Condannato per la droga nascosta in casa: niente licenziamento

Respinte le obiezioni mosse dall’azienda. Il dipendente può considerare salvo il proprio posto di lavoro. Irrilevante, per i Giudici, il richiamo al concetto di reati infamanti a loro parere è decisivo che i fatti addebitati al dipendente non abbiano avuto alcun collegamento con l’ambiente lavorativo.

Condannato per droga. E il dipendente si ritrova a rischiare il posto di lavoro. Però la visione dei Giudici è meno severa di quella dell’azienda, e così viene dichiarato illegittimo il suo licenziamento Cassazione, ordinanza numero 22194/18, sez. Lavoro, depositata il 12 settembre . Droga. Ricostruita la vicenda, emerge che il lavoratore è stato condannato per avere detenuto stupefacenti nella propria abitazione. Quell’elemento è sufficiente, secondo l’azienda, per dare il ‘la’ al «licenziamento in tronco» del dipendente. La valutazione della società – centrata sul fatto che l’uomo si è reso responsabile di un «reato infamante» – non convince però i Giudici, che prima in Tribunale e poi in Appello dichiarano «illegittimo il licenziamento». Decisiva, secondo i Giudici, la constatazione che i fatti addebitati all’uomo «erano completamente estranei all’attività lavorativa» e quindi «inidonei ad incidere sul rapporto di lavoro». Doveri. Identica linea di pensiero adottano anche i Magistrati della Cassazione, che respingono definitivamente le ulteriori obiezioni proposte dai legali dell’azienda. Innanzitutto, i Giudici del Palazzaccio sottolineano che «il concetto di condanna per reati infamanti non è specificato nel contratto collettivo nazionale» e poi aggiungono che «esso deve comunque ritenersi strettamente collegato ad una mancanza relativa di doveri propri del dipendente nell’ambito del rapporto di lavoro». Quest’ultimo dettaglio è significativo, poiché, rimarcano i Giudici, in questa vicenda «la condanna» penale ha riguardato «fatti assolutamente estranei al rapporto di lavoro», ossia la mera «detenzione di sostanze stupefacenti», occultate dall’uomo «nel box della propria abitazione», senza la prova di eventuali «attività di spaccio», neanche «nell’ambiente di lavoro».

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 22 maggio – 12 settembre 2018, numero 22194 Presidente Bronzini – Relatore Balestrieri Fatto e diritto Rilevato che La società AMSA p.a., azienda milanese servizi ambientali, proponeva reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Milano numero 507/16, con cui venne ritenuta illegittimo a differenza di quanto ritenuto con la precedente ordinanza il licenziamento in tronco da essa intimato a D.M. il 17.7.15 ai sensi dell’articolo 68 del c.c.numero l. di categoria che prevedeva la massima sanzione in caso di condanna penale per reati infamanti, nella specie applicato per spaccio di sostanze stupefacenti avvenuto fuori dell’ambiente di lavoro e presso la sua abitazione . Con sentenza depositata il 27.9.16, la Corte d’appello di Milano rigettava il reclamo ritenendo legittima una diversa valutazione dei fatti da parte del giudice dell’opposizione, stante l’autonomia di tale fase del procedimento di primo grado così come disciplinato dalla L. numero 92/12, e rilevando che trattavasi di fatti completamente estranei all’attività lavorativa, inidonei ad incidere sul rapporto di lavoro. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’AMSA, affidato a quattro motivi, cui resiste il D. con controricorso. Considerato che 1.-Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli articolo 2119 c.c., 30, comma 3, L. numero 183/10, 18 comma 4 L. numero 300/70 in relazione all’articolo 68 commi 1 e 3 del c.c.numero l. di categoria, lamentando in sostanza che la sentenza impugnata escluse che il Tribunale fosse incorso in contraddizione per aver valutato differentemente i fatti rispetto alla fase sommaria, peraltro senza nessuna nuova acquisizione di materiale probatorio. Il moti, o è infondato essendo pacifico in tal senso anche la sent. numero 78/15 della C. Cost. che ha evidenziato il carattere sommario della prima fase, di coi ai commi 48 e 49 dell’articolo 1 L. numero 92/12, rispetto a quella a cognizione piena della fase di opposizione cfr. altresì Cass. numero 25046/15 , che il giudice dell’opposizione possa giungere a conclusioni diverse non sole in base ad ulteriori elementi probatori ma anche a seguito ulteriore e necessaria valutazione delle circostanze di causa la reclamante lamenta inoltre la violazione dell’articolo 30, comma 3 della L. numero 183/10 secondo cui il giudice deve tener conto, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo presenti nei c.c.numero l. anche tale doglianza è infondata avendo la sentenza impugnata valutato la disciplina collettiva e ritenuto innanzitutto che il concetto di condanna per reati infamanti non era specificato dal c.c.numero l. e che esso doveva comunque ritenersi strettamente collegato ad una mancanza relativa ai dover propri del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro, sicché la condanna in questione, per riguardare fatti assolutamente estranei al rapporto di lavoro, non potesse in alcun modo essere riconducibile al concetto di giusta causa previsto dalla legge, in conformità della giurisprudenza di questa Corte cfr. ex aliis, Cass. numero 1978/16 . 2.-Con secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione delle norme di ermeneutica contrattuale relativamente all’articolo 68, co.1, lett. f del c.c.numero l. di categoria, nonché dell’articolo 2119 c.c. circa la sussistenza di una giusta causa di licenziamento anche in ipotesi, pur denegata, di marcata previsione della condotta contestata tra quelle legittimanti il licenziamento. Il motivo è in parte improcedibile per la mancata produzione del c.c.numero l. comunque infondato, alla luce delle considerazioni svolte sub 1 , ove si è rilevato che la giusta causa di licenziamento per fatti extralavorativi deve comunque incidere sull’elemento fiduciario correlato all’attività lavorativa svolta ed alle mansioni affidate al lavoratore. 3. Con il terzo e quarto motivo la ricorrente denuncia sempre la violazione degli articolo 2119 c.c., 30, comma 3, L. numero 183/10, 18 comma 4 L. numero 300/70 in relazione all’articolo 68 commi 1 e 3 del c.c.numero l. di categoria, evidenziando che la sentenza impugnata aveva dato rilievo a circostanze detenzione di non meglio identificate sostanze stupefacenti, e di non meglio identificata quantità, nel box della propria abitazione, senza accertamento di attività di spaccio, tanto meno nell’ambiente di lavoro, e l’assenza di precedenti penali , che non avevano trovar adeguato riscontro nel processo. I motivi congiuntamente esaminabili stante la loro evidente connessione e che non contestano la veridicità delle circostanze evidenziate corte di merito, sono inammissibili, mirando nella sostanza ad una diversa valutazione dei fatti di causa rispetto a quella operata dal giudice di merito, tenuto peraltro ad esaminare tutte le caratteristiche del caso concreto cfr., ex aliis, Cass. numero 8826/17, Cass. numero 24809/15, Cass. numero 5280/13, etc. secondo cui la valutazione in ordine legittimità del licenziamento disciplinare di un lavoratore per una condotta contemplata, a titolo esemplificativo, da una norma del contratto collettivo fra le ipotesi di licenziamento per giusta causa deve essere, in ogni caso, effettuata attraverso un accertamento in concreto, da parte del giudice di merito, della reale entità e gravità del comportamento addebitato al dipendente, nonché del rapporto di proporzionalità tra sanzione ed infrazione, anche quando si riscontri l’astratta corrispondenza di quel comportamento alla fattispecie tipizzata contrattualmente . 4.- Il ricorso deve pertanto rigettarsi. Le spec di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese dei presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater, del d.P.R. numero 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 numero 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.