprio consenso ed il Giudice non avrebbe dovuto recepire l’accordo, illegalmente formatosi. Dunque un regime di impugnazione della sentenza riconducibile al più generale regime previsto dall’articolo 606 c.p.p., comma 1, lett. c , ed alla inosservanza di una norma processuale stabilità a pena di inammissibilità. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio con conseguente trasmissione degli atti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pesaro per l’ulteriore corso. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata e dispone trasmettersi gli atti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Pesaro per l’ulteriore corso.