Riconosciuta la correttezza dell’operato dell’azienda, che non ha atteso la fine del ‘periodo di prova’, ma ha anticipato i tempi per interrompere il rapporto. Decisiva la valutazione sulla personalità del lavoratore.
Trentatré giorni posson bastare Nessuna necessità, per l’azienda, di attendere la conclusione del ‘periodo di prova’ – originariamente fissato, all’atto dell’assunzione, in sessanta giorni –, per poter licenziare il dipendente. Irrilevante il richiamo, fatto dal lavoratore, a una presunta genericità delle mansioni a lui affidate. Decisiva, invece, la valutazione compiuta dall’azienda non sulle competenze professionali, bensì sui profili comportamentali del dipendente Corte di Cassazione, sentenza numero 10041, sezione lavoro, depositata il 15 maggio 2015 . Prova interrotta Linea di pensiero comune per i giudici di merito legittimo il «licenziamento» adottato da un’azienda nei confronti di un dipendente «nel corso del ‘periodo di prova’». Respinte le contestazioni mosse dal lavoratore, il quale aveva duramente contestato il provvedimento aziendale, ufficializzato, come detto, durante il ‘periodo di prova’ «pattuito, all’atto dell’assunzione, in sessanta giorni ed interrotto al trentatreesimo giorno». Per i giudici, innanzitutto, è non contestabile «l’apposizione della ‘clausola di prova’, in quanto specificamente riferita al compito» affidato all’uomo di «‘responsabile per la sicurezza’», compito per il quale «egli era privo di esperienza pregressa». E, allo stesso tempo, sempre secondo i giudici, è legittima «l’interruzione» decisa dall’azienda, poiché poggiata sulla «valutazione negativa della personalità e del comportamento complessivo del lavoratore». Valutazione. E ora, nonostante le ulteriori contestazioni mosse dall’uomo, con ricorso ad hoc in Cassazione, viene confermata, in via definitiva, la legittimità del «licenziamento» deciso dall’azienda. Innanzitutto, cade l’ipotesi della mancanza di «specificità» nella ‘clausola di prova’. Rilevante, in questa ottica, spiegano i giudici, non è «l’indicazione per iscritto del contenuto delle mansioni» affidate, bensì «la piena consapevolezza, da parte del lavoratore, dei compiti e delle responsabilità cui è chiamato, e del cui adeguato esercizio deve dare prova». E in questo caso, aggiungono i giudici, emerge che «nei colloqui preassuntivi» erano state «dettagliatamente illustrate, con consegna dei relativi manuali, le incombenze proprie del ‘capo reparto sicurezza’», sicché «dalla mancata indicazione per iscritto del ‘reparto’, di cui al lavoratore veniva attribuita la responsabilità, non è dato inferire la nullità della ‘clausola’». Allo stesso tempo, poi, viene anche ritenuto corretto il «recesso anticipato del datore», seppur concretizzatosi prima dello «spirare del ‘periodo di prova’». Su questo fronte, in particolare, i giudici evidenziano il fatto che la scelta aziendale è arrivata a prescindere dalla «verifica delle competenze professionali del lavoratore». Difatti, il licenziamento è stato poggiato sui «profili comportamentali, relazionali e di compatibilità con l’ambiente di lavoro», e in questo tipo di valutazione si possono utilizzare, aggiungono i giudici, «tempi non coincidenti e più ridotti rispetto a quelli» fissati con il ‘periodo di prova’.
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 febbraio – 15 maggio 2015, numero 10041 Presidente Stile – Relatore De Marinis Svolgimento del processo Con sentenza del 9 gennaio 2009, la Corte d'Appello di Torino confermava la decisione con cui il Tribunale di Torino aveva rigettato la domanda proposta da Raffaele Pernice nei confronti della SSC Società Sviluppo Commerciale Carrefour S.r.l., sua datrice di lavoro, avente ad oggetto l'impugnativa del licenziamento intimatogli nel corso del periodo di prova, pattuito all'atto dell'assunzione in sessanta giorni ed interrotto al trentatreesimo giorno, avendo ritenuto legittime tanto l'apposizione della clausola di prova, in quanto specificatamente riferita al compito affidatogli di responsabile della sicurezza, per la quale era privo di esperienza pregressa, quanto l'interruzione dell'esperimento per essere stato il licenziamento intimato a motivo della valutazione negativa della personalità e del comportamento complessivo del lavoratore. Per la cassazione di tale decisione ricorre il Pernice, affidando l'impugnazione a tre motivi, poi illustrati con memoria, cui resiste, con controricorso, la Società. Motivi della decisione I primi due motivi con i quali il ricorrente denuncia, rispettivamente, la violazione e falsa applicazione dell'articolo 2096 c.c. ed il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, sono entrambi intesi a censurare la statuizione resa dalla Corte territoriale in ordine alla legittimità dell'apposizione del patto di prova al contratto de quo, a motivo dell'insufficienza o addirittura dell'artificiosità delle argomentazioni da questa addotte a sostegno della ritenuta legittimità della clausola e, dunque, dell'erroneità del convincimento a riguardo espresso. Entrambi i motivi, che, per quanto detto, è opportuno qui trattare congiuntamente, risultano infondati. Va in merito rilevato come le formulate censure discendano da una lettura rigorosa della norma codicistica per cui il requisito della specificità comprenderebbe anche il contenuto delle mansioni oggetto dell'esperimento, imponendone così l'indicazione per iscritto, lettura che, nel suo estremo formalismo, non può accogliersi, dovendo, al contrario, ritenersi congruo, al fine di ritenere integrato il predetto requisito, l'accertamento della piena consapevolezza da parte del lavoratore dei compiti e delle responsabilità cui è chiamato e del cui adeguato esercizio deve dare prova. E di tanto la Corte territoriale dà ampiamente conto in motivazione, senza che qui il ricorrente avanzi alcuna smentita o, almeno, sollevi dubbi sulla rilevanza degli elementi di fatto presi in considerazione, come i colloqui preassuntivi in cui gli erano state dettagliatamente illustrate, con consegna dei relativi manuali, le incombenze proprie del capo reparto sicurezza , sicché dalla mancata indicazione per iscritto del reparto di cui al lavoratore veniva attribuita la responsabilità, non è dato inferire, come preteso dal ricorrente, la nullità della clausola. Inammissibile deve viceversa ritenersi il terzo motivo con il quale il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli arti. 2096, 1366 e 1375 c.c. nonché il vizio di omessa motivazione, censura la decisione della Corte territoriale in ordine all'ammissibilità del recesso ad nutum, per aver questa ritenuto, senza fornire, a suo dire, motivazione alcuna, l'assoluta irrilevanza, anche sotto il profilo della buona fede nell'interpretazione e nell'esecuzione del contratto, del mancato rispetto della durata convenuta del periodo di prova. L'inammissibilità discende dal non aver il ricorrente addotto alcun argomento idoneo a censurare il percorso valutativo, seguito dalla Corte territoriale e puntualmente esposto nell'impugnata sentenza, in base al quale questa aveva ritenuto il recesso anticipato del datore non essere in contrasto con il disposto dell'articolo 2096 c.c., che pur gli riconosce tale facoltà solo allo spirare del periodo medesimo, percorso inteso a dare rilievo alle ragioni in relazione alle quali il recesso era stato intimato, che prescindono dalla verifica delle competenze professionali del lavoratore, con riferimento alle quali era stato fissata la durata dell'esperimento, per riguardare invece profili comportamentali, relazionali e di compatibilità con l'ambiente di lavoro percepibili anche in tempi non coincidenti e più ridotti rispetto a quelli convenuti. Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali e altri accessori di legge.